INCONTRI, Agli Archivi Riuniti Donne Ticino Marirì Martinengo commenta le poesie di Marica Martinengo Pelli

by Donatella Massara on marzo 25, 2009

Archivi Riuniti Donne Ticino

Commento e lettura di poesie di Marica Martinengo Pelli

effettuati da Marirì Martinengo

Melano, 14 marzo 2009

Se dovessi dare intestazione alle mie parole di oggi, lo farei con una citazione che secondo me, calza alla perfezione alla creazione poetica di Marica. La citazione è “Il pensiero dell’esperienza”, desunta sia dal titolo del XII Simposio delle filosofe (Roma, agosto 2006) sia dagli Atti del medesimo (a cura di Annarosa Buttarelli e di Federica Giardini, Baldini Castaldi Dalai, 2008) che significa che il pensiero delle donne è legato alla loro esperienza esistenziale. Marica ha precorso i tempi e si situa ora nell’attualità.

Ringrazio Franca Cleis, con cui sono in relazione, e Maria Rosaria Valentini per aver organizzato questa lettura di poesia e per aver inserito Marica Martinengo Pelli nell’iniziativa.

Qui mi trovo in un incrocio di relazioni: da una parte quella con Marica che, pur non essendo qui di persona, è presente con la sua voce, dall’altra appunto con Franca..

Marica Pelli è nata a Lugano il 2 marzo 1934, Sua mamma si chiamava Giuseppina Gianinazzi ed era maestra nelle scuole elementari prima a Bosco Luganese e poi a Massagno, dove, anche dopo essere andata in pensione, continuava a occuparsi della scuola. Il padre, Domenico Pelli, nel dopoguerra era attivo nel Movimento Cristiano Sociale, nel quale svolgeva mansioni di sindacalista. La famiglia, quando io l’ho conosciuta, negli ultimi anni cinquanta, abitava in una bella villetta con giardino a Massagno in Via Besso 68. La signora Giuseppina si dedicava con passione ai lavori di giardinaggio e di orticultura.

Marica,dopo aver frequentato le scuole primarie, ha studiato lingue negli Istituti Interpreti di Ginevra e di Heidelberg.

Si è sposata nel 1958 con Alessandro Martinengo, docente di letteratura spagnola all’università di Pisa. Dopo alcuni soggiorni a Bogotà, e a Zurigo, si è trasferita col marito definitivamente a Pisa, dove ha avuto un figlio.

A Pisa si dedicava alla lettura – era una grande lettrice – agli affetti familiari, si occupava della casa, di volontariato, di catechesi, di opere parrocchiali.

Dopo anni di malattia, è morta a Pisa il 27 ottobre 2003.

 

Marica ha sempre scritto poesie che però non raccoglieva sistematicamente, le scriveva su foglietti volanti. Una prima raccolta di queste, Le fanciulle e altre poesie, è stata pubblicata nel 1966 dalla Casa Editrice Liviana di Padova, questo che presentiamo oggi, Liriche. Corrispondenze di viaggio, è il secondo, pubblicato postumo dall’editrice ETS, nel 2007, a Pisa, nella Collana Hesperiae, diretta da Alessandro Martinengo e Gabriele Bizzarri.

Ultimamente il marito ha trovato altre poesie in casa.

Le sessantacinque liriche raccolte nel volume, raggruppate in tre periodi, complessivamente si stendono fra gli ultimi anni cinquanta e i primi duemila, si distribuiscono lungo il corso di molti decenni quindi, viceversa la vena che le percorre dall’inizio alla fine, sostanzialmente e linguisticamente, varia poco. Sono espressione tutte di un’intellettuale, in cui le emozioni sono sorvegliate e la lingua svolge la sua funzione controllata.

Le poesie degli anni 1958-66 scaturiscono da animo fermo e sereno, appena incrinato da oscure consapevolezze, lo sguardo è affacciato sul mondo circostante, curioso di coglierne lampi di vitalità e di colore; fanno parte di questa sezione le poesie sull’isola d’Elba, luogo di cari e ripetuti soggiorni, su Lugano, sua città natale, fresca d’acque e di montagne:

 

Tranquilla, la notte generosa

giardini ci regala

d’ignoti vicini.

Un grillo divide il tempo

Col suo canto calcolato.

(p. 26)

In esse sempre quello che l’occhio vede incide lampeggiante nel profondo, il piano dell’immagine non è mai fine a se stesso, ma stimolo al pensare, dove il personale si fa voce di tutti e tutte; ampi orizzonti, paesaggi ancora ignoti, scene appena intraviste urgono e muovono l’immaginazione; emerge anche una larga e fitta rete di relazioni amicali. Marica curava i rapporti, con le vicine di casa e di quartiere, le/gli insegnanti del figlio, le/i negozianti, le suore.

Verso la fine del periodo appaiono le parole “dolore” e “morte”, inquietanti premonizioni.

