INCONTRI-Articoli: Incontro con Maria Milagros Rivera y Garretas

by Donatella Massara on gennaio 30, 2008

Donne in relazione

Incontro con Maria Milagros Rivera y Garretas

Circolo della Rosa, 10 Ottobre 2007
vai al sito http://www.libreriadelledonne.it/

 

Marina Santini

Il tema della serata è indicato dall’affermazione “il femminismo è un’invenzione che ci ha cambiato la vita” e dalle due domande “come raccontarlo e farne storia?” e “come interrogare i nostri nodi problematici e farne storia vivente?”. L’occasione è il libro Donne in relazione di Milagros Rivera, uscito adesso nelle librerie italiane con la traduzione di Clara Jourdan.

Tutte noi conosciamo Milagros Rivera: è un’amica della Libreria e del Circolo, ed è stata ospitata qui molte volte. Dico quindi solo due parole di presentazione per chi invece non la conoscesse.

Milagros Rivera è docente dell’Università di Barcellona ed ha contribuito a fondare il Centro di Ricerca delle Donne e la rivista Duoda. È un’autrice molto prolifica e i suoi scritti – non tutti pubblicati in Italia – sono illuminanti, per noi che siamo appassionate di storia. Ha vivi scambi con la comunità filosofica Diotima e con la rivista Via Dogana.

Abbiamo preparato per questa occasione un fascicolo in cui troverete diversi materiali: una stringata biografia di Milagros e un suo testo presentato al Simposio Internazionale delle Filosofe (Roma, 2006), proprio su storia e memoria; una recensione di Luciana Tavernini al libro che verrà presentato questa sera e infine un’intervista rilasciata da Milagros a Catania, subito dopo la presentazione del libro.

Nell’ultima pagina abbiamo infine voluto mettere quelli che ho chiamato “gli incontri di Milagros con Via Dogana”, e che risalgono all’inizio della seconda serie della rivista. A questo proposito, è interessante vedere come nel suo primo intervento (pubblicato nel numero 4, del 1992) annuncia il suo desiderio, poi realizzato, di passare da un centro di ricerca legato all’università (e quindi ai finanziamenti, ecc.) ad uno autonomo.

 

 

Luciana Tavernini

È molto difficile rendere la ricchezza e l’originalità di questo libro, impossibile da raccontare: si rischia di perderne e travolgerne l’essenziale come accade ai commenti delle poesie, dove il testo deve sempre essere davanti, o alle conversazioni intense, a cui a volte abbiamo la fortuna di partecipare, dove ciò che accade in presenza, “momenti di essere” per dirla con Virginia Woolf, può essere reso solo da una grande scrittura. Vi posso però dire che per me la lettura e rilettura di questo piccolo libro è stata fonte continua di scoperte perché il modo in cui è stato scritto chiama al confronto.

Milagros racconta la rivoluzione del femminismo (questo è il sottotitolo di Donne in relazione) e lo fa in un modo molto interessante per noi che l’abbiamo vissuta e che oggi rischiamo di vederne occultati gli elementi più vitali dall’irrealtà, per usare una parola di Elsa Morante, che i media e il senso comune diffondono. Oggi sento circolare il desiderio che questa storia sia narrata innanzi tutto per noi e per le giovani e i giovani, perché circoli e consenta di aprire gli occhi sulla realtà.

 

La scelta di Milagros è di farlo attraverso i cambiamenti del simbolico avvenuti nella sua vita, e allo stesso tempo accade che mostri quelli di molte altre donne. “Quando faccio politica del simbolico – lei dice e io concordo- mi occupo di cambiare non tanto la realtà quanto il mio rapporto con la realtà; perché è il cambiamento del mio rapporto con la realtà che mi cambia immediatamente la vita e che poi andrà cambiando la realtà”. Lei dunque mostra le scoperte del simbolico, l’”epifania della realtà”, direbbe María Zambrano, non come una serie lineare ma facendoci vedere le situazioni che le hanno fatte venire alla luce e, una volta viste, le rintraccia in canzoni e poesie contemporanee o in situazioni storiche precedenti o addirittura nelle usurpazioni che la Chiesa cattolica e la cultura greca ne hanno fatto.

Perché la scelta di fare storia così? Io faccio alcune ipotesi in base ad alcune tracce nel libro.

È una scelta di coerenza con la politica del simbolico, che non propone la contrapposizione dialettica ma la presa di coscienza nella relazione. È il partire da sé e l’esservi fedele che fanno sì che continuamente Milagros si metta in gioco con la sua personale esperienza e la sua enorme cultura, che non si chiude in specialismi e le fa parlare sia di Teresa d’Avila e delle trobairitz, sia delle canzoni di Manuel De Falla o delle poesie di Emily Dickinson, ma si apre anche a ciò che le accade sull’autobus o a una cena di compleanno e da lì fa scaturire riflessioni.

L’attenzione alle giovani le fa inserire storie perché ha notato la loro forte sfiducia nella storia. Una sfiducia che storiche e storici della sua generazione, per superare il modo borghese di fare storia, hanno prodotto, riducendo al minimo il racconto con la sua bellezza e la sua arte, e sostituendolo con l’ideologia. Un oblio di sentimenti e di storie private che cela l’oblio pieno di disprezzo per l’origine.

 

Non vi è nulla di ideologico dunque in questa narrazione della rivoluzione del femminismo, che non posso ripercorrere se non con qualche cenno. Il libro, tradotto con accuratezza amorosa da Clara Jourdan, inizia con un’introduzione per l’edizione italiana che arricchisce il testo di riflessioni sulla scrittura in relazione e sulla necessità di dire verità, che sembrano essere oggi dimenticate, con parole che possano essere accolte dalle generazioni presenti, e ci racconta la pratica di relazione, in cui si scambia spirito e presenza, che lei ha sperimentato nei ritiri di Diotima, negli incontri in Libreria e a Duoda, attivissimo centro di ricerca dell’Università di Barcellona (www.ub.edu/duoda), accostandola alla metafora del “libro vivente” di Teresa d’Avila e di Teresa di Cartagena, la prima scrittrice mistica di lingua spagnola.

Seguono sette densi capitoli in cui le note sono sostituite da un glossario, dove la consapevolezza che il definire ha una grande valenza politica viene giocata nel presentarci sia concetti sia persone e personaggi sia luoghi o situazioni, e dall’elenco di libri, canzoni e poesie citate nel testo.

Infine un’appendice, intitolata Dietro le quinte di Donne in relazione. Storia di una relazione che non ha fine: l’influenza in Spagna del pensiero italiano della differenza sessuale dove vengono presentati in modo sintetico gli scambi avvenuti dal 1987 ad oggi, nominando persone, idee, gruppi, libri, incontri, case editrici e inoltre elencate le traduzioni in spagnolo e catalano di ben 27 libri e 90 articoli e saggi della produzione italiana, un lavoro questo che può costituire una modalità di costruire storia, offrendo ad altre ed altri la possibilità di approfondire e continuare.

 

Nei sette capitoli Milagros mostra la nascita improvvisa, tra la fine degli anni Sessanta e i primi Settanta, di un movimento vasto, dapprima equiparato ai movimenti sociali, in cui donne di tutte le classi sociali in molte parti del mondo presero coscienza che il malessere provato singolarmente era condiviso da altre. “Di modo che, una a una, di singola in singola, si intrecciò delicatamente tra molti corpi femminili un merletto enorme, incompiuto e libero che ci unì.” Innumerevoli relazioni duali si intrecciarono, formando un movimento politico che cambiò l’esistenza, attraversando le molte barriere di senso (classe, nazionalità, lingua, età, religione, erudizione, ricchezza…) che ingessavano ogni agire.

 

Milagros Rivera Garretas ci mostra dov’era e quello che avveniva in lei, gli interrogativi e gli spostamenti che via via si rendevano necessari. Sia nell’Università di Chicago che nell’Università di Barcellona provava insoddisfazione per le lotte, da lei pure sostenute, per l’uguaglianza dei diritti con gli uomini, perché sentiva di fare quello che si doveva fare, un effluvio morale che cozzava con la sua brama di libertà.

Inoltre sentiva che, pur nella diversità di posizioni, franchisti e antifranchisti, uomini di destra e di sinistra, non avevano posto per un’interpretazione libera di sé da parte di una donna nella loro politica, perché era basata sul dominare o essere dominati.

