LIBRI, Segnalazioni: il nuovo romanzo sulla primavera araba di Sonia Serravalli

by Donatella Massara on novembre 17, 2011

Riceviamo e volentieri pubblichiamo:

 

<<Buongiorno a tutte e a tutti.
In passato avevo avuto l’onore di essere ospitata presso il sito Donne e Conoscenza Storica grazie a una recensione dell’opera “L’oro di Dahab – Creando ponti”, 2007. Ora l’onore di tornare a contribuire a questo interessantissimo luogo di racconta dati al femminile per aver completato il mio scritto sulla rivoluzione egiziana. Si tratta di un romanzo tratto dal mio blog e che presenta quindi, dietro una storia d’amore appassionata, dati storici e sociali reali raccolti in loco nei “mesi caldi”, informazioni che raramente raggiungevano i nostri mass media, e che se lo facevano arrivavano distorte. Ciononostante, nella storia non vengono mai fatti nomi (di luoghi, di politici, di attivisti) e lo stesso Paese di cui si parla non viene mai menzionato, nel tentativo di superare la storia contingente per passare alla letteratura – quasi a rappresentare una dimensione universale delle rivoluzioni della storia umana, e del duetto amore-e-rivoluzione.


Il libro stato pubblicato a fine 2011 con la casa editrice IBUC, presentazione dell’opera qui: http://www.ibuc.it/0catalogo/dettaglio2.php?prodotto=951
Modalità di acquisto: 13,50 euro anziché 18 euro se si ordina il libro online facendo il mio nome all’indirizzo dell’editore: ibuc@ibuc.it, o qui: http://www.ibuc.it/0pagine/visua_pagine.php?id_page=13&idcateg=36  e NO spese di spedizione ai primi 100.
Ringrazio di cuore la Direttrice Donatella Massara per lo spazio accordatomi, e credo che la cosa migliore per condividere con voi il mio mondo sia allegare qui un paio di estratti dal mio scritto… un caro saluto dal Sinai.
Sonia Serravalli

ESTATTO 1)

“Accendere la Tv diventa più doloroso ogni volta, perché ormai di continuo vengono mostrati giovani studenti, operai, professori, dottori disarmati che muoiono. Dire che il tempo è relativo è pleonastico. Lì un anno sta dentro una settimana e una vita nell’istante che definisce se sei vivo o martire.

Da un Paese confinante, un medico ripete a un giornalista che voi ascoltatori non avete idea di quello che sta vedendo, che i feriti e i morti che arrivano all’ospedale non si contano più, che la situazione è inimmaginabile e non riportabile. Grida senza filtri nella sua urgenza verso gli ascoltatori, come volesse che foste lui. Si chiede dov’è il resto del mondo. Ti si stringe il cuore. Ti domandi se il fatto che il pianeta sia sempre più piccolo grazie ai mezzi di trasporto e alla tecnologia non possa finalmente portare tutti presto alla consapevolezza che trovarsi a mille o a diecimila chilometri da una mattanza di civili non vi rende diversi da loro e non vi rende automaticamente esclusi, disinteressati, diversi. Ti chiedi se nelle piazze a sud del Mediterraneo non siate voi stessi che state morendo.

“La gente vuole rovesciare il regime, vuole facce nuove e mai viste prima.” Te lo dice un maestro della scuola elementare della città, quando lo incroci al supermercato. La stessa cosa ti viene ripetuta dalla moglie colta dell’imam: davanti a lui sempre timida e dimessa, quando ti vede da sola, sedute sul suo divano al profumo del cardamomo, la mezzaluna del suo sorriso ti lascia intendere di sapere tanto, di sperare tanto e di aspettare da tanto.

E lì, cominci ad annotarti i dettagli. Ti rendi conto che sono i dettagli a tracciare il racconto effettivo di una rivoluzione, con molta più forza e verità di quelle dei titoli di giornale o dei servizi televisivi che si ripetono a rotazione, con pochi stralci di novità e con giornalisti di parte che hanno le mani legate. Nei dettagli, ci sono il nuovo modo di guardarsi per la strada. La tensione tangibile nell’aria, che basta sentire un operaio che gridi lì fuori per alzare le antenne in attesa della rivolta. I dettagli stanno nella reazione rabbiosa e spaventata del marito di Maria Lucia, che da quando ti ha vista incuriosita non vuole più parlarti. Nell’unica discoteca del porto da cui la notte clue non arriva più musica. Nell’idea di sospendere ogni dieta presentendo carestie. Nel pensiero di preparare le valigie in attesa di qualsiasi cosa. Di organizzarvi un pick-up in tre per riempirvi la casa di confezioni d’acqua. Nell’allarmismo scatenato tra voi dal semplice mancato arrivo del camion di frutta e verdura, come se fosse la prima volta che non si presenta. Negli amici che non escono più per una cena da due soldi, per tenere da parte quello che hanno in tasca. E nelle versioni contrastanti dei fatti, che cominciano a circolare con le varianti più fantasiose. I dettagli stanno anche nel rilevare chi chiede di te da lontano, e chi invece non si cura della tua parte di mondo che salta per aria.

