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CHICO
regia di Ibolya Fekete, Ungheria, Germania, Croazia, Cile, 2001
col.108'
v.o. sott.ingl.
( Per la rassegna Sguardi Altrove Milano 2002)
di
Donatella Massara
Chico è un
film di guerra. Ha però l'ambizione di offrire a chi guarda una
carrellata sul XX secolo. Un secolo - è stato detto - 'il più
violento' della storia moderna fino ai giorni nostri.
Se osservate la data di nascita che è quella della mia generazione,
vi accorgete che la regista racconta la sua storia, quella che è
rimasta nella nostra memoria partecipe e cosciente; dagli anni '70,
quando avevamo vent'anni, in avanti fino alle ultime guerre in ex-Jugoslavia.
Vedendo il film ho ripensato al giudizio di Valentina
Beradinone quando a proposito dell'opera di Shirin Neshat parla
dell'immagine epica/simbolica come forma di distacco indispensabile
per parlare della storia e dei conflitti. Per ottenere queste immagini
occorre un complicato e partecipe distacco individuale, necessario a
trasmettere la sintesi della grandiosità collettiva.
Ibolya Fekete narrando attraverso un protagonista maschile prende il
massimo di distacco per fare parlare la storia delle guerre. Le immagini
che ci trasmette hanno questa risonanza e caratteristica. La scelta,
così in contrasto con l'idea femminista del partire da sè,
è cautelata, a mio parere, dall'attenzione data alla differenza
maschile, portata in scena dalla guerra e dal protagonista.
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Al
centro del film sono gli avvenimenti crudi di quarantanni quelli che
hanno messo un segnale di pericolo e di contraddizione aperta sulle
zone del mondo 'povere' - come i Sudamerica e l'area balcanica - e dove
guerre parcellizzate e insolute hanno permesso gli equilibri mondiali
forse fino all'11 settembre.
I protagonisti del film sono esclusivamente maschili perché chi
fa la guerra, qui, non sono i soldati di leva e le donne comuni coinvolte
nelle guerre 'storiche', e in ogni momento della storia pubblica. Sono
invece 'i personaggi' che, presenti in ogni situazione 'esplosiva',
appartengono a un'opzione politica, il comunismo, che ri-passa - di
solito criticamente-per l'immaginario dei film di molte registe in questi
anni.
Chico è sicuramente un'opera cinematografica di tutto
rispetto e che non ha bisogno di rivendicarlo. Disturba non trovare
le donne, per capire il film essere costrette a infilarsi nei panni
di un eroe per niente brillante a viaggiare dentro alla storia dei nostri
anni, eppure il risultato c'è ed è interessante. Il film
è documentato e anche piacevole. Adatto a essere discusso nelle
scuole a parlare degli anni '70 e '90 del Novecento. La regista che
ha anche scritto il film con questo lavoro ha vinto il Premio Best director
al Festival del 2001 di Karlovy Vary; si spera che venga tradotto e
doppiato. Ha girato altri film precedenti a questo, ed altri ne ha scritti.
Non ha all'attivo una vasta produzione che né è mai circolata
in Italia. Il film precedente a questo è Bolse vita del
1996 sull'Ungheria dopo l'89.
Ibolya mescola scene reali, prese dai documenti originali con ricostruzioni
fatte direttamente sul posto, in Croazia, Israele, Albania, Ungheria.
Il personaggio di Ricardo è smaterializzato e coinvolgente, allo
stesso tempo. E' uno qualsiasi e allo stesso tempo ci dice che non siamo
noi. Certamente non sono io a essere stata in Bolivia quando hanno ammazzato
Che Guevara, in Cile quando i carri armati e gli aerei dei generali
bombardavano La Moneda e il popolo cileno, nè a Vukovar quando
15.000 persone, vecchie e giovani, in un grande esodo, accompagnato
nel film dalle note di 'Va pensiero', abbandonano la loro città
assediata e poi espugnata dai serbi di Arkan, e neppure sono mai stata
in Albania al confine con la Grecia a passeggiare nelle terre irte di
un milione di colonnine punzonate a difesa di possibili nemici paracadutati.
Una regia straordinariamente efficace attraversa le situazioni, mescolando
documenti storici e finzione, restituendoci la coscienza e la memoria
degli avvenimenti, con una selezione raffinata e un uso della crudezza
delle scene sempre attento a non scatenare l'avversione radicale. Certamente
Ricardo non è un pacifista, dopo essere stato testimone degli
avvenimenti boliviani, cileni, poi ungheresi, decide di lasciare la
professione di giornalista e, picchiato dai serbi a solo scopo di sopraffazione,
decide di arruolarsi con gli ustascia. Avverte il padre, l' artista
comunista che gli ha insegnato la lezione della politica e portato in
giro nel vagabondare suo e della madre mentre fuggono o sono espulsi
da una nazione all'altra. Il padre è scandalizzato: gli ustascia
sono fascisti, sono quelli che hanno ammazzato sua madre, ebrea, sulle
rive del Danubio. Ricardo gli dice che il mondo è cambiato, bisogna
vedere i fatti da vicino, viverli dall'interno per accorgersi che le
definizioni non sono più convenzionali. Combatte, resterà
in coma sei giorni; lo ritroviamo a Gerusalemme deciso a confessarsi
che ha passato tutta la vita a competere con suo padre, fino a che la
ragione delle sue scelte non la ricorda più, sono rimaste solo
le azioni e la speranza della fede.
Il film parla dunque della differenza maschile e lo fa con schietta
precisione, richiesta affidabile a una donna. Il protagonista ha avuto
tre o quattro cittadinanze; fa impazzire i serbi che abbia in tasca
due passaporti, lui figlio di madre spagnola, padre ebreo ungherese,
nato in Bolivia, passato per il Cile, emigrato in Svezia. Lui non ha
una vera patria, e più di suo padre potrebbe dirsi internazionalista.
Eppure combatte e si identifica con la terra dove risiede. Anche alla
fine della guerra in Croazia gli viene riconosciuta la cittadinanza.
I suoi passaporti, queste identità nazionali disseminate negli
anni gli danno un'identità 'precaria' ma per la quale vale la
pena morire. Vale la pena morire per un ideale, perché si vive
per qualcosa di grande ed elevato, questo si erano detti con l'amico
del cuore, da ragazzini. Di fronte a questa promiscuità fra richiamo
alla terra per la quale immolarsi, richiesta simbolica di un riconoscimento,
di un segno di identità c'è da pensare alla differenza
sessuata. E la regista, esasperando la scelta su chi interpreta il suo
film, indirizzata quasi esclusivamente verso gli uomini, ci parla di
questa differenza. Ho ripensato a quanto afferma la filosofa Adriana
Cavarero: gli uomini entrano nella polis, con una cittadinanza scambiata
con la guerra, la disponibilità al sacrificio; un patto al quale
le donne, libere dai doveri della cittadinanza, sono esterne.
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