Seppe cogliere però anche gli aspetti positivi di ciò che criticava. Infatti continuò a riunirsi nel gruppo di donne perché quelle relazioni le davano vita e contenevano la chiave per il cambio di civiltà: la preferenza per la relazione vivente, che non si lascia oggettivare e così trasforma la politica e la conoscenza universitaria in modo che diventino capaci di decifrare la vita, che incessantemente lo richiede, per amore non per forza.

Ecco allora la sua proposta di chiamare questo tipo di relazione, che va oltre e non contro il rapporto sociale, semplicemente relazione umana in quanto comprende molto di più, ad esempio l’amore non reificato, la creazione artistica, l’empatia, la somiglianza tra i genitori e le proprie creature, il desiderio che spinge sempre oltre il già dato…

 

Ma da cos’era provocato il malessere la cui presa di coscienza diede origine al movimento?

Ripercorrendo la sua esperienza di donna emancipata, mette in luce come l’ideologia di emancipazione, necessaria per trasformare i rapporti sociali, portasse con sé il senso di orfanità per la rottura del dialogo con la madre sui fondamenti della vita e della convivenza umana, un disordine di senso perché il rapporto di una figlia con sua madre non è un rapporto sociale, una perdita terribile a cui il femminismo si ribellò. E qui inserisce un’originale riflessione sul cognome dato dal padre, che trasmette identità sociale, e i nomi propri potenti dati dalle madri alle proprie figlie, che trasmettono il senso di singolarità di ciascuna creatura, e raccoglie due intense testimonianze nelle canzoni di Luz Canal e di Ana Belén. Ma il cognome è un soprannome, che indica quanto sia sempre incerta la paternità (la figura di san Giuseppe lo ricorda). Solo il patriarcato lo ha trasformato in nome del padre e ora che è finito, il nervosismo, che porta con sé ogni fine di interessi costituiti, spinge molti a parlare di genoma umano, come se la scienza potesse scoprire e controllare i misteri della maternità, un altro modo per tentare di oggettivare la vita, di negare l’opera della madre, di ciascuna madre.

Milagros poi ci porta a riflettere, proprio a partire dalla perdita di parola che colpisce la donna maltrattata, sull’enigma del suo rifiuto a “rompere il legame perfino quando rischia la violenza e la morte”. Non è bene questo comportamento, ma solo comprendendo la dignità dell’amore per il legame, testimoniato da lei, si può aprirle una via all’amore di sé, senza farla sprofondare nella miseria della vittima.

Quando mette in luce che la creatura umana si caratterizza per il suo essere sempre in stato di deficit di ricerca, segnala come l’intendere questo come mancanza della propria metà porti alla sensazione di irreparabile solitudine e alla non comunicazione con l’altro sesso. Allora entrano in gioco le relazioni di somiglianza, che vanno trovate o create. Il “tra donne” da lei fondato è stato Duoda, ma già Christine de Pizan lo aveva nominato col concetto di ginecotopia, luogo di donne.

 

Il femminismo, termine della cui ambiguità è ben consapevole, ha cambiato anche la sessualità che è ora un fondamento della cultura e adesso la libertà sessuale, nel cui ambito trova posto anche la castità, appare come relazione non come numero di atti sessuali.

 

La riflessione sul tempo in quest’epoca in cui paradossalmente ci sembra sempre che manchi pur essendosi allungata la vita, mostra l’esistenza di due tempi: quello della fretta, Crono, e quello del senso e delle relazioni umane Kairòs, e si allaccia alla riflessione sulla lingua come dono della madre. Tempo e parole che le donne, oggi in epoca di grandi migrazioni, portano con sé e fanno circolare, costruendo civiltà interculturali, che la tradizionale concezione dell’antropologia vorrebbe invece attribuire alla legge dell’esogamia e non alla donna che si sposta.

 

Ma la prova del fuoco dell’amore è nell’essere figlia ed essere madre, in questa relazione che per significare liberamente il nostro corpo avevamo rotto. Onorare mia madre, dove la difficoltà era proprio nell’onorare e nel mia, ci ha permesso di scoprire l’autorità di lei e così trasformare il rapporto con noi stesse, che siamo la sua opera. Attraverso l’esperienza di essere madri molte di noi hanno percepito che la relazione con la creatura non era né di schiavitù né di servizio, ma di disponibilità.

Spendendo molte energie nella rivoluzione sociale avevamo rotto, insieme alle catene, molti legami, tra cui quello primordiale e primo che unisce la creatura umana a sua madre.

Ma il movimento delle donne ha avuto la capacità storica di fare rivoluzione sociale e insieme di preservare questo legame, fondante l’ordine simbolico che la madre ci dà. Questo per Milagros e per me è stato “il suo principale trionfo, un trionfo che riassume brevemente una storia parecchio grande.”

Questi alcuni dei temi toccati dal libro, un libro necessario che nella sua brevità e intensità, come per le poesie o i momenti d’essere, deve essere letto e vissuto direttamente.

 

 

Marirì Martinengo

Ringrazio Milagros per aver accettato il nostro invito a venire a Milano per parlarci del suo libro “Donne in relazione”, continuando anche in questo modo la sua ormai trentennale relazione con noi della Libreria delle Donne di Milano, con la nostra Comunità appassionata di storia e di politica e con me. Il libro si inserisce a pieno titolo in questo nostro contesto.

 

Milagros, creatrice di pensiero e di pratiche, fondatrice di luoghi eccellenti di donne, lavoratrice infaticabile, da molti anni si è fatta e si fa anche tramite del pensiero della differenza a Barcellona e in Spagna, traducendo in spagnolo testi fondamentali filosofici, pedagogici, linguistici scientifici, politici di Luisa Muraro, Lia Cigarini, Anna Maria Piussi, Clara Jourdan, della Comunità filosofica Diotima, della Comunità Ipazia e numerosissimi articoli, il cui elenco si trova nell’appendice del libro Donne in relazione, appendice dedicata appunto alla storia della relazione “che non ha fine” con noi. Collabora a “Via Dogana” con articoli e traduzioni e invita a collaborare alla rivista spagnolo/catalana Duoda, di cui è una delle fondatrici; partecipa, quando i suoi impegni lo consentono, alla redazione aperta di “Via Dogana” e ai ritiri filosofici di Diotima.

 

Noi della Comunità di pratica, riflessione pedagogica e di ricerca storica l’abbiamo interpellata più volte, ricevendone generosa risposta, come interlocutrice privilegiata nel nostro percorso volto a tenere unite storia e politica senza perdere di vista l’aspetto pedagogico del nostro fare; in seguito al nostro invito, Milagros ha partecipato con un contributo originale al convegno “Cambia il mondo cambia la storia”, tenuto a Milano nel 2001.

 

L’anno scorso io le ho chiesto di venire qui al Circolo della Rosa per parlare con me del mio libretto “La voce del silenzio”, dedicato a mia nonna: la sua interpretazione ha messo in luce e valorizzato aspetti di questo testo che a me stessa autrice non erano parsi così rilevanti e portatori di cambiamento; in seguito al risalto dato da lei alla mia “storia vivente”, vista come un radicale partire da sé, ho potuto elaborare la chiave di lettura dell’inconto di oggi, e il progetto cui stiamo lavorando con Laura, Luciana e Marina, ciascuna delle quali, all’interno della nostra Comunità, si comporta già e continuerà a comportarsi analogamente, estraendo da sé e mettendo in parola, il non mai detto, l’ingombro interiore che fa ostacolo, nella scommessa di produrre elementi di simbolico per la nostra politica, finalizzati a “fare storia”.

E da qui misuro il kalòs kai agazòs della relazione, della mia relazione con Milagros: la sua capacità di una risposta che fa progredire, migliora, di una corrispondenza puntuale e vigorosa che porta a livelli più alti.

 

Ma non posso non ricordare che la mia relazione con lei ha toccato anche aspetti più personali: quando anni fa mi sono recata a Barcellona per sottopormi a delle visite mediche, ho trovato Milagros ad accogliermi, a favorire gli appuntamenti coi medici, a starmi vicina, ad assistermi all’occorrenza.

 

 

Maria Milagros Rivera y Garretas

Innanzitutto, grazie della generosità grande della vostra presenza, e anche della pazienza di ascoltarmi leggere in italiano. Ringrazio molto la “Comunità di riflessione pedagogica e ricerca storica” – Marirì, Luciana, Marina e Laura –, la Libreria delle Donne e il Circolo della Rosa.

Questo libro è stato per me una epifania della mia propria realtà, di una realtà che mi ha fatto male dall’adolescenza alla maturità, anche se il libro mi è venuto fuori solo parecchi anni dopo la maturità.