Nella sezione successiva, quella che spazia dal ‘68 agli anni ’80, le poesie traggono ispirazione dall’esperienza emozionale, come la morte del padre e la nascita tanto attesa del figlio Giovanni; qui la poesia dedicata all’evento è calata nel proprio vissuto di madre più che rivolta al nuovo nato, cui dedica in seguito una triade poetica (pp. 53-54) e altre successive.

Per la madre:

Io non sorrido alla tua pena

per me che sposa mi allontano.

So lo smarrirsi degli atti

che scrivono di noi nell’aria quotidiana.

Ma, domani, cose diverse e uguali

diranno i nuovi che si ricompongono piano.

Ridimmi, ora, addio senza piangere.

( p. 11)

per il padre:

Da quando il medico ha parlato

Abbiamo cambiato il tuo calendario,

aboliti gli anni, incerti i mesi,

sicuri sulle ore, le tue,

noi, gli illusi di più vasti spazi.

Ma, anche se per poco,

si ricostruirà, dopo il dolore,

la tua vita, viva,

qui con noi.

Sembrerà quasi un miracolo

riprovare una mattina,

la nostra rabbia di figli

contro di voi.

(p. 39)

per il marito, Alessandro, il figlio, la sorella Tatiana, viceversa morte, nascite, distacchi, gli eventi esistenziali, ora tristi ora lieti, non pare segnino profondamente lo spirito dell’autrice, che sempre si leva dalla contingenza quotidiana ad atmosfere dove spazia e domina pensiero universale.

La poesia di Marica declina in varie forme l’intelligente capacità di essere nello stesso tempo soggettiva e universale, di raccogliere in sé i moti propri e quelli dell’animo umano: gli affetti più cari e significativi come gli imponenti spettacoli della terra e del cielo, il dolore presente e la rara felicità sono esperienza sua come nostra: la sua poesia documenta e ci sciorina davanti l’interezza della vita nella sua complessità.

L’andirivieni fra il “fare” e il “pensare” o sovente il non-abbandono del pensare durante il fare sono una caratteristica costante della poetica di Marica, un andirivieni arricchente, proprio delle donne che alternano l’attività intellettuale o artistica con quella manuale e relazionale. Io ho esperienza di tale modalità: quando interrompo la scrittura pensante, essa mi insegue nel lavoro domestico, continua a macinare dentro, raffinandosi e giungendo a maturazione, pronta per la pagina bianca. Il passaggio è percepibile nelle poesie di Marica; un alternarsi di incombenze che, lungi dal distrarre o dal sottrarre tempo ed energie l’una alle altre e viceversa, le arricchisce, donando alla prima lo spessore della pratica e il sapere della materialità, alle altre lievità e spiritualità. Ecco il pensiero dell’esperienza,

Marica quindi ha la conoscenza dei due tempi, che alterna con sapienza e sensibilità, il cronos e il kairos, i momenti esistenziali e i “momenti di essere”, come li chiama Virginia Woolf, quando anche il gesto o l’azione temporale più semplice e magari anche ripetitiva origina pensiero e si carica di “grazia”, diventa generatrice di poesia e filosofia.

Si fa creatrice.

E Marica è consapevole del suo essere poeta:

 

Sono, per quel poco che sono,

un poeta diurno

dagli occhi ben chiari

sul foglietto e con la matita

in ore solari…

(p. 47)

Poeta fulminante nelle sue cristalline intuizioni tanto da fissarle subito, su foglietti volanti, sul primo spazio bianco che si trova a portata di mano e con la matita. Quasi volesse che l’attimo fosse sì fissato, ma, consapevole della fragilità del tempo, non durevolmente.

 

Mi pare che in Marica segni con incidenza maggiore, rispetto all’evento eccezionale, il vissuto di ogni giorno, ciò che appare sotto i nostri occhi che, in virtù della sensibilità e dell’acume della poeta, si fa poesia; Marica sembra dirci: “Le cose semplici, sovente trascurate, custodiscono arcane verità”.

Mi parlino dolce e profondo le cose.

Meglio se la rosa mi dice che è rosa e felice,

meglio…

che la racconterò, domani, ai bimbi,

palpiti aggrovigliati da dipanare:

dirò il suo venire naturale,

il sapore dell’aria alle sue foglie,

l’attimo stupito del primo dolore,

il disegno del sole e il suo variare.

Mi parlino dolce le cose,

mi parlino forte i vivi

e non venga, almeno per poco,

dolore a sconfinarmi la mente.

(p. 20)

Ho le anguille, belle le arselle…”

L’anguilla, nel cesto, è più in là

della vita. Il silenzio l’ha invasa

e guarita d’essere la vittima.

Le arselle nelle loro conchiglie

ritentano il discorso dei vivi

impietrate nel loro buio mondo:

la luce le finirà come una spada

folgorante di qualche verità.

(p. 13)

Il verso “Mi parlino dolce e profondo le cose” – scelto non a caso dall’editore a suggello della raccolta di liriche – è molto significativo oltre che molto bello: sono i gesti e le cose elementari ad attrarre e a muovere l’emozione e la riflessione della poeta, in esse si celano – lei lo intuisce – verità e saggezza, più che negli avvenimenti appariscenti che scandiscono e magari imprimono svolte, pause, arresti durante il corso della nostra esistenza. Mi sento molto vicina a questo sentire: invecchiando – Marica lo aveva scoperto e capito prima – mi accosto con amore alle azioni e agli oggetti di ogni giorno, avendo imparato a vedervi quella felicità sicura che un tempo cercavo, sovente senza trovarla, nelle grandi cose.

