CINEMA, Testi. La maternità come ribellione oltre la legge e altri temi nei film delle registe fra 2012 e 2013

by Donatella Massara on luglio 17, 2013

Alcuni film di registe della stagione 2012-2013  hanno raccontato la maternità, con uno sguardo particolare, rivolto alle motivazioni profonde che hanno spinto le donne, di solito ragazze molto giovani, a partorire.

 

Allo stesso tempo, proprio perché i soggetti sono, nella maggioranza dei film, la madre con un figlio, maschio, ho visto una non esplicita ma ugualmente accoglibile intenzione di fare valere l’amore, la cura o semplicemente una relazione, affatto chiara, lineare e non per questo meno forte, oltre la legge, al di là dello stato, delle istituzioni. Il legame di sangue della madre o della sorella a questo punto si impone. L’intenzione è redimere, accogliere, restituire l’altro a una condizione libera, anche per arrivare forse all’ attenuazione della violenza maschile. Infatti siamo state messe davanti allo scompaginamento del corpo a corpo con la madre, al riesame del taglio dalla matrice, necessario per crescere, a una società non più patriarcale che disabilita i modelli maschili, producendo tuttavia distruttività. La madre o la sorella interviene quindi sull’adolescenza, mettendosi di mezzo, con il proprio corpo, per dare visibilità alla presenza femminile, come imprescindibile soggettività libera dal controllo dall’universale maschile essa impone nuove maniere di essere, tradotte in un rapporto non più sacrificale e che non fa più riferimento all’ideologia costruita attorno al ruolo materno. Come dice la protagonista di “Sister” di Ursula Meyer del 2012, vincitrice dell’Orso d’argento alla Berlinale, impersonata dalla brava Lea Seydoux, quando il figlio le chiede perché non l’abbia abortito, se non lo desiderava, lei risponde che, contro il parere di tutti, lo aveva voluto, per andare contro gli altri, per ribellione, per affermarsi. E’ quello che vogliono provare le “17 ragazze” del film delle sorelle Delphine e Muriel Coulin, del 2011 e di cui abbiamo già parlato, anch’esse madri per ribellione. La maternità è quindi il segno della sessualità femminile vissuta come scelta ribelle, offensiva e protagonista. D’altra parte, “Volevo provare che ce la facevo”, ha detto una baby mamma di 15 anni, alla radio che la intervistava. Ma non è solo questione di età, le registe non hanno documentato un fenomeno sociale che è sicuramente presente. In Lombardia risulta che più di 2000 sono stati i parti di mamme under 21. In “Il figlio dell’altra” di Lorraine Levy del 2013 due madri, una israeliana e l’altra palestinese, riscoprono i figli scambiati nella culla, il riavvicinamento al figlio naturale, dopo 20 anni, è dolce, emozionante, è quasi un innamoramento. L’essere stati all’oscuro della verità rende sia i genitori che i figli indifesi, sprovveduti ma anche rigenerati, aperti verso qualcosa che sta nascendo in quel momento che fa luce sulla guerra di popoli che potrebbero essere affratellati, rivelando l’insensatezza della violenza.

Il film di Aida Begic del 2013 “Buon anno Sarajevo” racconta la guerra che ha lasciato le famiglie a brandelli. Una donna sotto ai 30 anni vive con il fratello adolescente, perché sono rimasti orfani dei genitori. Lei, operaia in un ristorante, si impunta perché non le venga portata via la tutela del ragazzo, diabetico, violento, difficile che è già stato cooptato nel giro della malavita. E ci riesce, dedicandogli attenzione, senza irrompere nel suo mondo, e mantenendo ancora aperto lo spazio del gioco, al riparo dalle premure delle istituzioni di mettere il ragazzo in riformatorio. Centrale sulla maternità è sicuramente il film di Alina Marazzi “Tutto parla di te”, che purtroppo non è in dvd non è più in distribuzione e non ho visto quando è stato nelle sale.


Fra i film indipendenti autofinanziati, nel nuovo film di Milli Toja che stiamo girando, “Le pietre e l’amore”, la comunità femminile e la comunità maschile si scontrano ancora perché gli uomini invidiano il sapere delle donne. Ma questa volta c’è una donna amata da un uomo ad aprire il conflitto. Non c’è più di mezzo allora la relazione possibile con i fratelli ma un passo successivo è stato compiuto. La soggettività femminile arriva a occupare i territori maschili. La possibilità che si danno le donne di tenere i fratelli dentro a un rapporto affettivo quindi oltre la legge, lo stato e le istituzioni, in questo film ha già esaurito le sue carte. Fra uomo e donna c’è la stessa passione che concentra i suoi motivi fra le donne medesime. Amore o amicizia sono il materiale che plasma le relazioni assecondando una continuità, una logica e una scelta che non può essere intercambiabile.
La passione fra un uomo e una donna, agita nella comunità delle donne, sottolinea la contraddizione impellente, assoluta e distruttiva più che la possibilità di mediazione.