Adesso posso riconoscere, grazie all’invenzione simbolica di Marirì Martinengo che dice: “c’è una storia vivente annidata in ciascuna/ciascuno di noi”, che scriverlo è stato, finalmente, per me, il mostrarsi e rendersi indipendente di un peso che io portavo senza saperlo. Per questo il libro l’ho scritto quasi tutto d’un fiato, in un’estate, e solo a memoria, senza documentarmi, con i ricordi che mi si presentavano via via, e tirando un filo che si lasciò tirar fuori senza grande difficoltà. Perché le mie difficoltà erano esistenziali e probabilmente erano già state consumate e logorate a forza di farmi compagnia per molti anni. Che il filo che venni tirando fosse davvero un filo e non una convenzione, l’ho saputo molto dopo, leggendo in una recensione di Luciana Tavernini a questo libro una frase che dice: “Ci troviamo di fronte a una storia collettiva, in cui molte di noi possono riconoscersi e che le giovani possono conoscere, confrontandosi, perché sono e siamo chiamate a verificare se condividiamo le riflessioni proposte e le pratiche narrate”.

 

Cosí, credo che la scrittura di questo libro concluse una maniera mia di stare al mondo e lasciò passare la possibilità di un’altra maniera diversa. Quando studiavo antropologia culturale, questo l’avrebbero chiamato un rito di passaggio, ma fu qualcosa di più e qualcosa di diverso. Fu l’affrontare una contraddizione che mi perseguitava da sempre, guardarla in faccia, riconoscerne l’origine, tirarla fuori. La contraddizione era questa: pur essendo stata sempre una buona studentessa, ed essendo mia madre e mio padre laureati colti e studiosi, con un grande amore per la lingua, io mi sentivo un’intrusa nell’università e nelle società scientifiche, e per molti anni ho sofferto per la paura di essere smascherata. Non sapevo chi mi avrebbe smascherato, né perché, dato che quelli che avevano potere su di me mi davano tutto o quasi tutto ciò che chiedevo, ma era così: io avevo paura di essere scoperta come intrusa. Un po’ come Jane Eyre temeva di essere presa per bugiarda.

 

Fin da giovane ho voluto essere professoressa di università. Lo volevo per me, perché mi piaceva e perché sapevo che lí gli orari erano irregolari, non bisognava timbrare il cartellino e nemmeno alzarsi presto la mattina né fare ogni giorno le stesse cose. E lo volevo perché mia madre mi aveva inculcato senza dirlo, come una “voce del silenzio” e pertanto senza possibile appello, la sua propria storia. Mia madre – l’ho saputo che ero ormai adulta – fu espulsa dall’università nel 1941, alla fine della Guerra civile spagnola, nonostante lei avesse vinto la guerra.

 

Tra i ventidue e i trentadue anni, fui borsista in Vaticano e in diverse università. Ero sempre in cerca del posto in cui mi sarei sentita finalmente a mio agio, il posto nel quale non avrei più avuto paura di essere smascherata. Alla fine di quei dieci anni, mentre ero borsista per un post dottorato e Visiting Fellow alla Johns Hopkins University, mi resi conto del fatto che il posto che cercavo non esisteva, e che se lo volevo avrei dovuto fondarlo. Ricordo ancora il momento della presa di coscienza. Stavo seduta in una riunione di Dipartimento che, come al solito, mi annoiava. Di colpo, la mia attenzione fu presa dall’unica professoressa fissa che c’era lì, seduta un po’ indietro, accanto al muro, che non poteva parlare perché aveva avuto un’emorragia cerebrale. L’avevo già vista prima ma non ci avevo fatto caso. Ci guardammo e seppi che avevamo qualcosa in comune e che se continuavo a stare lì anch’io sarei stata sacrificata. Suona drammatico, ma fu esattamente cosí. Credo che questa sia stata la mia preparazione per poter intendere la politica della differenza sessuale, che scoprii pochi anni dopo, leggendo la prefazione di Guglielma e Maifreda sul tavolo delle novità della Libreria delle donne di Firenze.

 

Scrivere questo libro – che in realtà mi fu commissionato da Anna Monjo, la direttrice della casa editrice Icaria, che un giorno mi disse di scrivere quello che volevo sul femminismo – mi ha aiutato a sbriciolare il vissuto distruttivo di sentirmi un’intrusa nel posto in cui stavo e in cui volevo stare. Ho scoperto che avevo paura perché, nonostante tutti i miei titoli, ero una solenne ignorante. Cioè, ho scoperto che avevo ragione ad avere paura, che ero effettivamente un’intrusa. Ma a scoprirlo mi è anche venuto da ridere. Da ridere perché mi si è affacciata, come facendomi l’occhietto, l’idea che la mia ignoranza poteva essere un di più, un riuscire a schivare la conoscenza senza senso per far posto alla conoscenza che mi serviva.

 

Qualche settimana fa, durante la presentazione a Barcellona dell’ultimo numero della rivista DUODA, Dolo Molina, che è una allieva del nostro master in Studi della Differenza Sessuale e professoressa all’Università di Valencia, parlò della sua sofferenza rispetto alla sensazione di dover sapere sempre come rispondere, all’università, a tutte le domande. È un modo di esprimere, a molti anni di distanza, un’esperienza simile di ignoranza femminile che, nel suo caso, le blocca la scrittura della tesi, ma che nella discussione che seguì l’incontro alcune interpretammo come un di più. E che le ha fatto desiderare – secondo quanto mi disse qualche giorno dopo – di scrivere su questa sensazione di ignoranza, forse sbloccandole la scrittura.

 

 

Laura Minguzzi

Avevo preparato alcune cose sui nodi irrisolti (la parte più spinosa…): mi riferisco sia alla relazione che Milagros ha fatto questa sera, al suo racconto molto emozionante, sia a quella che aveva fatto al Circolo della Rosa nel giugno 2006.

Nell’ incontro del giugno 2006 qui al Circolo della rosa sul libro di Martinengo La Voce del silenzio, nel tuo intervento, Milagros, mi ha colpito la tua affermazione che rivelava una scoperta, e cioè che le storiche che fanno storia delle donne sono le prime a non essere libere. Perciò il partire da sé, cioè quello che noi consideriamo il primo criterio di validazione per una storia vivente non neutra (il secondo essendo la relazione non strumentale con l’altro), è, secondo me – che sono una storica dilettante, guidata dalla passione politica –, uno dei nodi irrisolti che io vedo come il più difficile da sciogliere. Questo punto è ricco di implicazione in quanto copre in prima istanza la pratica politica quotidiana e il riuscire a imporsi come autorità e in seconda istanza ha una ricaduta nel fare ricerca e storia vivente.

Io mi sono interrogata e mi sono chiesta se non ci siano dei prezzi troppo alti da pagare e quali siano, in termini materiali o di sofferenza, che rendono opaca e poco interessante la storia che ci viene raccontata o che noi raccontiamo, e che pur ispirandosi al femminismo dimentica la più elementare e prossima delle fonti, cioè la propria storia.

Nel tuo intervento, sul libro Donne in relazione, che tu dici essere stato una epifania della tua realtà, dai un grande riconoscimento a Marirì Martinengo per averti dato una forma simbolica, un contenente o significante (la storia vivente, annidata in ciascuna-o) dentro cui collocare la narrazione della tua sofferenza e del tuo desiderio di libertà rimasto soffocato e nascosto per tanti anni, qunado dici che ti sentivi una intrusa nel mondo accademico..

Questo circoscrivere e individuare il peso che ognuna porta e liberarsene con lo strumento della narrazione è la strada seguita da Marirì col suo libro La voce del silenzio. Con questa operazione simbolica ha liberato energie prima bloccate e le ha rese accessibili alle tante donne “fondatrici di nulla” – citando George Eliot in Middlemarch –, e ha creato un possibile percorso collettivo di storia vivente. Perché tu, Milagros, hai fondato un luogo dove sentirti libera e non una intrusa, visto che nella realtà quello che cercavi non esisteva, ma non potendo essere tutte fondatrici…

 

Qui introduco il secondo nodo irrisolto emerso nell’incontro di mercoledì 10 ottobre qui al Circolo con il gruppo Archivia del Circolo della Rosa di Verona, e cioè la separazione innaturale e nociva fra memoria e ricerca storica. Da un lato è come ci fossero le storiche per passione politica, che hanno un progetto di storia del femminismo veronese e si collocano dal lato della memoria, e dall’altro chi si occupa in modo dotto ed erudito della ricerca storica.

