LIBRI, Recensioni: Marirì Martinengo, La Signora del Monte, Neos, 2012

by Donatella Massara on luglio 3, 2012

Marirì Martinengo, La Signora del Monte

Vecchia storia a Monforte d’Alba

Neos Edizioni

Recensione di Maria Cristina Piazza

 

Quest’ultimo libro di Marirì Martinengo si rivela un autentico, vibrante inno alla memoria. E’ il filo sottile ma tenace della memoria, infatti, ad unire, anzi connettere, quei ricordi di infanzia a Monforte d’Alba che si snodano fluidamente lungo un decennio, fra la metà degli anni Trenta e la metà dei Quaranta, e che qui assumono la forma di racconti, “brevi novelle”, come la stessa autrice ama definirli. Tangibile appare il legame tra eventi, persone, luoghi, entro un contesto relazionale così ben marcato da attribuire alla dimensione umana, magistralmente delineata, una dignità pervasa da fedeltà e senso di appartenenza, capace di sottrarre la comunità di un piccolo paese di montagna allo scadimento nella percezione di “folla” o “massa”.

 

La scrittura, inoltre, una scrittura agile, incisiva, fortemente attraversata da elementi emotivi, a tratti poetica fino al lirismo, produce un duplice effetto pragmatico: nell’autrice la restituzione di tutto quel materiale affettivo che rischiava di dissolversi, e nel lettore una sorta di rispecchiamento personale, con il conseguente emergere non solo di ricordi, ma anche di colori, odori, suoni, sapori: pezzi, cioè, di quel “sentire” proprio dell’infanzia, ove il tempo appare eterno ed immutabile.

Questo il prodigio di una narrazione che “dal partire radicalmente da sé”, secondo l’antica consolidata pratica femminista, perviene ad un fecondo “ricondurre a sé”.

L’episodio della bambolina di biscuit (pag. 31), gelosamente conservata e puntualmente affidata da zia Sofia alla nipote solo nei momenti di gratificante scambio affettivo (“mi prendeva sulle ginocchia”, “io parlavo”, “mi raccontava”), ha evocato in me un ricordo anch’esso molto intenso: una zia, donna semplice, mai scolarizzata, poverissima, che, quando riusciva faticosamente a procurarsi un uovo, mi sistemava tra le sue ginocchia ed il tavolo, bloccando ogni mio possibile movimento e senza una parola, con una lentezza indicibile, cominciava ad imboccarmi.

Io avrò avuto due anni circa e, educata in un clima tutt’altro che incline alla permissività, avevo da tempo imparato a mangiare da sola, ma lasciavo fare: mi piaceva il contenimento rassicurante che quelle dita ossute esercitavano sulla mia piccola persona, mi riscaldava il cuore percepire nella lunghezza del rito la beatitudine di questa zia che, “poverina”, come si diceva allora, “non aveva avuto figli” e in quei momenti stringeva con tenerezza la “sua” mite bambina.

Ma è legittimo pensare che i ricordi si riferiscano a fatti realmente accaduti?

L’autrice risponde con una domanda che nel contesto non può che essere retorica: “esiste una realtà indipendente dalla nostra relazione con essa?” ed aggiunge: “i miei sono ricordi relazionali, personali, unici….non hanno niente a che fare con una ricostruzione storiografica né tanto meno con la verità. Dimorano dentro di me, sono storia vivente.” In tal senso, al di là di ogni possibile definizione, rintracciabile in dizionari più o meno scientifici, per Marirì “la memoria autentica è il lascito dell’oblio […] è quello che resta quando tutto è dissipato”. In quest’ottica la rimozione, “sua compagna inseparabile”, diviene “un altro deposito lasciato scivolare in/fondo dal fluire del tempo”. 

Il tempo! Ecco: il vero protagonista della narrazione è proprio il tempo nelle sue diverse sfaccettature.

Qui la dimensione temporale, lungi dall’essere tempo storico, tautologico, lineare -il tempo cioè che collega coerentemente gli eventi secondo un ordine cronologico e/o logico- si impone come tempo relazionale, il tempo della “verticalità mobile” che annoda e scioglie in modo circolare sull’onda di sentimenti ed emozioni.

E’ un tempo questo che favorisce la discesa nel profondo dell’interiorità e la risalita nell’hic et nunc della quotidianità.

E’ il tempo dell’infanzia, un tempo che “non esiste”, ove i personaggi risultano immutevoli come “in un presepio”, eternamente simili a sé stessi. Dice l’autrice: “penso che il concetto di eternità sia germogliato nella mente di un’umanità bambina”. Questa rassicurante concezione del tempo ad un certo punto si infrange sulla “soglia”, nel passaggio all’adolescenza, ove la improvvisa consapevolezza dell’esistenza di un inizio e di una fine è descritta come “la rottura del tempo”, come “battigia ove il mare non è più mare e la terra non è ancora terra”. 

Il tempo della narrazione, inoltre, lega in senso orizzontale e spaziale eventi, luoghi, persone e soprattutto un universo femminile, in particolare quello poverissimo della Saracca, un tempo il foro del paese vecchio, popolato da donne dignitose, altere fino alla regalità e come tali legittime depositarie dell’antica autorevolezza della Signora del Monte, contessa feudataria di fede catara che tanto prestigio aveva conquistato tra la gente di Monforte.

Ma il tempo della narrazione è altresì un itinerario della ricerca storica che sfuma fino a confondersi in un percorso di vita interiore.

L’ipotesi avanzata dall’autrice rintraccia nella devozione per S. Elisabetta il segno della sostituzione del precedente culto per un’eretica, divenuta oggetto disdicevole e fonte di maledizione. Attraverso un processo di rimozione collettiva il culto della Signora del Monte, morta sul rogo nell’anno 1028, venne deviato qualche secolo dopo su S. Elisabetta d’Ungheria, nobildonna anch’essa, pia e dedita alla cura di poveri ed ammalati.

Sempre nell’ambito di una scansione temporale, un’altra connessione si rende tangibile: zia Chiaretta con il suo stupore, smarrendosi nella contemplazione della grande montagna, “baluardo estremo contro gli assalti del male”, sembra trasmettere alla nipote Marirì un messaggio: “il monte era forte per grandezza femminile”.

E’ questo il messaggio raccolto dall’autrice in obbedienza anche al richiamo” della nonna paterna, Maria Massone, ricordata, anzi celebrata, in un altro suo libro, La voce del silenzio, come donna “sottratta”. Entrambe “chiaroveggenti non capite […] hanno contato su di me”, conclude Marirì.

Così il tempo, capace di trasformare pazientemente personaggi presenti solo nella memoria fino a consegnarli ai posteri sotto forma di “favole, leggende e perfino miti” diviene “l’amico amoroso e fedele” che, attraverso la memoria e la scrittura, rende possibile quella rinascita “che ha smorzato il dolore” restituendo “quello che credevo perduto per sempre”.