L'esperienza
del Festival del cinema africano non significa certo stare sedute in una sala
buia a vedere film di grazioso contenuto etno-antropologico. Dopo tre giorni di
visioni il motivatissimo popolo della sala e l'educatissimo popolo dell'organizzazione
hanno l'aspetto già lievemente triste e stressato, nonostante il festival
sia riuscito bene e la presenza sia alta nelle quattro sale in cui si svolge.
A coronare i primi tre giorni assistiamo al documentario di Anne Aghion sul Rwanda
- tema speciale di questo 14° Festival.
Gacaca, revivre ensemble
au Rwanda (2003) di Anne Aghion regista e produttrice esperta di mondo
arabo, documenta l'esperienza di riconciliazione fra le etnie in un piccolo villaggio.
Il gacaca è un processo a cielo aperto nel quale prigionieri e vittime
in presenza di un giudice accusano e si difendono. Con una instancabile civiltà,
seguendo la pratica processuale dell'epoca pre-coloniale raccontano davanti alla
cinepresa in mezzo a uno spiazzo sotto le piante millenarie gli orrori capitati,
denunciano, accusano un essere presente dell'assassinio di fratelli, figli di
pochi anni, raccontano stupri, furti, violenze gli altri si discolpano, come possono.
In alcuni casi confessano esplicitamente e sottolineano la perfetta coscienza
del male agito, non potendo sottrarsi all'obbligo di esecuzione. Colpisce la presenza
femminile, le donne sono rimaste più sole e più numerose degli uomini,
alcune lucide partecipano al processo, al gacaca, le altre che chiudono il documentario
raccontano il loro malessere con parole difficili, la sofferenza psichica negli
occhi di chi ne ha subite troppe, undici figli uccisi, probabilmente ancora bambini,
dice una donna, accovacciata nella sua capanna <<ed è come se fossi
stata sempre sola, come posso tenere ancora qualcuno fra le braccia?>>
Il processo continua nei bar, nei ritrovi degli uomini; questa gente è
incuriosita, cerca di mascherare il legittimo interesse per la cinepresa che li
distrae, forse contribuisce a valorizzare il loro impegno, al limite dell'assurdo;
diventano attori di se stessi e trovando le parole per dire il male che hanno
subito. La regista è esterna a questa rappresentazione che si snoda sempre
tenendo in primo piano i suoi soggetti, la geografia appena accennata di un paesaggio
rurale, ordinato eppure che ci comunica l'idea di un pericolo reale, perchè
già avvenuto.
Ecco una donna che ha contravvenuto all'interrogazione
sulla propria storia, così urgente nel cinema delle registe. Un preziosissimo
segno della differenza che aiuta a smitizzare la storia, a desituarla dove non
ci aspetteremmo di trovarla. Nel
documentario di Anne Aghion non troviamo tutto questo, eppure sentiamo l'appassionata
presenza della ragione femminile politica. Le donne ruandesi hanno a disposizione
un occhio che le mette in evidenza - senza privilegiarle agli uomini - e noi vediamo
che c'è un 'dio' delle donne che ne ispira la ragione, l'autorità,
il giudizio politico.
Gli uomini in sala hanno strane reazioni, invece:
un giapponese che fino a ieri si aggirava con l'aria gentile e attenta, mi passa
letteralmente sui piedi, travolgendo le mie cose senza lasciare che mi sposti,
un altro durante la proiezione vedo con la coda dell'occhio ogni tanto mi osserva,
fa cenni con la testa, come se si sentisse responsabile in prima persona, un giovane
nei corridoi chiede insistentemente alla ragazza che gli sta di fianco se non
le sembrasse <<carino >> (!!) il film che avevano visto, spero non
si riferisse a questo film.
Le
registe presenti alla rassegna concorrono o presentano 32 opere fra cortometraggi
e lungometraggi su un totale di più di un centinaio di film.
The
journey of a queen di Viola Shafik (Egitto-Germania, 2003) racconta la
storia di una testina di legno raffigurante la regina Tiye. La regista, dottorato
in filosofia, descrive attraverso interviste, letture la storia archeologica della
statua attualmente al Museo egizio di Berlino.
