LIBRI, Recensioni, Madre Ignazia Angelini, Mentre vi guardo. La badessa di Viboldone racconta, Einaudi, 2013

by Donatella Massara on aprile 6, 2013

 

Da Mentre vi guardo. La badessa del Monastero di Viboldone racconta di Madre Ignazia Angelini Einaudi, 2013. E’ un libro che mi è stato consigliato da Rosalia Alovisi grande libraia della Libreria delle donne di Milano, se no non l’avrei degnato di uno sguardo. Invece ho trovato un linguaggio che mi è famigliare, esperienze comprensibili, una visione del mondo che potrei condividere. Non sono cattolica se non perchè mi hanno battezzata, per curiosità e avendone voglia mi avvicinerei a altre religioni che mi appartengono di più che non al cristianesimo. Eppure in questo libro ho visto molto e ho anche imparato.

Al paragrafo Argentina e altre storie, Madre Angelini racconta uno dei tanti incontri che le sono accaduti al Monastero. Là è entrata a farsi monaca a 19 anni negli anni ’50. Merita leggere questa storia di donne, che esemplifica la condizione di libertà femminile nel nostro tempo, allude all’attaccamento isterico al corpo della madre, fa parlare la differenza femminile dell’essere una donna sola,  collocandola in una soggettività piena e allo stesso tempo felice e dolorosa oltre che border line e spiega una relazionalità fra donne che non sta in contesti abituali ma ne conserva allo stesso tempo i tratti ‘politici’, tesa al fare consistere i progetti, produttivi di pratiche e parole.

 

“La prima volta si presentò vent’anni fa. Capitò alla porta questa ragazza scarmigliata, irsuta. Chiese della madre superiora, e io scesi. Le dissi che soldi non ne potevamo dare, ma eravamo pronte ad aiutarla. Inizialmente era ritrosa a dire di sé, poi si addolcì e capii che di una cosa aveva fame e sete: di essere ascoltata. Una storia triste, mai narrata ad alcuno.

Aveva lo sguardo velato. Viveva inizialmente nelle case popolari, a Milano, ma sua madre era morta da poco. Lei aveva assistito la madre – la persona per lei più preziosa – all’Ospedale di San Donato, fino alla morte. Ma poi non aveva avuto il coraggio di separarsi da lei, dai luoghi dell’ultimo commiato per tornare in una casa irrimediabilmente vuota. Così anche dopo la sepoltura, al cimitero di Lambrate, si aggirava nei luoghi dove aveva vissuto gli ultimi giorni con la madre: si rifugiò nei sotterranei dell’ospedale, la notte dormiva al pronto soccorso, perchè nella fisicità dei luoghi ritrovava più vivo il ricordo. Ma alla fine gli infermieri dell’ospedale riuscirono ad allontanarla. Il personale delle ambulanze l’accolse nei giri notturni, come volontaria. Dopo un periodo di vagabondaggio, trovò la forza di tornare nella casa dove avevano vissuto, ma ormai l’appartamento era stato occupato da altri. Senza casa ricominciò a vagabondare, e fu così che capitò da noi, quel giorno. Credo stesse male aveva la febbre ed era senza documenti. Si chiamava Argentina. Chiamai i carabinieri, le spiegai più dolcemente possibile che loro avrebbero potuto trovarle un posto. Ma all’arrivo degli agenti lei non si mostrò per nulla spaventata: già li conosceva, più volte l’avevano raccolta per strada. I carabinieri, però, dopo averle parlato, la lasciarono ancora per strada  lei ritornò da noi. Aveva trovato qualcosa che la rassicurava e l’attirava.

A quel punto l’accogliemmo. Ne combinò di ogni genere, a motivo della sua abitudine a vivere come una piccola selvaggia. Pur essendo molto sporca, aveva la mania di disinfettare con l’alcol ogni cosa che usava, così che rovinò pavimenti e varie suppellettili. Rimase parecchio tempo dandosi da fare per aiutarci in ogni modo a lei possibile: nelle pulizie, nella cura del giardino, o in preghiera silenziosa. Stava ore in chiesa. Ma la sua attività prediletta era andare per strada, viandante a piedi o sulle ambulanze della Croce Rossa, dove l’avevano presa a benvolere e le permettevano di aiutare durante i turni di notte. Un giorno riuscii a persuaderla a entrare in una comunità di accoglienza qui vicino, affinchè potesse trovare cure adeguate e un inserimento sociale. Resistette qualche mese, poi tornò a bussare alla nostra porta. Probabilmente non era riuscita a resistere, imbrigliata in una comunità che, inquadrandola nei propri ritmi, ostacolava la sua inclinazione al nomadismo e le impediva di andare la notte con le squadre del pronto soccorso.

Di nuovo rimase con noi alcuni mesi, poi, parlando con i suoi amici dell’ambulanza, riuscimmo a trovarle lavoro presso una signora anziana, un lavoro di compagnia che le permetteva di continuare il servizio di pronto soccorso. Durò alcuni anni. La rivedevamo puntualmente a Pasqua e a Natale: eravamo per lei punto di riferimento, si trovava “ a casa”. Poi, morta la signora alla quale faceva da badante, si ripresentò: Sapevamo che, comunque, dopo un po’ sarebbe ripartita nel suo itinerare … L’abbiamo ripresa, poi è andata ad abitare con una delle volontarie della Croce Rossa, poi è di nuovo tornata da noi.

Questa donna sola, che non farebbe male a una mosca, in un certo modo ha maturato una sorta di appartenenza al monastero. Cercatrice di vita, di amicizia. Ribelle a schiavitù e convenzioni. E’ strana, certo, ma qui è l’unico luogo dove lei sembra trovare un poco di stabilità: qui può essere sé stessa, può uscire e tornare … Non abbiamo mai più avuto il coraggio di dirle che non c’era posto per lei.”