Il problema aperto che voglio porre è questo: può l’invenzione di Marirì della storia vivente rompere questo procedere parallelo e politicamente pericoloso, in quanto sottrae efficacia ed autorità sia alle une che alle altre?

Marirì una volta, in uno dei nostri incontri ristretti, disse di non sentirsi completamente redenta, libera, riscattata dopo il lavoro del racconto della nonna, emblematico di una vita infinatamente oscura ….

Cosa manca? Qual è oggi il nodo irrisolto?

 

 

Liliana Rampello

Innanzitutto ingrazio Milagros: il libro è bellissimo, e ha una straordinaria felicità di scrittura, che significa forse in parte anche la risoluzione, nella passione della lingua, dei nodi che non si possono risolvere solo con la ragione. Questa passione della lingua è una forma con cui lei guarda al problema e trova nella forma stessa della scrittura la possibilità di mantenere aperta la contraddizione, di attraversarla, senza bisogno di risolverla. Questo è uno degli elementi che nella scrittura di Milagros mi colpisce molto, così come mi colpisce la sua capacità di accendersi di una passione straordinaria in alcuni passaggi, veramente bellissimi.

 

Volevo poi riprendere questa questione che appassiona voi storiche, e a che me invece appassiona dal punto di vista della letteratura: questo significante (come lo hai chiamato tu, Laura) che Milagros ha imparato da Marirì, della storia vivente, che le permette di raccontare una storia collettiva.

Avendo io più un’attenzione alla forma letteraria dell’autobiografia, trovo che quando Milagros dice che lei ha solo trovato, in realtà ha fatto di questo suo trovare una grande invenzione: l’invenzione di un’autobiografia che non ha più al centro un io egocentrato. È invece un io continuamente in relazione che si mostra, e quindi, in qualche misura, da questo punto di vista anche per quel che riguarda le categorie della letteratura, si disfa l’autobiografia così come finora è stata concepita, e la si mostra nel suo farsi con altre. Nel fatto che ogni essere umano è fatto del suo rapporto con altre e con altri. Questo secondo me è interessante perché “strappa” – diciamo – moltissimi altri grandi testi, che sono spesso stati confinati in quelle che vengono chiamate le letterature minori, tipiche della scrittura femminile nei secoli (le lettere, i diari, ecc.), e li risolve in una forma nuova. Mentre vi sentivo parlare pensavo alle lettere di Madame de Sévigné a sua figlia (un’autobiografia), a Sido di Colette (un’autobiografia), all’autobiografia di Alice Toklas, che secondo me è il più grande esempio di autobiografia di una relazione… Questo Donne in relazione è l’autobiografia di Milagros, ma lei non si mette in un centro che egoicamente vuole dominare la sua stessa vita, ma la lascia passare attraverso il suo corpo, e quindi attraverso tutto quello che le è successo; e questa secondo me è una buona invenzione letteraria…

 

Poi ci sono moltissimi altri punti, che nominava prima Luciana, che nel testo sono molto importanti, per cui questa autobiografia relazionale (cioè l’autobiografia attraverso ciò che ci capita, che capita nel mondo e ci capita) diventa anche, in controluce, un bellissimo testo contro l’emancipazione, contro il desiderio di potere, senza che nulla di tutto ciò venga messo a tema in chiave ideologica, o in chiave contenutistica. Si sente, cioè, che la libertà cammina se tutto ciò viene abbandonato; si sente ciò che ha preso e anche tutto ciò che è stato lasciato cadere. In questo senso, i punti che nominava Luciana sono tutti di estrema bellezza: sia quello sulle donne maltrattate e l’amore, sia quello su quel che ci porta una donna da un altro paese, una donna lontana da noi… Sono tutti pensieri lucidissimi e scritti davvero in forma magnifica.

 

 

Traudel Sattler

Anch’io ho trovato particolarmente efficace questa scrittura, questa vicinanza tra il racconto della tua storia, i ricordi del primo femminismo (e anche una nuova interpretazione di quello che succedeva lì), le canzoni popolari, le trobairitz … Tutto questo insieme mi è sembrato una scrittura estremamente forte e felice, e quello che mi ha particolarmente colpita (come già diceva prima Luciana) è l’invito al confronto: questo libro mi ha fatto l’effetto chi chiedere a me stessa «e io? Come faccio io?». Questo tuo coinvolgimento in prima persona invita chi legge a interrogarsi su se stessa, ti muove qualcosa dentro.

Il tuo fare, il tuo pensare, ha anche un grande respiro: quello che tu dici è come uno sguardo nuovo su tante realtà del mondo che ci circonda (le donne immigrate, la sessualità, ecc.) e invita anche me a pensare, a chiedermi come posso comportarmi, a questo dare, sapersi dare, come base di una società multiculturale.

 

 

Annamaria Rigoni

La prima cosa che mi è venuta in mente è la mia storia, il mio rapporto con il femminismo, che per me è stato un momento centrale, sicuramente costitutivo della mia identità attuale: non posso pensare cosa sarebbe successo se questa cosa non ci fosse stata.

Rispetto al sentirsi femminista: è una parola che usavo un po’ di anni fa; mi sono accorta che negli ultimi anni non la uso più… magari uso altre parole, dico che faccio la politica delle donne, che credo nella politica della differenza. “Femminista” invece è una parola collegata, nella mia mente, a una fase del passato, che si è trasformata in qualcosa di diverso. Però circa un mese fa, in una riunione qui al Circolo in cui questa parola è stata nominata, mi è capitato di sentire che c’era nei suoi confronti come un grande attaccamento, un grande affetto presente, oggi… Questo mi ha fatto molto pensare: come da un lato io la sentissi per me come una cosa costitutiva di un percorso individuale che mi aveva portato a qualcos’altro, mentre per altre è un legame forte e presente. Anche per me è un legame forte e presente, ma questo stare tra il prima e il dopo mi ha fatto molto pensare; così come quel che è costitutivo dell’identità, oggi… Mi sono chiesta se è una parola che posso ancora utilizzare, o se è più legata a una fase di movimento… Mi interessa che venga ripresa, come parola, e rivisitata, rivitalizzata.

 

 

Maria Milagros Rivera y Garretas

Fai una domanda/affermazione molto importante. Anch’io mi sono interrogata molte volte su questa parola… Io resto affezionata alla parola femminismo, perché penso che sia una delle parole che tengono il testimone di questa storia discontinua delle donne, di questa storia interrotta; la parola mi tiene la memoria: anche la memoria della discontinuità, di quell’interruzione, rispetto al movimento più “di strada”…

Poi ho visto altre cose, tenendomi fedele a questa parola (come faccio, e non solo per fedeltà, ma perché veramente sento un legame). Nel contesto politico in cui mi muovo – in Spagna in generale, e a Barcellona in particolare –, ho notato che i miei coetanei e alcune delle mie coetanee (soprattutto gli uomini, ma anche donne, specialmente quelle che sono politiche professioniste) sono felici se una femminista dice «io non sono femminista». Al contrario, ho osservato che tra i miei studenti e le mie studentesse (che hanno tra i 18 e i 22 anni) sento un sollievo, se dico che sono femminista: e questo mi porta un messaggio in positivo, di qualcosa che storicamente non so cosa voglia dire, ma che sta lì… I miei coetanei pensano «finalmente abbiamo vinto», mentre i giovani (e soprattutto i maschi) figli e figlie di femministe, sentono un sollievo, e questo mi piace. Resto affezionata a questa parola, anche perché ormai è una parola della storia che ha entrambi questi sensi: quello di una storia interrotta, ma che ti tiene un ponte, una mediazione; e quello del significato che ha per i giovani, le giovani, adesso… forse questo ha a che fare anche con la propria fedeltà, perché loro danno valore alla fedeltà: mi vedono femminista e dicono «quella sembra femminista e poi dice di esserlo»… È una fedeltà che possono anche amare…

 

Riguardo a quello che ha detto Laura (che ha fatto domande molto difficili), c’è una cosa su cui non sono d’accordo. Tu dici «non tutte possono essere fondatrici», e invece io dico di sì. Noi donne fondiamo sempre: una vita (che non è poco), una casa… Siamo grandi fondatrici. Anche noi, quando abbiamo cominciato Duoda, non avevamo niente e non lo volevamo nemmeno: in quel momento avere soldi facili sarebbe stato un modo di tornare indietro nel pensiero, nella politica. Volevamo essere anche povere, star lì insieme, avere un piccolo posto in prestito…

 

Molte delle cose che sono state dette qui sul libro mi facevano chiedere come ho trovato, io, la parola… E ho ricordato una frase, un pensiero di Teresa d’Avila: giocava a scacchi con una donna più giovane, che a un certo punto dice «non ho uscita, non c’è uscita»… e Teresa le risponde «c’è sempre un’uscita: all’aria…».