Torni dalla lavanderia con un sacco di bucato più grande di te. Cammini piano per via della schiena dolorante. Per schivare un cane all’inseguimento di un gatto quasi non ti rendi conto che stai per scontrarti con Nadir, che viene da casa.

“Ops, salam aleikum.” Lo vedi distratto, waleikum salam. Si è tagliato i capelli corti e ha un’aria più fresca e allo stesso tempo più matura. Appena il tempo di un sorriso e poi ti fredda con quella frase:

“Parto per la capitale.” Uno sparo che ti immobilizza non tanto per la preoccupazione, quanto per il rimpianto – perché ti rendi conto solo adesso che da giorni una parte di te desidererebbe trovarsi in quella piazza. La storia ti attira come un magnete potente, ma non è solo questo: è che questa storia ti appartiene già, e non sai perché. E non puoi spiegarlo a nessuno.

“Vado con un gruppo di uomini di qui,” aggiunge. Capisci che Nadir non appartiene alla schiera di abitanti disadattati di quella cittadina turistica e senza storia. Quasi lo stavi aspettando, di vedere per quanto tempo avrebbe resistito. Se sarebbe stato parte di chi si espone, oppure se i figli, il lavoro o la paura l’avrebbe trattenuto nella finta calma delle province periferiche.

Nonostante sia assurdo, speri che ti chieda di andare con lui. Poi pensi che il tuo permesso di soggiorno sta per scadere, ma che non puoi andare a rinnovarlo perché adesso molte strade sono state bloccate e gli uffici chiusi. Hai ancora il fiato sospeso. Dovresti vestirti da araba e andare in compagnia. Notizie di violenze sugli stranieri nella capitale girano ogni giorno, e a questi non viene permesso di avvicinarsi al cuore della manifestazione. In realtà, solo una volta che si è dentro la piazza si è al sicuro, dentro le immagini pacifiche che vedete in Tv. Sei appena prima del pericolo e appena dopo la distorsione delle informazioni. Sei geograficamente a metà tra la disperazione e la verità.

Pensando che tra poco lui sarà dentro la scena che da giorni fissi dal televisore, vorresti dirgli di aver cura di sé, di fare foto importanti, e altre mille parole, ma non ci riesci. Così dici una cosa stupida e insieme allarmante:

“Come sai le banche sono chiuse dall’inizio della rivoluzione e ho appena scoperto che anche tutti i bancomat della città sono inattivi. Adesso dobbiamo vivere solo di quello che abbiamo in tasca.” Lo dici sentendo che anche quello è un modo di consegnare nelle sue mani la responsabilità di una soluzione. Per il bene della sua famiglia, dei suoi concittadini, ma anche delle amiche come te – le amiche così, che non sai quante siano. Forse lui la sente, la vena di quell’investitura che in fondo fa sentire un uomo uomo, e ti risponde:

“Vado a sistemare le cose per quella gente”. Ride.

“Andrà tutto bene.”

Lo abbracci sussurrandogli solo halli balak minnafsak, abbi cura di te, per il non riuscire a dirgli a voce alta, avrei voluto viverla con te, voglio rivederti presto, qui saremo scoperte senza l’uomo di casa, fatti valere, la tua storia è già la mia storia – e non so se sia solo per il caso fortuito che mi trovo qui, o se vi appartengo già, per chissà quale motivo che non comprendo ma che mi coinvolge senza controllo. La schiena ti fa arrivare un’altra fitta, e sai che sta parlando con te, e che parla di questo. Vorresti imparare l’arabo e imparare la lingua delle schiene che si contorcono quando qualcosa di emotivamente forte tocca una persona, perché adesso che ti senti una rivoluzionaria davanti a un rivoluzionario sei diventata straniera anche a te stessa.[…]”

ESTATTO 2)

“Ti scopri a rimanere in casa più volentieri e più a lungo. Stare lì dentro te lo fa sentire più vicino. E cominci a domandarti se sia giusto prendere quel volo.

Niente macchina, niente deserto, niente mare aperto su una barchetta che da giorni fantastichi di “rubare a ore”. Devi imparare a gustarti le cose in modo diverso. I tempi del mordi-e-fuggi occidentale vengono inesorabilmente sfilacciati dalla rete che vi controlla e dalla parete che vi separa, rateizzando le parole, gli sguardi, e in modo spasmodico i contatti delle mani, le carezze tra i vestiti, i baci. Non puoi più vivere come prima. Le convergenze che permettano di sfiorarsi le gole e di strappare un abbraccio diverranno un processo struggente. Tutto viene trasformato in un intento difficoltoso, in un dono saltuario, in un mezzo incontro fortuito. Bisognerà sfruttare ogni concessione di grazia, un intensissimo minuto senza irruzioni altrui, un dialogo privo di incidenti e interruzioni, come fosse ogni volta una sorta di miracolo.

