LIBRI, Recensioni, Graziella Bernabò, Per troppa vita che ho nel sangue, Viennepierre, 2004

by Donatella Massara on marzo 1, 2014

sulla webradio Donne di parola: un percorso di poesie recitate, accompagnate dalla musica creata per le poesie di Antonia Pozzi di Eleonora Zullo e di testi scritti.

ARTICOLO DI FRANCA FORTUNATO PUBBLICATO DALLA RIVISTA CIMINIERA – GENNAIO 2014

ANTONIA POZZI NEL LIBRO DI GRAZIELLA BERNABO’ “PER TROPPA VITA CHE HO NEL SANGUE”.

 

Antonia Pozzi, intellettuale milanese degli anni Trenta, morta suicida all’età di 26 anni, fu sottovalutata nell’ambiente culturale milanese che lei frequentò. Fu apprezzata, poi, in modo generico negli anni Trenta, dopo la pubblicazione da parte del padre di alcune sue liriche, nella raccolta “Parole”. Riscoperta nel 1945 da Montale, che la ricondusse nell’ambito complessivo della letteratura italiana del Novecento, è solo negli ultimi decenni che è studiata nella specificità della sua poesia, che esprime un sofferto, e tuttavia, ricco e originale universo femminile. Oggi conosce una nuova fortuna: le tesi di laure, gli articoli, i saggi su di lei, le traduzioni delle sue poesie e i film sulla sua vita, si moltiplicano. Nel libro Per Troppa vita che ho nel sangue, da cui è tratto questo saggio, Graziella Bernabò ripercorre il suo dramma esistenziale da cui scaturì la sua poesia.

Antonia Pozzi nasce a Milano il 12 febbraio 1912. Chi la conobbe e frequentò la ricorda come una giovane donna insieme timida e ardente, insicura e passionale, molto intelligente e creativa. Cercò nella sua vita , tra mille difficoltà e incomprensioni, una vera libertà per sé, a partire <dal di dentro> ( per usare un’espressione a lei cara). Aspirava ad andare oltre la semplice emancipazione esteriore che le venne concessa, in modo contraddittorio, da chi l’amava, come il padre e gli uomini che incontrò. Il padre Roberto, avvocato, fu un esponente di primo piano, ma non fanatico, del fascismo. Ricoprì la carica di podestà. La madre Lina Cavagna Sanguiliani proveniva da una famiglia aristocratica. Una donna colta, intelligente ma succube del marito, uomo generoso ma autoritario. Non riuscì, perciò, ad essere per la figlia una figura forte a cui riferirsi in certi momenti della sua vita. Dopo la sua morte, la madre e il padre vissero nel culto e nel ricordo della figlia. Il padre capì la grandezza della sua poesia e vi dedicò la vita per farla conoscere e diffondere.

La madre si ritirò nella solitudine della sua casa. Negli anni giunse a considerarla non come vittima, ma come una donna che aveva deciso con estrema dignità la propria fine, una persona non da compatire ma da rispettare. Antonia condivideva con la famiglia la sola frequentazione alla Scala. Amava la musica. Non amava i salotti della Milano “bene”, li trovava superficiali e artificiali e visse sempre con disagio e quasi con un senso di colpa la sua appartenenza sociale. Alla Milano “bene” preferiva l’ambiente culturale universitario e le persone semplici di Pasturo. Alla vita mondana milanese preferiva il contatto con la natura della pianura lombarda e delle montagne della Valsassina , che le restituivano un senso di radicamento e di pace. Le montagne, la natura, la “salvarono” in tanti momenti della sua vita. L’amore per la pianura lombarda parte in lei dalla passione per Pasturo, un minuscolo paesino della Valsassina dove giunse per la prima volta, bambina, nel giugno 1918 con la madre e la zia Ida ( il padre era ufficiale di artiglieria sul fronte del Piave), qui trascorse molti periodi della sua vita. In quella casa ci tornava per riflettere, fare chiarezza su se stessa, ritrovare se stessa, e pensava di andare a vivere se un giorno fosse rimasta sola. Qui scrisse molte sue poesie.