 

 

Lorella Zanardo

Volevo ringraziare Maria Milagros. Ha detto una cosa, oggi, che mi permetto di ripetere anche per me: «il mio merito è trovare».

È stato anche il mio, nel senso che io ho trovato lei; l’ho trovata casualmente (non sono un’esperta di studi di genere…) quest’estate, quando ho letto Nominare il mondo al femminile

Èd è successa una cosa particolare: io sono imprenditrice, ho fatto il manager in un mondo maschile per tanti anni; quindici giorni fa sono stata a Oslo, a una conferenza con 750 donne provenienti da 40 paesi diversi, dove mi hanno invitato a parlare come relatrice. Il suo libro ha cambiato completamente quello che sono andata a dire: è arrivato in un momento della mia vita in cui già stavo facendo un percorso, e gran parte della mia relazione è stata ispirata dal suo libro. Ho cercato di “tradurlo”, di renderlo il più possibile fruibile a un pubblico di questo tipo, di donne manager e imprenditrici, tra cui moltissime americane, anche molto dure verso certe posizioni. Ho fatto in modo che tutto quello che avevo imparato, e che partiva dal racconto autobiografico, passasse in modo molto serio e molto onesto. Quello che è accaduto è stata una grande sorpresa… un po’ un piccolo miracolo, nel senso che queste parole sono arrivate. Ho cercato di rendere il tutto fruibile a un pubblico che all’inizio era abbastanza ostile… il titolo della mia relazione era “Alla ricerca dell’autenticità”… Una ricerca che per me è stata dolorosissima, come lo è sicuramente per tutte le donne che erano lì, consapevoli o meno che ne siano. Forse il passaggio più sentito è stato quando ho riportato quella parte in cui lei dice che nominare il mondo al femminile è un’arte, e che ogni donna deve trovare il suo modo di vedere il mondo, di essere al mondo. Quello delle donne manager e imprenditrici è un mondo in cui per tanti anni abbiamo solo seguito il modello maschile… Per me è stata veramente una rivoluzione capirlo e accettarlo, e per questo volevo ringraziarla.

 

 

Marina Santini

Mi ha colpito che Milagros abbia detto di aver scritto questo libro (che io considero un libro di storia, perché c’è dentro la sua storia, ma anche la mia storia, la storia di tutte noi) in un’estate, senza documenti. Mi ha colpito perché è un percorso che in qualche modo sto facendo. Un paio d’anni fa ho partecipato alla costruzione di una mostra sul femminismo (Noi, utopia delle donne di ieri, memoria delle donne di domani), utilizzando una gran quantità di documenti, di materiali di vario genere, ripescando memorie, fotografie… Questo lavoro ha impegnato per molto tempo diverse donne di varie provenienze; abbiamo lavorato parecchio nella ricerca dei materiali (e anche litigato parecchio), ma tanto di quello che io volevo è rimasto fuori. Abbiamo prodotto un bell’oggetto, che però mi è rimasto sostanzialmente estraneo.

Adesso sto facendo piazza pulita di tutto questo, e sto ricominciando a ripensare il tutto a partire da un altro punto di vista, utilizzando quello che mi viene da dentro, le mie parole, affrontando le cose in un altro modo. Certo, il documento è necessario, serve un po’ come traccia, però non è da lì che parto più. E questo è il passaggio che penso di aver ritrovato qua.

 

 

Maria Milagros Rivera y Garretas

Per me è stato facile fare questo movimento, questa mossa, e non me lo sarei mai aspettato. È stato facile perché Anna Monjo mi ha detto: «assolutamente senza note; questo libro si deve leggere in un viaggio in treno» (i viaggi in treno, in Spagna, sono ancora lunghi…). Allora mi sono chiesta: «come faccio, io, a stare nel femminismo?». Le canzoni sono quelle che sento tutti i giorni, non le dovevo documentare… Ho scritto di quello che faccio mentre lavoro, e basta. Nel femminismo avevamo parlato tante volte del metterci al centro… invece non è un centro, ma semplicemente quello che fai tu. C’è questa confessione, in un certo senso. Per questo, anche, mi ha colpito molto l’espressione di Marirì, la “storia vivente”. C’è la storia vivente nascosta, annidata, ma anche quella che non diciamo, non raccontiamo mai perché è troppo evidente, e invece è molto vera e dice molte cose di quel momento storico lì…

 

 

Liliana Rampello

Mi sono venute in mente alcune cose, mentre parlava Marina e anche a proposito di quel che diceva Lorella. Lorella ha usato un termine secondo me importantissimo: autenticità. In effetti il segno che arriva immediatamente a chi legge è proprio quello dell’autenticità.

Però Marina ha ribadito che questo è un libro di storia, e allora volevo fare una precisazione, rispetto a quello che dicevo prima. Siccome io penso che la memoria autentica sia il lascito dell’oblio (se no non c’è memoria, ma una serie di ricordi che si possono anche accumulare in modo da renderti impotente; la memoria è quello che resta quando tutto è dimenticato), volevo precisare che quando dicevo che si tratta di un’autobiografia, lo dicevo pensando al fatto che Lia Cigarini ha detto che la libertà femminile è una libertà non in capo alla singola, ma relazionale. Ecco: qui c’è in gioco un io libero, e dunque in questo senso è un’autobiografia relazionale. Volevo fare questa precisazione perché l’autenticità si lega a quest’idea di libertà, che nel libro corre molto forte.

 

 

Luisa Muraro

Nelle parole di Marina ho sentito anche un problema. Che questo libro, Donne in relazione, sia stato scritto senza documenti è una particolarità di questo testo. Una particolarità non è una cosa insignificante; al contrario: è una cosa altamente significativa. Ma non assurge, secondo me, a canone o a modello.

Nego che si possa scrivere a propria volta senza documenti.

Come lo dice Milagros io lo registro, ed è un dato importante. Ma nella tua ripresa di questo ho sentito nascere il problema che questa diventi come un’indicazione modello, canonica.

Invece io sento l’esigenza che del femminismo si parli con i documenti. È terribilmente difficile, tu lo sai… Io lo so per quei pochi tentativi che ho fatto, per esempio quando si è trattato di raccontare la storia di Diotima, perché far parlare la soggettività, l’ascolto della soggettività può aprire addirittura degli elementi abissali. La soggettività femminile non è lingua corrente, non è moneta corrente. La soggettività femminile ha aspetti che sono folli, dal punto di vista dell’ordine di questo mondo; sono follia, e sono anche stati follia. La soggettività femminile in certi casi per poter parlare è andata ad assumere il linguaggio della follia, e lo fa ancora, probabilmente. Il problema è proprio questo: che su questa soggettività femminile secondo me bisogna lavorare, come storiche o, nel caso mio, come narratrice di idee, raccoglitrice di idee, del pensiero delle donne. Bisogna lavorare per ancorare la soggettività femminile a quello che corre in questo mondo, ma secondo autenticità. Questo è il problema che io segnalo: so bene che Marina ne è consapevole e mi piacerebbe sapere quello che ne pensa Milagros. Non so se mi sono spiegata abbastanza: mi sono rifatta a uno scambio che ho con Marina a proposito di quella mostra, quindi con lei mi intendo bene. Non so invece se tu, Milagros, cogli qual è la cosa che cerco di segnalare come problema. Il problema è di scrivere una storia del femminismo con parlante soggettività di donne e che sia una storia con documenti. I documenti, quando vengono proposti, rapidamente si rendono leggibili secondo un ordine che non ascolta la soggettività femminile, ma secondo un ordine che ridicolizza certe parole: la stessa parola femminismo, femminista è suscettibile di essere assunta come qualcosa di ridicolo o ideologico o datato o inutilmente polemico… Tu hai detto «quando dico agli studenti, alle studentesse “sono femminista”, loro apprezzano»: ma quello è un contesto preciso, tu sei docente lì…

Ci sono cose di quello che è stato o che tuttora è il femminismo che non si riesce a mostrare, secondo i loro documenti, con quel senso profondo, prezioso, importante che hanno avuto e che hanno biograficamente nell’esperienza di quelle che le hanno vissute: questo è il punto.