Poi, lei esce dalla propria porta e si allunga all’ingresso sulla strada per comprare pesce all’ambulante venuto apposta per il vostro isolato. “Ahlan!” grida con un sorriso nella voce, rivolta all’amica che esce in quel momento per fare lo stesso. Un bimbo in braccio. Ti voltano le spalle lasciandoti solo la vista del velo che scende sulla loro schiena, e la voce, il loro parlottare di miele che ti arriva mentre con grande lentezza si avviano al portone. Lui dev’essere a letto, i turisti fuori per le loro attività. Siete sole. Sua moglie solleva la mano destra verso l’esterno e indica qualcosa che non è lì, mentre parla. Per farlo, allunga il dito indice con una tensione vellutata come se stesse danzando.

Resti incantata a guardarle. Per loro sei un’ombra, e assorbi, senza essere notata. Queste donne arabe che sono un’incognita per te. E’ un’incognita quello che si dicono, il dedalo di pensieri che le ha portate a essere come sono. E’ un’incognita la grazia incantevole che mettono nei gesti delle dita quando parlano, le virgole delle unghie lunghe. La grazia con cui si fissano l’hijab su una coda di cavallo o una corona di capelli lunghi fino ai fianchi. La grazia del loro intreccio vocale che s’insinua nei tuoi silenzi accendendo sempre allo stesso tempo sonnolenza e sensualità. E’ grazia, non ti viene in mente una parola che calzi loro meglio o più a fondo di questa: non esistono sinonimi per lo stile delle donne arabe, sono aggraziate senza sosta, come solo possono esserlo una rondine, una rosa o una sinfonia.

L’amica le risponde con cenni della testa, e con la mano libera incomincia a tracciare nell’aria arzigogoli di pizzo anche lei, seguendo quei disegni con parole flautate. C’è un mistero insondabile sui fondali di quella lingua che non avevi mai incontrato dentro nessun’altra. E’ qualcosa che non ti riesce proprio di cogliere: una vibrazione talmente sensuale da sfociare in musica. La sua malia potrebbe derivare dal suo fondere suoni piani di lingue latine con aspirate e vocali degli alfabeti nordici – come fosse la summa dei suoni umani, un organismo impeccabile per incantatori di orecchie sensibili. Quelle “qa” e “ha”, e “sah”, e “sh”, e tutte quelle “i” che fanno fluire discorsi come fiumi, ti danno l’impressione che i suoni del mondo stiano articolando un messaggio insondabile ma importante, un massaggio per i tuoi sensi pur senza toccarti.

Quello che vedono gli occhi si sposa perfettamente con i suoni prodotti: ancora dita che si allungano sulle spirali di una voce che raggiunge il suo apice acuto, e poi cade in un sussurro irresistibile. Bracciali d’oro che tintinnano tra le maniche larghe accompagnando i movimenti ampi – gli unici esseri che riescano a parlare nervosamente senza mai uscire dalla grazia. Si irradia armonia dai loro colori, dal portamento, dai tessuti che indossano e da come li indossano, da ogni singolo spasmo del viso o della mano, dalla voce di usignolo, dai suoni prodotti, dagli sguardi scuri che anch’essi, come obbedendo a una legge cosmica a te preclusa, pare non esulino mai un istante dalla bellezza. E ti vengono in mente le canzoni arabe che suonano incessantemente da botteghe e ristoranti, sui mezzi pubblici, per le strade: il contegno della voce femminile, nella modulazione e nei contenuti, come se quel tipo di donna stesse sempre ripetendo no, non va bene, a un nugolo di uomini che smaniano per lei, ammantata di un potere ammaliante e spaventoso.

Ma sta già tornando indietro – l’uomo sulla porta le ha passato un cartoccio su cui evidentemente si erano già accordati, lei gli ha messo nella grande mano spiccioli pesanti fatti uscire da un borsellino lilla e oro.  Continua a sembrare che stia danzando. Sarà l’arsura, o lo sforzo di vedere gli anni di Nadir attraverso di lei, ma resti incantata a fissarla.

Saluta l’amica con una risatina civetta e un altro gesto sensuale del polso. Quando ti passa vicino, sa di gelsomino e di demonio, se mai può esistere un demonio sepolto ad arte dietro il dipinto della castità. Ma adesso sai che può, e resti vittima dei segreti delle arabe, perché a te quella grazia oscura e abissale non è mai stata divulgata. Non sei moglie, non sei nativa del luogo, non sei neanche musulmana – sei un’ombra, e come tale rientri in casa senz’alcuno sguardo che ti segua.”

Sonia Serravalli – www.soniaserravalli.wordpress.com