indice
I
siti (a cura di Laura Modini):
fondamentale:
http://www.pbs.org/pov/tvraceinitiative/
rabbitinthemoon/
Rabbit in the
moon è stato premiato al Sundance Film Festival nel 1999.
Emiko Omori è
una delle più importanti registe nippoamericane e lavora ogi
sia nella fiction sia nel documentario
http://www.demko.com/cs990525.htm
http://www.capitol-city.com/moviefolder99/indrabbit.html
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Rabbit
in the Moon
Documento-memoria della nippoamericana Emiko Omori,
USA, 1999
di Laura Modini
e Donatella Massara
Il film è
un documentario di 87', racconta con documenti, foto, interviste, e
la diretta partecipazione della stessa regista l'esperienza vissuta
durante la seconda guerra mondiale da migliaia di persone di etnia nipponica
nella Grande America.
Infatti negli Stati Uniti venne internata (lei aveva 18 mesi) con la
famiglia in un campo di concentramento per giapponesi traditori emigrati
nel suolo degli States. Come lei migliaia e migliaia di giapponesi che
erano emigrati in America anche più di due generazioni precedenti.
Nel leggere la storia
di questo film mi è venuta alla mente la lettura che feci tantissimi
anni fa di un libro scritto da Fosco Maraini (padre di Dacia) sulla
terribile esperienza fatta da lui e dalla sua famiglia (moglie e due
figlie, una era Dacia di poco più di tre anni) in Giappone dove
vennero internati in un campo di concentramento durante la seconda guerra
mondiale in quanto italiani traditori.
Pagine di storia
da conoscere, rivedere, meditare, sempre.
E il cinema aiuta la storia a ritornare in superficie e riprendere il
posto che le spetta.
E' un esempio di quando il cinema fa anche storia, e alle volte riesce
a diventare Storia.
Laura
Il film, i siti
e la storia delle donne
The hardships
endured were great, but still not greater than those of the ones of
the Shoah. Japanese culture does not lend itself to self-centered complaining
or indignance, and women in particular are encouraged to suffer quietly
in silence. Because of this, many internees are silent about their time
in the camps, not wishing to seem petty, says one interviewer. (
Karina Montgomery )
Il film è
un documentario veramente notevole. Il titolo Rabbit in the moon
evoca un' immagine abituale del Giappone. Questa frase con la sua traduzione
americana è il simbolo della cultura giapponese negli USA, dice
la regista. Il popolo giapponese vede nelle notti di luna piena un coniglio
sulla luna chino a brucare l'erba. In USA i giapponesi stavano allo
stesso modo, guardati come nemici, simbolo di una cultura ostile, diversa
tanto più se restava legata ai simboli di una lingua materna
e della famiglia.
Per parlare del
documentario e delle caratteristiche della storia narrata dalle donne,
vorrei commentare gli aspetti diversi ritrovati nei siti: quello dedicato
al film (il primo) è un sito che raccoglie le immagini e le testimonianze,
gli altri due sono recensioni: di un professore americano e di Karina
Montgomery per la Movie Rewiews.
Mentre il testo del professore accoglie i temi storici generali ritenuti
più rilevanti, l'altro scritto, come nella frase citata in alto,
sottolinea gli aspetti più 'personali' eppure straordinariamente
politici e storici del documentario.
Il film, e viene ripetuto più volte dalla regista e dalla sorella,
è dedicato alla madre. Una figura scomoda della loro storia.
La madre muore a trentasei anni poco tempo dopo la liberazione dal campo
di concentramento. La regista dice che tutta la famiglia per anni rimosse
la madre e la sua morte, brutta perchè improvvisamente la donna
perdette sangue in piaghe che le coprivano il corpo. Lei ricorda che
la vide salire su una macchina e poi non seppe più niente di
sua madre. Fecero sparire le foto, non parlarono più di lei e
neanche della prigionia. Nel racconto della sorella rappresenta quello
che la figlia non avrebbe mai voluto essere: la madre camminava due
passi dietro al marito con gli occhi bassi e mangiava alla fine del
pasto. C.Omori diceva di essere invece pienamente americana e glielo
urlava molto direttamente alla madre, prendendola in giro. La sorella,
oggi scrittrice sposata con un caucasico conosciuto a Berkley, è
la guida spirituale della regista nel film. Ha dieci anni di più
e al tempo dell'internamento è un'adolescente.
Altre immagini delle donne sono visibili, della loro storia si sa qualche
notizia, ed è sempre qualche cosa che esce fuori in maniera drammatica.
Uno degli intervistati, oggi scrittore, racconta che la madre aveva
avuto male ai denti e siccome c'era il coprifuoco aveva dovuto recarsi
a Sacramento dal dentista il quale in un'unica seduta glieli aveva levati
tutti; aveva quarant'anni e parlava sempre con la mano davanti alla
bocca.
Sono racconti di un paese 'sano e civile' che poco hanno a che vedere
con i 'culti del sole' di europea memoria. Scanso equivoco, sto parlando
dei nazisti e della cultura ariana. E tuttavia sono storie anche queste
ingiustificabili, perchè i giapponesi in USA erano americani,
trapiantati in luoghi dove avevano sereni commerci e solo dopo Pearl
Harbour, 1 febbraio 1941, il mai del tutto documentato attacco aereo
giapponese che distrusse gran parte della flotta americana, donne e
uomini di origine giapponese diventano sospettabili e confinati, nè
più nè meno come altri gruppi 'nemici', fra i quali gli
stessi italiani. Eppure il documentario si apre con una frase che dice:
questa è una storia che non è mai raccontata, non perchè
sia troppo brutta ma perchè non lo è abbastanza.
Come dice la citazione: certamente i campi di concentramento destinati
ai giapponesi non possono essere paragonati a quelli della Shoah. Inoltre
la cultura giapponese non è abituata a autocompiangersi nè
a indignarsi, in particolare le donne sono incoraggiate a soffrire in
silenzio. Ma è questo che denuncia ogni intervista agli internati:
uomini e donne hanno cercato di mettere sotto silenzio cosa era accaduto
nei campi per non sembrare meschini.
La storia a me sembra fatta soprattutto da questi fatti molto più
che dal questionario di cui parla anche il documentario. Questo obbligava
gli uomini e le donne a scegliere fra l'incarcerazione, se rifiutavano,
e la piena fedeltà agli States. La rinuncia di ubbidienza all'Impero
nipponico faceva diventare apolidi donne e uomini di prima generazione
in USA. Solamente la seconda generazione e della quale c'era garanzia
che non avesse avuto un'educazione in Giappone, diventava cittadina
americana.
E' la disgregazione famigliare, lo sradicamento di cui scrisse in quegli
anni Simone Weil, che sono denunciati nel film. Le famiglie nel campo
erano lacerate perchè i capi di famiglia, i giapponesi immigrati,
Issaye, non contavano più nulla. Il governo americano si rivolgeva
ai giovani nati in USA, Nissaye, che garantivano una maggiore responsabilizzazione.
Questo stato di cose, questo conflitto fra generazioni e nello stesso
gruppo etnico, fra chi si schierava con gli States e chi no, lo racconta
molto bene la sorella della regista mentre descrive la sua presa di
distanza dalla famiglia: di una giovane donna con un fortissimo desiderio
di vivere. E' una situazione difficilmente comprensibile attraverso
i documenti se
non si vede ciò di cui questi non parlano: la differenza sessuale,
la relazione fra le donne e la costruzione dei generi.
Donatella
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