L’aspetto più pubblico e corrente della mia esperienza femminista, di donna che è stata e che è legata al movimento femminista, è l’aspetto meno presentabile.

Allora devo fare la scelta se presentare me stessa e basta oppure se devo accettare questi legami con quello che è il femminismo, e a quel punto fare che non prevalgano stereotipi, luoghi comuni, pregiudizi e tutte le cose che assediano quello che sto dicendo, rendendolo incomprensibile, uccidendo tutto quello che è la ricca esperienza di libertà di una donna. Non so se sono riuscita a spiegarlo… Detto in parole semplici: quello che tu hai ottenuto senza documenti si tratta di ottenerlo con i documenti, perché di storia si tratta, e quindi anche di documenti.

 

 

Maria Milagros Rivera y Garretas

Mi rimetto a una parola che usavi tu (Luisa Muraro) a Barcellona mercoledì scorso: lo sproposito. Dire che ho fatto una storia senza documenti è uno sproposito… Però non è vero… è vero nel senso che non sono andata in archivio; io sono storica del Medioevo e vado sempre in archivio, prima di tutto. Ho pensato «io sono un documento», e per me questo è stato lo spostamento. Dico sempre che io faccio politica all’università; sono anche nel movimento delle donne, ma per me la misura dura della politica è veramente all’università. Quello che ho fatto negli ultimi vent’anni è stato soprattutto scrivere, tentare di scrivere, preparare lezioni, correggere scritti di altre e altri… L’ho fatto soprattutto a casa mia, perché fino a un anno fa in università avevo uno studio in cui era impossibile lavorare. Allora mi sono seduta a casa mia, nei posti dove ho pensato, lavorato e ho documentato quest’esperienza. In questo senso è una storia senza documenti. Quello che cerco di dire con quello che tu chiamavi sproposito, e che a me serve adesso, è che una storica deve lasciare un vuoto tra i documenti e la sua scrittura. Se non c’è mai un vuoto, se (come capita, fra le storiche) andiamo negli archivi e crediamo ai documenti più degli stessi notai che li hanno scritti, e a volte fatti falsi… Quello che voglio dire è che se c’è l’autenticità di cui parlavano Lorella e Lilli, se è vero, come è vero, che io lavoravo così e facevo queste cose, anche quella è una fonte storica. Si può anche, ogni tanto, scrivere storia senza andare in archivio. Senz’altro penso che la storia va scritta con documenti, ma anche con documenti vivi, diretti, senza altre mediazioni, nemmeno quella di un’intervista.

 

 

Lia Cigarini

Quando abbiamo scritto Non credere di avere dei diritti, quella che abbiamo raccontato era la storia di un gruppo e su quello io mi sentivo sicura che non ci fosse bisogno dei documenti: era la storia delle origini del femminismo della differenza a Milano, raccontata dal gruppo che l’aveva vissuta (e il successo di questo libro è stato che “dice” di una pratica politica).

Quest’anno (essendo l’anno delle pari opportunità) sono stati finanziati e realizzati dei documentari sulla storia del femminismo (uno dei quali è andato anche in televisione) che erano assolutamente falsi. Parlavano di qualcosa che nulla aveva a che fare con l’esperienza mia e della storia del femminismo a Milano (dal Demau a Rivolta, da Cherubini a Col di Lana, alla Libreria…); non c’era nulla ciò… C’erano dei filmati delle manifestazioni e poi interviste a donne, soprattutto romane, e addirittura dell’Unione Donna, che è arrivata dopo vent’anni, nell’’83….

Allora, a me e a altre è venuto il desiderio di fare un video sulla storia del femminismo. Ora, se io racconto la mia storia sono sicura che posso fare a meno di documenti. Non c’è dubbio, non ho niente da documentare… Ma se io intitolassi quel video “storia del femminismo”, avrei altri problemi… Dovrei specificare “storia del femminismo milanese” o “storia della pratica della differenza (mia)”… Abbiamo pensato a 40 interviste, alla storia delle varie città italiane e anche alla Germania, alla Spagna, ad altri luoghi, in base alle relazioni che abbiamo. A questo punto che cosa si fa? Io ero convinta che bastassero le interviste, in cui le donne interpellate raccontassero la loro storia… Invece discutendone sono emersi altri punti di vista: ad esempio, i tre uomini presenti mi hanno chiesto subito «ma la sceneggiatura chi la fa?», hanno sostenuto che ci vuole un’idea, un “taglio”… Poi ci vorranno dei documenti, un’iconografia… Questo per dire che credo che la questione posta da Luisa ci sia. Tu, Milagros, hai fatto la tua storia, con elementi di autobiografia. Io sarei in grado, se ne avessi voglia, di raccontare la mia. Ma se dico “storia del femminismo in Italia” (quello che io credo sia il più interessante, anche rispetto a quello americano, francese, ecc.) il problema si pone. Anche perché secondo me in questo momento è come se tu dovessi inventare la mediazione, sia con la lingua corrente che con altre generazioni e altre pratiche politiche. Ci vuole un’invenzione… A forza di discuterne forse ne verremo a capo, ma è chiaro che se si tratta di una “storia del femminismo italiano e delle sue relazioni internazionali” che deve andare in giro, essere visto, qualcosa in più della mia storia vivente ci debba essere. Non so se debbano essere i documenti o una pura invenzione, ma qualcosa di più deve essere… Altrimenti si cambia prospettiva (cosa che si può anche fare) e si fa la storia di quelle che lì parlano… Se no, bisogna inventarsi una mediazione, ad esempio con chi non sa neanche che cosa si intenda per “pratica di relazione”… A me interessa quel che diceva Luisa, e cioè che si esca dall’ambito di quelle che si leggono tra di loro. Se vuoi fare storia del femminismo credo che non si possa dire, come diceva Marina, «non mi importa niente dei documenti»…

 

 

Marina Santini

Forse non mi sono fatta capire: non volevo dire questo. Ho detto che mi ha colpito molto quest’espressione di Milagros riferendomi a me: ho lavorato su tantissimi documenti e, come diceva lei prima, ho bisogno di fare vuoto, di fare uno spazio, di riprendere le mie parole e poi ritornare sui documenti. Questo è il passaggio che intendo fare…

 

 

Luisa Muraro

Voglio solo precisare a Milagros che io non ho inteso criticare il suo lavoro. Ho detto esplicitamente che il suo libro va bene così. Il mio intervento nasceva dalla ripresa che ne ha fatto Marina, perché rischiava di trasformare in canone la tua modalità. Allora, se quella dovesse essere un’indicazione canonica, vedo porsi il problema di come incarnare la lingua delle donne e la soggettività femminile in ciò che è documentato. Il documentato, in qualsiasi forma, deve farsi trasparente alla soggettività femminile, se no c’è un problema. Detto questo, il tuo lavoro ha la sua compiutezza in sé: è quella cosa lì… Il problema non è posto dal tuo lavoro; è posto da una come Marina che, dopo essersi rotta il naso con questa mostra, bisogna che continui a romperselo…

 

 

Emma Scaramuzza

A me sembra che non a caso ci sentiamo molto stuzzicate: perché la questione che si sta ponendo è molto grossa, e riguarda anche un altro problema, di cui parlava Laura prima, cioè il rapporto tra memoria e storia. Ora, si può intendere la memoria come quella che ricorda il passato per non perderlo, e la storia come quella che soddisfa un bisogno di distanza tra passato e presente, e che induce alla ricerca di una temporalità separata dal soggetto. È una possibilità…

Questa faccenda del rapporto tra memoria e storia è grossa, perché riguarda immediatamente la questione di cui siamo parlando, quella della storia vivente – che sembra una storia che si può fare senza i documenti – e la storia tout court, la “grande storia”. Questo problema è così grosso che spesso ha creato forti separazioni tra le studiose di storia: tra coloro che facevano storia fuori dall’università e quelle che all’interno dell’istituzione si sentivano obbligate (pena il disconoscimento del loro lavoro) all’uso dei documenti, che venivano mitizzati. Tra queste due sfere, la memoria e la storia, si è quindi creata una grande separazione. Ho riflettuto molto su questa questione, anche a partire dai libri di cui stiamo parlando stasera.

Il problema, molto importante, è come riuscire a coniugare memoria e storia; da un certo punto di vista sembra facile, perché se noi guardiamo al nostro fare storia come al risultato di un essere libero di esistere, privo di compartimenti stagni, sembra che le due cose si possano mettere insieme. Ma poi la realtà è un po’ più complessa, perché questa separazione è molto codificata e non passa solo tra chi fa ricerca dentro o fuori l’università, ma anche attraverso le nostre vite.