Kuxa Kanema (O nascimento
do cinema), (Mozambico-Portogallo, 2003) di Margarida Cardoso racconta
in un interessantissimo documentario la nascita e lo sviluppo del cinema mozambicano
durante la rivoluzione socialista del Frelimo e la fine di questo cinema dopo
la morte sospetta del presidente Samora Michel caduto con l'aereo in Sudafrica.
I filmati di quei dieci anni giacciono, oggi, in un luogo abbandonato e diroccato,
quello che resta degli stabilimenti di una cinematografia, nel 1991, ulteriormente
demolita con l'incendio della cineteca nazionale. Molti sono i filmati d'epoca
inseriti nel documentario, vediamo il presidente e le domande reiterate e enfatiche
con cui si rivolgeva direttamente al popolo; probabili alti funzionari del partito
in giacca e cravatta ballano in fila un ritmato rap contro il capitalismo; Jean
Luc Godard progetta la disseminazione delle cineprese nei villaggi mozambicani,
rese per un uso alternativo e autonomo della informazione, a donne e uomini che
non avevano mai visto neanche una fotografia.
Walking backwards
di Caroline Deeds (Ghana-UK, 2004). E' un ritorno della regista fra le
donne della sua famiglia, la nonna che è stata una grande oratrice, diceva
le preghiere di rito e apriva i comizi di N'Krumah. presidente durante gli anni
della liberazione del Ghana.
Tanger, le reve des bruleurs di
Leila Kilani (Marocco-Francia, 2002) con uno stile molto più vicino al
cinema della finzione che del documentario la regista insegue gli uomini e una
donna di diversa provenienza africana che vivono a Tangeri nei pressi del porto
in attesa di imbarcarsi clandestinamente verso la Spagna. Mette in evidenza il
desiderio di queste persone di andare, di superare il confine per entrare nella
società occidentale dove esiste il benessere. La sfida con se stessi è
il motivo conduttore del film che risulta appassionante più che semplicemente
informativo.
Being Pavarotti - Project 10 di Odette Geldenhuys
(Sudafrica) riprende il motivo del desiderio, della sfida maschile. In questo
caso il modello è un uomo in carne e ossa, Luciano Pavarotti arrivato attraverso
i cd a Ermano in Sudafrica, un paese sul mare dove d'estate arrivano piccole balene
e i turisti affascinati accorrono a osservarle. Ragazzini di dodici, tredici anni
sono gli epigoni scrupolosi del tenore, ne imitano la voce e cantano in italiano
O sole mio e La donna è mobile aspettando che i turisti li
ricompensino e i maestri di musica ne scoprano i talenti.
Il
tema dell'indagine sulle proprie origini ritorna in altri film di registe note
come Frédérique Devaux (Entre deux rives, Francia,
2003) di origine algerina che nasce in Francia da madre francese e padre algerino.
il padre abbandona i figli francesi e si rifà una famiglia in Algeria.
Solo alla morte del padre la regista può cercare di capire le sue scelte.
Il film-documentario si snoda tra le campagne povere e le voci delle donne (zie,
parenti del padre) che raccontano chi era, e voci e volti dei fratelli francesi
e di altri immigrati privi di radici: un fratello avrà problemi psichici
dovuti a questo suo non sapere chi è (religione, tradizioni, lingua, padre)
Ancora il tema delle origini in Belonging - Project 10 di Minky
Schlesinger e Kethiwe Ngcobo (Sudafrica, 2003). Le due donne sono una regista
e l'altra interprete del documentario. Kethiwe figlia di esuli sudafricani, vissuta
per molti anni a Londra, oggi giornalista free lance alla tv, è
tornata con un figlio a vivere in patria con la madre e le sorelle. Ha un figlio
di pochi anni ed è sola, intenzionata a crescerlo senza un uomo. La situazione
in cui si trova a vivere è complessa; mentre analizza, in una lunga autocoscienza,
le sue relazioni con gli altri e le sue esigenze, scopre la scontata assimilazione
alla cultura occidentale e -allo stesso tempo- il bisogno di rientrare profondamente
nella sua etnia. E' immergendosi dentro a questo rapporto materno che arriva perfino
a ripetere la cerimonia zulu tradizionale con la lancia e il gonnellino. E' una
cerimonia di cui la madre le rivela il grande significato: ricevere il laccio
che tiene il figlio legato al suo corpo simboleggia l'ingresso nella tribù.
Oltre la tradizione il rito vale per il bambino e per lei, ritornata adulta fra
la sua gente.