Viaggiò molto, ma appena poteva, tornava a Pasturo, tra la gente semplice e la natura. La sua casa c’è ancora. E’ di proprietà delle Suore del Preziosissimo Sangue. Due stanze restano adibite all’Archivio Pozzi, curato da Suor Onorina Dino, che custodisce con scrupolosa fedeltà le memorie di Antonia. Il suo studio è come lei lo ha lasciato. Ci sono tutte le sue cose: la scrivania con un tappeto un po’ consumato; le penne, i pennini, la carta assorbente rimasta intrisa di inchiostro, un album, con alcuni disegni, le bambole, un orsacchiotto di stoffa, gli zaini, le picozze per la montagna, gli sci; la racchetta da tennis, il frustino per l’equitazione, le librerie con molti testi accuratamente postillati. La parete è piena di fotografie di luoghi e di opere d’arte, di Antonia stessa, sola o con i familiari. Poco lontano da casa Pozzi c’è un piccolo cimitero. Qui Antonia riposa dal dicembre 1938, ai piedi delle amate montagne, com’era nei suoi desideri. Sulla pietra è inciso un passo della sua poesia “Giorno dei morti” del 2 dicembre 1932, ma in una variante: E vedono/ l’oro tuo/ Signore/ il mare eterno/ della Tua verità

Da bambina, Antonia era dolce, molto vivace, assai sensibile e incline alla malinconia. Nel suo Diario lei stessa parla della sua infanzia tranquilla attraversata da alcune inquietudini. Forse si riferiva ai suicidi del nonno e della zia paterni. Forse c’era una predisposizione familiare alla depressione , ma questo non spiega del tutto il suo suicidio. La sua strutturale malinconia fu esacerbata da dolorose esperienze personali e da sfavorevoli circostanze storiche e culturali.

Gli anni della sua adolescenza, dal 1926 al 1929, sono anni molto inquieti. Nell’anno scolastico 1927 -1928, incontra quello che sarà il suo grande amore, Antonio Maria Cervi. E’ il suo professore di latino e greco al Liceo classico “Manzoni”. Lei ha 15 anni, lui 33. Il professore è un uomo di grande cultura ed umanità, un bravo insegnante. Lei ne resta affascinata. Il rapporto di Cervi con Antonia rimase sempre da padre e fratello maggiore forse per la grande differenza di età. La prima ad innamorarsi fu Antonia. Lui all’inizio era restio a una trasformazione del loro rapporto di amicizia. Solo nel gennaio 1930 acconsentì a un legame più tenero: i due cominciarono a darsi del tu e a scambiarsi lettere più affettuose. Probabilmente poi, entrò in scena il padre di Antonia che le proibì di intrattenere quel rapporto d’amore. Nel 1931 Cervi fece il passo di presentarsi a lui per chiederla in sposa. Ricevette un’accoglienza così fredda che rimase muto. L’ostilità del padre era dovuta alla differenza d’età? A pregiudizi, perché Cervi era meridionale? Al timore che la figlia lo lasciasse per andarsene a Roma, dove il professore si era trasferito per stare vicino alla madre, e abbandonasse l’università? Antonia adorava Antonello – come lei lo chiamava – , fu l’unico vero amore della sua vita, ma erano molto diversi su molti piani. Per esempio, lei era impegnata in una ricerca spirituale del tutto personale, lui era dentro un cristianesimo rigoroso e avrebbe voluto tirarvi dentro anche Antonia. Quando il 10 febbraio 1932, le rivela l’intenzione di chiudere ogni rapporto, Antonia pensa che uno dei motivi sia il fatto che non aveva accettato il suo Dio e il 1 marzo di quell’anno gli scrive : Perché se è questo che tu mi rimproveri, Antonello, di non credere nel tuo Dio, o se quel che tu dici, camminare vuol dire entrare nella tua chiesa, tu capisci, vero, che sarebbe disonesto verso la mia coscienza il fingermi un dovere che non comprendo e non sento.

Antonello non capiva la sua ricerca spirituale personale, così come non accettava la sua impulsività che la rendeva sincera e spontanea. Desiderava spingerla a un cambiamento. Antonia sente l’impulso di telefonargli

Se il padre di Antonia si oppose, il professore però non fece niente per salvare il legame: per orgoglio? Per dignità? Per la differenza di età? Per il carattere di Antonia? E’ vero che avrebbe desiderato essere sposo e padre, ma è probabile che Antonia, tanto giovane, esuberante e assoluta, lo avesse in qualche modo sgomentato e che questo, sommato alle circostanze sfavorevoli, lo avesse indotto a ritirarsi dal legame amoroso. Antonia lotta per mantenere il legame.