Riflettendo, mi sono resa conto che esistono due tipi diversi di libri di storia: i libri che definisco “libri-prodotti” e quelli che chiamo “libri generati”.

I primi, spesso realizzati dentro l’università, rendono conto di una serie di scadenze legate al mercato del lavoro, pur nascendo spesso anche da una passione… ma è una passione costretta ad essere soffocata, a stare nei ranghi, per cui della soggettività di chi scrive questi libri si sa poco, come del perché e del come sia avvenuta la loro gestazione… La vita qua difficilmente esce fuori: sono dei libri noiosissimi, senza soggettività.

Quelli che io chiamo “libri generati” (come quello di Marirì Martinengo o, per certi aspetti, quello di Milagros), invece, sono libri durati una vita, risultato di anni di elaborazione, in cui c’è qualcosa che ha a che fare con la soggettività e la crescita personale, e in cui il procedere dell’evoluzione della persona è parallelo alla ricerca che si sta facendo nella storia. Questo è quello che ho vissuto anche rispetto al libro che ho scritto… Questi libri sono quelli che coniugano, tengono insieme le due istanze, quelli in cui accade quel miracolo che, intuisco, Luisa vorrebbe veder accadere.

Un altro di questi libri è quello di Franca Cleis che uscirà fra poco. Anche nel suo caso la scrittura è durata sette anni di vita… Quando mi ha chiesto di scrivere l‘introduzione, ho avuto l’idea di farmi raccontare la gestazione del libro, il suo percorso in questi anni: ne esce una storia interessantissima, che varrebbe la pena di raccontare. Il libro è su Solichon?, che ha fondato le scuole professionali femminili, e dal racconto di Franca sulla sua gestazione si scopre che lei stessa, che veniva da una famiglia poco agiata, ha avuto il primo riconoscimento, la prima spinta alla scrittura, in una scuola professionale… Il libro è diviso in due parti: una prima parte che è una sorta di romanzo, in cui quello che c’è è la sua empatia con la Solichon?, che ha creato in lei un grande cambiamento; e una seconda parte, la cui scrittura è stata successiva e sollecitata sia dalla stessa Solichon? (che voleva un supplemento di ricerca e un lavoro storico) che da me (a cui Franca aveva chiesto aiuto proprio per fare questo lavoro), in cui c’è l’enorme ricerca di archivio che aveva fatto. Il risultato è un lavoro straordinario, in cui si parla di memoria e di storia, che (come quello di Marirì) rappresenta qualcosa di nuovo perché crea una sintesi tra storia vivente e rigoroso documento storico.

 

 

Lucia Robustelli

Faccio parte di un gruppo di quattro donne del Circolo della Rosa di Verona. Mercoledì scorso ci siamo incontrate con le “pensatrici storiche” del Circolo di Milano: siamo arrivate qui attraverso la conoscenza di Marirì, che è venuta a Verona a presentare il suo libro. Lì è nata una corrispondenza affettuosa e anche emotiva molto buona, soprattutto fra noi due. Siamo volute venire a Milano perché stiamo facendo un lavoro di memoria politica del femminismo a Verona negli anni ’70-’80. A parte una di noi, che è di una generazione successiva, abbiamo tutte (più o meno assiduamente) fatto parte del movimento, e conosciamo la realtà veronese attraverso la relazione con le donne che si sono riconosciute nel movimento femminista. Dico “femminista” perché è un termine che noi usiamo abitualmente. Stiamo raccogliendo quindi i famosi documenti… Nei nostri due anni di lavoro (che vi racconto come esperienza, non come proposta di soluzione) abbiamo raccolto volantini, articoli di giornale, scritti, ma soprattutto interviste.

Però, da un lato l’esperienza di Marirì, dall’altro il film di Alina Marazzi (Un’ora sola ti vorrei), dove la memoria ritorna al presente in una realtà psicoanalitica e sociale, ci hanno fatto pensare molto, tanto che adesso ci sentiamo tutte un po’ ingabbiate da questi documenti. Sentiamo che adesso occorre una nostra rivisitazione di tutto questo. Noi non siamo storiche di professione, e abbiamo sentito l’esigenza di confrontarci con loro (Marirì, Laura, Marina, Luciana). In questo confronto, Laura ha sinteticamente fissato l’attenzione sulla realtà di non comunicazione tra noi e altre – anch’esse del Circolo della Rosa di Verona – che fanno storia in modo tradizionale. Nel nostro lavoro abbiamo affrontato le nostre soggettività, senza escluderle, perché anche noi abbiamo apportato fili, reti di relazione all’interno della tessitura del femminismo veronese… Quindi non possiamo essere solo quelle che raccolgono oggettivamente, anche perché il lavoro che risulta da un approccio di questo tipo è molto sterile. Siamo in una fase di ricerca, speriamo che sia attraverso l’aiuto delle storiche professioniste qui presenti, sia attraverso la nostra volontà di inventarci qualcosa di nuovo, di diverso, il nostro lavoro trovi una direzione. Noi non vogliamo scrivere un libro; quello che stiamo cercando di fare è un archivio: ma un archivio dinamico…

 

 

Marirì Martinengo

Vorrei partire da quello che ha detto Milagros: «il documento sono io». Il suo libro è un libro di storia. Un libro vero di storia, secondo me, nel senso che filtra attraverso di sé quello che è successo fuori di lei, quello che succedeva alla sua epoca, quello che vedeva. A me sembra che si possa dire qualcosa di vero solo se quel che si dice viene vissuto e scritto attraverso la propria esperienza. Non è detto che i documenti siano solo quelli che si trovano negli archivi, scritti e tramandati. Milagros utilizza documenti tratti dalla propria memoria: poesie, canzoni, opere di scrittrici del passato, di artiste del presente. Non si può dire che sia una storia che non ha documenti, ma piuttosto che tutte queste cose sono filtrate attraverso il grande documento che è lei stessa: e questa a me sembra una cosa straordinaria.

 

 

Laura Modini

Ho trovato molto interessante l’intervento di Milagros, perché mi ha come squarciato nella mente un’immagine. Peccato che Nilde sia andata via, perché il suo rapportarsi con la realtà io lo vedo come trent’anni di storia. Ho avuto un’immagine molto piena, corposa, di quel che significa la storia.

Lia mi è sembrata un po’ ingenua, quando parlava dei video. Certo che si comincia adesso a fare in video la storia delle donne… Però invito anche ad andare a vedere il sito di Donatella Massara, in cui c’è un lavoro ricchissimo di questo tipo.

 

 

Lilliana Rampello

Lia diceva prima che ci vuole un’invenzione e io di questo sono convinta. L’invenzione a volte viene all’improvviso, e poi c’è…

Però io volevo tenere fermo un punto del testo di Milagros. Nel suo testo c’è una precisa indicazione contro l’oggettivazione, e questo è un buon piano di mediazione tra la soggettività (nel senso dell’espansivo fluire dell’io) e i documenti. E poi c’è anche da smontare sia l’uno che l’altro corno del problema: i documenti sono anche documenti viventi, e l’io non è sempre e necessariamente un io “dominus”, ma può essere anche un io in relazione, come prima provavo a dire. Vi faccio un altro esempio, che mi serve proprio perché lo propongo alle storiche: nel 2008 ricorre il centenario della nascita di Simone de Beauvoir e il mio editore ripubblica Il secondo sesso con grande pompa, con l’introduzione della Kristeva, e mi dà da fare la storia della ricezione italiana. È ovvio che posso farla in archivio: sono andata alla Fondazione Mondatori, ho letto le lettere di Simone de Beauvoir prima ad Arnoldo, poi ad Alberto, quello che è successo, il perché sì e il perché no, perché in Italia è uscito nel 1961 quando in Francia invece è uscito nel ’49… Posso fare tutto un altro lavoro d’archivio: andare a vedere i giornali, l’impatto, il tipo di reazioni…

Poi però mi è venuto in mente che quello che a me interessa è cercare quelli che adesso venivano nominati come i “documenti viventi”: vale a dire, mi interessa sapere che cosa è successo nella testa di alcune donne italiane quando hanno letto Il secondo sesso. Capire cosa è successo nella testa di alcune donne che possano per me (e ci risiamo: per me) rendere conto di una storia della ricezione che non sia fatta solo di quello che trovo negli archivi. Questo è legittimo? Scartare da quello che è, statutariamente, una storia della ricezione secondo me può essere un modo. Non è ancora l’invenzione che chiede Lia, ma un tentativo di far vivere quel testo per come è stato vissuto nella testaQue viva delle donne che sono ancora vive. Questa questione del vivente, secondo me, è il centro; e anche come ce lo giochiamo anche quando si tratta di testi di persone che sono morte e che quindi in teoria sono lì, dati come in teoria come perfettamente oggettivabili da noi. C’è una possibile oggettivazione assoluta, e c’è un tentativo di non lasciarli lì, morti nella loro oggettivazione. Però, siccome io non sono una storica, chiedo: storicamente, questo può stare in piedi?