La cura per la casa non si ferma alla superficie, ad una routine scontata e magari opaca, ma anima gli oggetti, rendendoli cari e partecipi, come, per esempio, ne La fuga del lampadario:

Col crepuscolo si è appeso

il mio lampadario al cielo

e con aria d’evaso irride

me e le cure che gli presto.

Conserva, forse, in segreto

un vago ricordo del mio affetto.

(p. 25)

Oppure (solo citazione):

Mentre faccio la lista della spesa…

(p. 65)

o ancora :

traspare dalla casa

che lucida si specchia…

(p. 18)

La vita di ogni giorno è fonte di ispirazione certo, ma solo occhiata veloce perché ciò che s’illumina in lei e vuole illuminare in chi legge è il senso, il suo senso della vita, la sua filosofia. Il passaggio è fulmineo: la discesa nell’interiorità o l’ascesa verso l’alto sono il fulcro dei suoi interessi.

Il vento gonfiava le valli,

i vespri correvano al monte.

Fermo il bacio degli innamorati,

ferma la vecchia all’ombra dei dolori.

(p. 27)

La natura con la sua variegata bellezza di cieli, di terre e di acque, svolge una funzione maieutica: fa nascere il pensiero, lo accompagna nel suo primo crescere, cedendo poi alla mente e al cuore l’incombenza di svilupparlo fino alla sua piena fioritura.

La natura è inesausta fonte d’ispirazione, perché la poeta certo osserva il mondo, ma non di spettatrice, al contrario per distillarne un senso alla pena umana:

Perché il monte?

La natura attonita ci guarda.

bosco di cerri, ruscelli,

forse fragole.

Tempo e spazio matureranno

per noi

richiami di felicità,

favole.

(p. 42)

Citazioni:

Lieto, il sole ottobrino

col pulviscolo impastato

mi dipinge la casa …

(p. 14)

 

Ora sono qui con il cielo rosato,

le nuvole tranquille…

(p. 32)

A volte è di sollievo

fermare al belvedere,

come una “ria” avere

segni aperti verso il mare

e dolori

verso nebbie di sogno

della Galizia d’estate.

(p. 43)

E Marica, come diceva lei stessa nella poesia citata più sopra, eleva un canto solare, è soprattutto la luminosità del giorno a sollecitare la sua voce nitida e sonora.

Il dolore è un filo sottile serpeggiante in tutte le poesie, dalle prime alle ultime, forse più carsico in quelle, più scoperto e trasparente in seguito; è un dolore che l’autrice fronteggia, senza piangere, senza dibattersi, ne porta lucida testimonianza. Si può solo sperare in una tregua.

Citazioni:

non venga almeno per poco

dolore a sconfinarmi la mente…

(p. 20)

Attenzione al dolore di altre:

f erma la vecchia all’ombra dei dolori.

(p. 27)

Come al proprio:

 

Io filo un filo esile,

gracile, spezzato,

nei giorni, nei dolori,

nei risucchi di malinconia…

(p. 35)

Oggi minaccia naufraghi il mare,

da adagiare sulla rena coi segni

segreti di lunghe notti d’amore.

Oggi si lamenta il dolore

che non incontra una mano

cara, per sempre, a tenere.

( p. 22)

Nella sezione Poesie ultime (1980-2003) sono collocate appunto le liriche degli ultimi anni: in esse le riflessioni sulla malattia, la vecchiaia, sulla fine della vita si susseguono e l’ispirazione si scioglie nella preghiera. Marica era donna di fede forte e profonda, vissuta e praticata fino alla fine, anni in cui la sua poesia è intrisa di una religiosità fervente e segnata da un più frequente rivolgersi al Signore, percepito come affidabile conforto nel tempo della sofferenza estrema; ma anche qui la poeta muove dalla contemplazione della natura per “volare” lontano o per “scendere”nelle profondità interiori.

Un ultimo aspetto ancora – che riguarda la complessità della sua opera – vorrei sottolineare: Marica si mette in gioco sempre in ogni momento, in ciò che fa, vive e pensa, senza mai separare, discriminare, escludere, gerarchizzare o lasciare da parte. Dà valore, trasformandolo in creazione poetica, sia al profilo nitido dei monti o al profumo dei gelsomini sia alle arselle morenti o alla borsa della spesa.

Mi pare che queste siano le principali lezioni di una donna, offerte alla nostra meditazione.

Nella seconda parte del libro si trovano le Corrispondenze di viaggio(1961-1965.)che, Marica scrisse durante l’anno di permanenza in Colombia e inviò per la pubblicazione a un settimanale savonese Il Le timbro.

Gli ultimi testi sono racconti di viaggi in Europa, Spagna e Svizzera.