Una donna, rispetto a un uomo, ha una maggiore difficoltà a chiudere definitivamente un rapporto importante e rivolgersi con soddisfazione al solo lavoro. Lei vive questa difficoltà. A due anni di distanza , nel febbraio 1934, scrive una lettera a Cervi, da cui risulta che in precedenza gli aveva telefonato, ma che egli aveva reagito bruscamente, come subito dopo l’interruzione del loro rapporto. Lui si sentiva tormentato da lei. Doveva aver infierito verbalmente nei suoi confronti, arrivando ad accusarla di non averlo mai amato e di aver condotto una vita falsa. Antonia reagisce con fierezza e difende la sincerità del suo amore: Tu sei in me ancora. L’unica luce, ferma come un altare, che si fa più bianca, quando più nere sono le macchie che cadono qui intorno. Non dirmi ch’io t’ho mentito. Se ti ho dato più dolore che gioia, se ho ceduto davanti al dolore degli altri e ti ho chiesto di rinunciare, non al nostro amore, ma alla realizzazione del nostro amore, se non ho saputo darti nulla di ciò che ti aspettavi da me – credi – io ti ho dato tutto quello che ho potuto. Alla fine non le resta che rassegnarsi alla chiusura della loro storia. Cervi non si sposò mai. Tenne fino alla morte la fotografia di Antonia giovinetta accanto ai ritratti dei genitori e del fratello, morto in guerra.

Testimoni del suo amore per il professore furono le sue amiche di una vita Lucia Bozzi e Elvira Gandini. Si erano incontrate al Liceo, anche loro allieve di Cervi. Erano più grandi di Antonia e dopo la laurea le scelte di vita le allontanarono, anche se rimasero sempre in contatto. Lucia si fece suora, Elvira si sposò e si diede all’insegnamento, lontana da Milano. E’ ad Elvira che Cervi, l’anno precedente alla sua morte, sentendosi ormai al tramonto della vita, piangendo consegnò, in una busta sulla quale c’era scritta la poesia “Silenziosamente”, le fotografie di Antonia bambina, che gli erano state regalate da lei molti anni prima. Fino alla fine si recò sulla sua tomba per portarvi un mazzo di garofani. L’ultima volta vi lasciò anche un biglietto: < All’adorata Antonia/ il suo Antonello>. Tutte le sue lettere ad Antonia sono state distrutte dal padre di lei, forse per salvaguardare il ricordo della figlia. Le lettere che Antonia scrisse a lui ci sono giunte, con molti tagli, dalla nipote del professore, dopo che questi morì. Antonio Maria Cervi morì all’età di 72 anni il 13 aprile 1966. Nell’anno 1934/1935 Antonia entra all’università milanese “La Statale”. Qui, tra il 1934 e il 1938, frequentò il gruppo che faceva riferimento ad Antonio Banfi e divenne amica dei suoi più brillanti allievi. Tra cui Remo Cantoni e Dino Formaggio, con cui Antonia pensò potesse ricostruire un rapporto di amore. Il suo desiderio di maternità e di sposarsi fu, però, frustrato, ancora una volta. Un desiderio in parte suo, ma in gran parte indotto dalla propaganda ossessiva del regime sulla donna madre e sposa come unico destino femminile. Il dramma di Antonia non fu solo personale ma investì anche la cultura e la sua poesia, che per lei divenne la principale ragione di vita. Solo attraverso la poesia e nel riconoscimento in questo ambito, avrebbe potuto trovare l’affermazione di sé in quanto donna, e “salvarsi”. Ma questo non si verificò. Nel gruppo banfiano fu sottovalutata, non già come studiosa, ma piuttosto rispetto alle sue capacità poetiche e, quel che è peggio, alla sua stessa personalità. La sua natura estremamente sensibile e vibrante e il legame, costante in lei, tra istanza intellettuale e desiderio affettivo, lo stesso suo alto concetto della relazione, amicale o amorosa che fosse, sconcertavano e spaventavano i giovani del gruppo,senza escludere una simpatia per lei. Enzo Paci le disse <Scrivi il meno possibile> e Banfi, nel riconsegnarle le poesie : < Signorina, si calmi> e le suggerì di passare al romanzo storico. Lei progettò di scriverlo quel romanzo, pensando alla sua genealogia: la bisnonna ( Elisa), la nonna (Maria), la madre ( Lina) e lei. Nel luglio 1938, pochi mesi prima di morire, scrisse di questo suo progetto all’adorata nonna materna ( la Nina) a cui si sentiva molto legata. Ma del romanzo non scrisse nemmeno una riga. La sua vocazione era per la lirica. Il mondo dei banfiani era un mondo altamente razionalistico che guardava con sospetto l’emozionalità femminile, vista come disordine. In questo erano condizionati sia da un pensiero filosofico esclusivamente maschile e sia dal pregiudizio nei confronti del femminile che, in qualche modo, avevano assorbito dall’ambiente circostante. Antonia non cercò nemmeno di diffondere i suoi scritti oltre la cerchia degli amici più intimi.