 

 

Emma Scaramuzza

Ormai questo è più che legittimo: c’è un filone di storia, di lunga data, che è la storia orale; e anche il lavoro di cui parli tu, sulla storia della ricezione di un testo, rientra in questo filone.

 

 

Marìa Milagros Rivera y Garretas

Volevo tornare sull’invenzione. Forse questo libro, Donne in relazione, ha fatto l’invenzione del titolo per far passare il pensiero e la pratica della differenza nel femminismo in Spagna e, in generale, fra le donne. Forse un po’ c’è riuscito, nel senso che quel titolo ha fatto leggere il libro a più donne.

Invece forse manca un’invenzione che possa far passare questo tipo di femminismo nel mondo delle donne e degli uomini. Ad esempio, abbiamo pubblicato un altro libro, con un gruppo di ricerca di Duoda (Le relazioni nella storia dell’Europa medievale), che è un manuale di storia medievale vero e proprio (la parola più citata è amore, poi Dio, poi cristianesimo…), commissionato da una casa editrice. Pensavo che l’invenzione di questo titolo potesse passare, appunto, nel mondo di donne e uomini, di storiche e storici del Medioevo. Invece poco tempo fa, in un luogo pubblico, un grande storico del Medioevo (grande di misura, cioè importante, anche se non grande di pensiero…), autore di manuali di storia medievali, ha chiesto a una delle autrici che cosa significa questa cosa delle relazioni. Questo mi ha fatto capire che quell’invenzione era fallita. Mi chiedo se manca anche qualche altra cosa. O se c’è un’irriducibilità da qualche parte, anche piccola, che fa ostacolo… perché non è un uomo cattivo… Questa domanda mi è sembrata importante, per segnalare che nemmeno questa invenzione è servita.

 

 

Luisa Muraro

Se voi aveste scritto una Storia del potere delle donne nel Medioevo, questo signore avrebbe capito. Avrebbe capito perché sa che cos’è il potere. E com’è che sa che cos’è il potere? Perché lui, nei suoi studi, ha continuato a ragionare, a leggere i documenti, a riflettere, a metterli in ordine, a ripresentarli a partire dalle questioni del potere. Non dalle questioni medievali del potere. A partire dal presente e da quello che lui sa: che il potere è elemento ordinante e di trasparenza di quello che le persone fanno.

Le relazioni non sono questo. Non hanno questa perspicuità. Sono qualcosa che c’è ed è potente… ma lui non ha mai relazionato probabilmente neanche se stesso né, sicuramente, i documenti che legge, con questo concetto di relazione. Non ha mai visto le relazioni nei documenti. E quindi davanti alle relazioni è davanti a qualcosa che non è neanche un oggetto oscuro, ma solo una parola…

La questione che io ponevo prima è proprio questa: si tratta di mettere quello che è esperienza di donne, che riesce, oggi (mentre ieri no), a raccontarsi e a significarsi in maniera viva attraverso una serie di operazioni esistenziali come interrogare, andare nei luoghi, essere aiutata a muoversi, avere indicazioni e via via.. Questa cosa è solo una parte del lavoro storico. L’altra parte resta da fare, e che cos’è? Che questo movimento, questo viaggio deve muovere la mente di donne e uomini che, attraverso la parola relazione, comincia a vedere il mondo farsi. E per questo non basta il vostro manuale; ma certamente il vostro manuale pone la questione, la apre: non c’è ombra di dubbio. Naturalmente la reazione dello storico affermato che dice «ma che cos’è questa roba qui?» è scoraggiante, perché lì c’è il libro. Però io non mi meraviglio… È stato un gesto molto audace, forse in qualche modo al di là della capacità di ricezione dei professori che insegnano storia. Forse però non al di là della capacità di ricezione delle persone giovani. E infatti tutto quello che stiamo dicendo, il tuo libro, quello di Marirì sulla nonna, il manuale che voi avete concepito (e che è molto audace), il problema di raccontare il femminismo, ci mette davanti alla questione della ricezione delle persone giovani, che è potenzialmente maggiore di quella che hanno i nostri colleghi. Ma ciò non vuol dire che questo risolva il problema: perché le persone giovani non hanno potere contrattuale; non hanno nessun potere a livello della cultura di questo tipo. Hanno il potere di occupare le strade e di poche altre cose. Ci sono le insegnanti e gli insegnanti che sono qui chiamati in causa, per vedere se è possibile…

Le cose nuove per forza devono avere fiducia e contare sulle persone giovani. Noi siamo portatrici di qualcosa che, se resterà, resterà perché riusciamo ad affidarlo a persone giovani. Naturalmente per riuscire in questo bisogna riuscire a raccontarlo. E raccontare è una dura disciplina. Io sono felice che noi qui di questa cosa cominciamo a parlare. Sono felice che tu, Marirì e altre (e forse nel mio piccolo anch’io) abbiamo dato una misura grande. Però dobbiamo sapere che questo grande passo che abbiamo fatto, se non c’è anche lavoro, lavoro e lavoro, è troppo grande…

 

 

Marina Santini

Io insegno storia e quindi ho questa attenzione ad aggiungere donne, a mettere le donne da tutte le parti, e va bene, qualcosa ha funzionato, qualcosa è cambiato. Il problema però è sempre stato quello di insegnare il femminismo: per non cadere nell’ideologia da una parte, per non farlo diventare “scatolette chiuse e vuote” dall’altra, eccetera. In questo senso quella mostra che è stata fatta, carica di documenti, mi è servita per creare il ponte con le mie studentesse. Però loro hanno visto la mostra con me lì, vivente, che gliela raccontavo, sulla base delle loro domande. Non è stato un oggetto esterno che loro hanno visto, c’è stata la mia mediazione. Quello è stato il momento, il passaggio, in cui la mostra l’ho sentita mia: perché c’erano loro, lì, che mi facevano le domande. Forse questa è una possibilità: l’insegnamento orale con però il supporto dei documenti, dei libri…

 

 

Antonietta Beretta

Mi è venuto in mente che pochi giorni fa ho letto un articolo di Suzanne Cusik su Francesca Caccini, che è una compositrice del ‘500. Lei dice che è da vent’anni che studia la biografia di questa donna, e ha avuto sempre pochi documenti, perché cercava sempre nel punto sbagliato: cercava, cioè, nei documenti della corte dei Medici, dove la donna non appariva come musicista, ma come dama di corte. Allora, grazie alle sue letture (L’ordine simbolico della madre e altri testi del pensiero della differenza) le è venuta l’intuizione di andare a cercare notizie là dove c’era la relazione tra donne: nell’ambito della corte femminile, tra la reggente, Cristina di Lorena, e tutte le altre. E lì ha trovato tantissime notizie sull’attività musicale di questa donna, che rappresenta una pietra miliare della storia della musica. Questo per dire che l’assenza delle donne (e particolarmente delle compositrici) talvolta è legata alla non conoscenza della relazione tra le donne. Qualche storico ha avuto un grande successo quando ha fatto la ricerca sui conventi: lì ha trovato tantissime donne… Questo volevo dire: come sia importante la relazione tra le donne, soprattutto per la storia del passato. Lì abbiamo la storia vivente raccontata attraverso le lettere, con i poeti, con le amiche, la famiglia, eccetera.

 

 

Laura Milani

Sarebbe molto importante parlare di come si racconta il femminismo, perché secondo me la cosa non è riuscita da tanti punti di vista, da parte di chi si occupa di archivi, di storia, da parte degli insegnanti, anche se tutte hanno fatto cose importanti. Mettersi a ragionare insieme potrebbe essere una grande occasione.

 

 

Luciana Tavernini

Con questo augurio chiudiamo, ringraziando Milagros per la ricchezza che ci ha portato. Tutte le volte ci rendi un po’ più aperte e con una luce un po’ più brillante negli occhi… Alla prossima volta.