 


La bicicletta verde” del 2012 di Haifaa Al-Mansour, la prima donna regista dell’Arabia Saudita realizza in una storia godibilissima l’analisi dei pesanti impedimenti alla libertà femminile agiti nei paesi islamici, dove le donne girano completamente coperte di nero, vengono fatte sposare a dodici anni e su di loro incombe il diritto del marito a trovarsi un’altra moglie. La storia la conosciamo, questo piccolo film ha fatto subito il giro del mondo. Wadijda la protagonista ha la sua bicicletta perché gliela regala la bella mamma, abbandonata dal marito che sta per prendere un’altra moglie. “Voglio che tu sia la ragazzina più felice del mondo, sei coraggiosa, tu sei tutto quello che mi resta”. Il desiderio di una figlia coraggiosa vince contro tutti pregiudizi e anche la madre trova il coraggio di esaudirlo, meritatamente. Senza mai parlare di parità la regista affronta temi scottanti, è la relazione madre figlia che fa giustizia, rielabora le assurde proibizioni, interpretano insieme un desiderio che mette la ragazzina nella condizione di vincere sull’amico coetaneo. La bicicletta che è molto più di un capriccio di un’adolescente è la ‘cosa giusta’ per sentirsi nel mondo, nonostante le regole  lo proibiscano, soprattutto alle donne, isolate dalla comunità maschile pubblica. Ed è la madre l’unica che può autorizzare il desiderio della figlia, quindi non le leggi, la cultura e tanto meno il padre. E’ la madre che decide come disfarsi delle regole, delle credenze, delle proibizioni in nome della morale.


Certo non di questo parlano gli altri film delle registe usciti fra 2012 e 2013. Sono lavori cinematografici che hanno scelto di raccontare il nostro tempo, che danno un giudizio preciso sulla realtà, che indagano sulle condizioni in cui stiamo vivendo e di cui occorrerebbe afferrare bene il punto di vista che vogliono comunicare. Mira Nair con “Il fondamentalista riluttante” ha raccontato di nuovo l’11 settembre e la spaccatura fra mondo arabo e occidentale, andando verso un uomo giovane, un pakistano brillante che vive in USA e che è spinto a tornare in patria, schierandosi con i fondamentalisti, nella battaglia contro gli americani, dopo che ogni aspetto della sua vita di manager gli si rivolta contro, bollandolo come un terrorista. Anche Katherine Bigelow ha raccontato il presente con la cattura di Osama Bin Laden e il ruolo di una donna, esponente della CIA, nella ricerca del nascondiglio del capo di Al Kaeda, in “Zero Dark Thirty” del 2012. Valeria Golino in “Miele” analizza il tema del suicidio assistito e il coinvolgimento di una giovane donna che per lavoro, clandestinamente, crea per donne e uomini che ne hanno necessità, le condizioni della morte. Ispirato da “Vi perdono” di Angela Del Fabbro (pseudonimo di Mauro Cavacich), ripubblicato con il titolo “A nome tuo”, il film con la sceneggiatura della stessa regista, scritta insieme a Francesca Marciano e Velia Santella ha modificato il libro. Ne parla Valeria Golino http://www.cinemaitaliano.info/news/18125/libro-film-miele-tra-mauro-covacich-a-valeria.html

 

Susanna Nicchiarelli racconta dal romanzo omonimo di Walter Veltroni “La scoperta dell’alba”, il presente alla luce degli anni di piombo, assecondando una vena fantastica, riesce a fare vedere alla protagonista come la sua collocazione dalla parte delle vittime del terrorismo, sia affatto inequivocabile. C’è quindi un giudizio sulla storia che mescola le carte, addestrando più a esercitare il sospetto che non l’adesione incondizionata verso l’ipotesi ufficialmente più credibile.
“Amiche da morire”  di Giorgia Farina è una divertentissima commedia noir dove le donne sono protagoniste uniche della comicità. Forse se di maternità si volesse parlare in questo film, potrebbe essere quella simbolica fra la regista e Lina Wertmuller, un’autrice che per prima ha diretto film puntando sulla comicità delle donne, facendogli dire, con lo sguardo dell’ironia, verità mordaci, anche contro se stesse oltre che contro i maschi.