Già ferita da una vita poco appagante sul piano affettivo, l’assoluta sottovalutazione della sua poesia fu un colpo molto duro inferta alla sua natura sensibilissima. Avrebbe avuto bisogno di un confronto e di una misura che le derivasse anche da un mondo femminile forte, in cui potersi riconoscere. A causa dei giudizi negativi sulle sue liriche, ricevuti da Paci e Banfi, viveva la sua vocazione poetica con una sorta di senso di colpa e si sentiva quasi delegittimata nel coltivarla, anche se, per fortuna, non riusciva a rinunciarvi. Con Dino Formaggio si apre alla realtà storica e sociale del suo tempo. Entra con lui nei sobborghi popolari, dove si lascia coinvolgere dalla miseria e dalla sofferenza altrui. Percepisce le discriminazioni sociali di un’epoca che pretendeva di essere trionfalistica, fornendo della società italiana un’immagine edulcorata, funzionale alla propaganda di regime, ma che nascondeva terribili aspetti di miseria e di degrado. In seguito alle leggi razziali molti suoi amici, come i fratelli ebrei e socialisti Paolo e Pietro Treves e la loro madre Olga , sono costretti a lasciare l’Italia, si sente in colpa per un padre potestà fascista. Remo Cantoni era ebreo e Dino Formaggio antifascista. Nell’ultimo anno della sua vita, Antonia fu molto sola. Le sue amiche erano lontane, con i genitori non aveva alcuna intimità. Ormai era tardi. Nella campagna di Chiaravalle scelse di morire su uno di quei prati verso i quali amava dirigersi in bicicletta, da sola o con gli amici. Un luogo particolarmente amato anche da Dino Formaggio che vi andava a studiare. Nella lettera che lasciò all’amico gli scrisse che andava a morire in un luogo cui la legava un piacevole ricordo comune.

Quella mattina si recò a scuola, era supplente. Il preside preoccupato per il suo stato di profondo malessere, le consigliò di tornare a casa in anticipo. Si diresse invece verso l’abbazia di Chiaravalle e, dopo aver ingoiato molte pasticche di barbiturico, si sdraiò su un parto vicino alla Certosa e aspettò la morte. Fu trovata nel pomeriggio da un contadino.

Non sembrava sul momento troppo grave, tanto che egli la < esortò a tornare a casa>, invece la situazione si aggravò. L’uomo chiamò allora un’ambulanza, che la trasportò al Policlinico. Morente fu portata a casa tra le braccia della madre. Il padre nell’allontanare i parenti disse: < Lasciategliela! E’ sua >. Morì alle 19,20 di quel 2 dicembre 1938. Il suo ultimo pensiero fu per i suoi genitori e per la nonna materna a cui lasciò una lettera, anche questa rimaneggiata dal padre: “Papà e mamma, carissimi, non mai tanto cari oggi, voi dovete pensare che questo è il meglio. Ho sofferto … Ciò che mi è mancato è stato un affetto fermo, costante, fedele, che diventasse lo scopo e riempisse la mia vita .. Anche i bambini, che l’anno scorso bastavano, ora non bastano più. I loro occhi mi guardano mi fanno piangere …. Fa parte di questa disperazione mortale anche la crudele oppressione che si esercita sulle nostre giovinezze sfiorite … Direte alla Nena che è stato un male improvviso, e che l’aspetto. Desidero di essere sepolta a Pasturo sotto un masso della Grigna, fra cespi di rododendro. Mi ritroverete in tutti i fossi che ho amato. E non piangete perché ora io sono in pace. La vostra Antonia.”

 

Nessuna vigliaccheria in Antonia. Lottò quanto poté, tentò di ricostruirsi e solo quando le si opposero tutte le circostanze esterne, compresa la “crudele oppressione” dell’epoca in cui si era trovata a vivere, decise di andarsene. Fare dipendere la sua decisione finale semplicemente da una delusione amorosa significherebbe non capire la complessità e la profondità del suo dramma.