Los
rubios di Albertina Carriè è un film molto profondo, impegnato
anche nella scelta stilistica. E' stato a mio parere il film più bello
fra quelli che ho visto in concorso nella sezione lungometraggi, racconta la storia
della regista, figlia di genitori comunisti imprigionati e uccisi durante la dittatura
dei generali.
Il titolo, che significa alla lettera I biondi, sta
a indicare l'estraneità di quella famiglia che abitava un comune quartiere.
Albertina ritorna con la sua troupe a interrogare i vicini di casa e gli amici
e le amiche dei genitori dopo più di ventanni. Questa gente che li vide
sparire e mai più tornare li ricorda come biondi, anche se Albertina non
lo è per niente e così lei dice non lo era sua madre. Per questo
l'attrice a metà film indossa una parrucca bionda. Insomma l'immagine reale
nella memoria si è sovrapposta a quella della fantasia fino a cambiarne
gli attributi fisici di queste persone ricordate come 'altre', diverse. Il film
non conclude e rimane aperto, si muove fra la messa in scena di come si svolge
il film e l'inchiesta sui genitori di Albertina. Un' attrice impersona Albertina,
la vediamo provare la parte e assumersela durante le riprese delle interviste.
C'è un continuo scambio fra verità e finzione che non è mai
veramente tale, fra testimonianze dirette e riflessione della regista-attrice.
L'effetto di questi spostamenti è straniante fino a sollevarci l'ansia
della tensione pure mantenendo il clima di partecipazione emotiva. Il tema del
film sono i ricordi che a poco a poco diventano un discorso razionale finchè
anche noi che guardiamo e ascoltiamo possiamo comprendere, condividere, accettare
la grande sofferenza che la regista ci mette davanti.
(vai
alla recensione al secondo film della regista, presentato al Festival di Cannes,
2005: Geminis)
Na
cidade vazia, Maria
Joao Ganga, Angola, 2004
di Marina Santini
Il
film della regista angolana è un film costruito bene: ho pensato subito
che potesse ottenere, almeno per quanto riguardava il pubblico, un riconoscimento:
ha tutti gli ingredienti, un bimbo protagonista, un po di politica guerra,
indipendenza, missioni bianche-, il viaggio di scoperta dal villaggio alla città.
Il
bambino protagonista è reduce dalle violenze della guerra e orfano dopo
i massacri avvenuti nel suo villaggio; non si adatta alla carità delle
missionarie bianche (attente e preoccupate, ma che presentano pur sempre un ordine)
e cerca una propria strada, scopre la città e i suoi pericoli. C'è
la metafora dellAngola che si vuole svincolare dalle protezioni, anche quelle
a fin di bene, dei bianchi e cerca se stessa. Il bambino incontra altri come lui,
poco più grandi, ma già troppo cresciuti per le esperienze vissute,
adulti che poco si prendono cura di loro se non per sfruttarli come un anziano
pescatore che lo accoglie con una vita più semplice, lontana dalla confusione
e dai bassifondi della città.
Le
prove, ad opera di alcuni ragazzi di una scuola, di una rappresentazione teatrale,
che mette in scena un episodio dellindipendenza angolana si alternano e
scandiscono la vita del bambino e la sua scoperta del mondo, fino alla uccisione
finale delleroe.
Bella
la scena finale con il protagonista che dovrebbe mettersi in salvo fuggendo: si
affaccia sul vuoto della tromba delle scale e spaurito per il gesto c inconsapevolmente
appena compiuto, ritorna sui suoi passi, andando incontro alla morte, come leroe
dellindipendenza. Le
speranze finite di una generazione, che si affaccia sul vuoto.
La
regista è della generazione dellutopia, e il film mostra la delusione
per unAngola diversa non realizzata. Si sente il senso di colpa della generazione
adulta nei confronti dei bambini che avrebbero potuto essere la nuova Angola e
che sono invece completamente privi di speranza.
Di
femminile nella regia?? Non so
Forse il fatto che in tutto il film non ci
sono giudizi negativi sulle persone; della prostituta un ragazzo dice: "Vedrai
alla fine ti aiuta. Aiuta tutti..", anche il giovane che metterà in
atto una rapina quella fatale per il bimbo- quando lo incontra si presta
ad aiutarlo a costruire i suoi giocattoli, senza un secondo fine
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