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Se faccio finta
di non sapere quali differenze ci sono nella politica delle donne è
difficile che non mi stupisca per due scelte tanto distanti e contemporanee,
una settimana dopo l'altra, nei programmi di Sguardi altrove,
allo Spazio Oberdan del Comune di Milano, al suo deciimo compleanno
e del quasi coetaneo L'occhio delle donne rassegna cinematografica
dell'Associazione Lucrezia Marinelli di Sesto San Giovanni, che praticamente
è un quartiere di Milano.
Conosco le organizzatrici delle due rassegne per una, quella di Sesto,
c'è una mia carissima amica, la 'grande' Nilde Vinci e altre
mie amiche e compagne di politica; anche le donne della rassegna milanese
le conosco, una l'ho incontrata negli anni '80, la 'grande' Gabriella
Guzzi, c' è poi Cristina Galante, direttrice artistica della
rassegna con Patrizia Rappazzo, che ho conosciuto personalmente solo
l'anno scorso e determinatamente mi ha messo a parte del suo impegno
e della ricerca dei film di quest'anno e le sono sommamente grata per
questo regalo che mi ha fatto. Lei non sa quanto sono legata nella mia
memoria a questa pratica femminile di sentire raccontare. In questo
caso e non è il primo per me è un anticipare con le parole
immagini. A me piace questa maniera di mettere l'altra in un rapporto
di famigliarità con quello che si conosce e che potrebbe conoscere
lei stessa ma che sapendolo prima attraverso un'altra impara e comprende
sempre qualcosa in più; insomma è come vedere su due tempi
il prima e il dopo attraverso la ricchezza della parola viva e relazionale
che è molto più sorprendente e efficace della parola professionale
e specializzata.
Ma tornando ai due programmi delle rassegne perché - mi sono
domandata - due scelte così opposte? L'una, quella dell'Oberdan
si dichiara apertamente <<non artistica>>, nel senso che
è anzitutto militante e impegnata nella documentazione storica;
come ha detto Gabriella alla presentazione del Festival, mercoledì:
perché di fronte a tutto quello che sta succedendo nel mondo
non si sa come si riesca a ridere, a divertirsi; ecco allora che i film
sono documentari, quasi tutti, parlano di guerra, di dolore, di sofferenze
e di morti; nella sezione internazionale, ci sono film di registe palestinesi,
turche, slave, bosniache, israeliane ed ebree, e ancora di italiane
che sono andate a documentare popolazioni femminili senza parola propria,
come le afghane.
Bellissimo è il film di Mai Masri che
attraverso due adolescenti e i loro amici descrive la situazione di
un campo profughi palestinesi. Le due amiche si staccheranno perché
l'una rimane nel campo e l'altra diventa esule negli USA. Lo sguardo
delle registe è fermamente rivolto alle donne e questo aspetto
mi colpisce attirandomi verso la regia delle donne non occidentali.
C'è inoltre un orgoglio di appartenere al sesso femminile che
commuove quando si rivolge, come nel film della Masri, alle due giovanissime
con una fermissima aspettativa nel loro futuro, dove all'autorità
femminile si chiede di farsi carico addirittura del cambiamento politico
e del mondo in guerra in cui si trovano tutt'oggi.
Nelle stesse giornate del Festival internazionale si svolge la proiezione
dei film delle giovani registe italiane in un concorso della regione
Lombardia e in un altro del Premio Kodak. Un azzeccato incrocio che
permette di pensare a che cosa in Italia le registe scelgono di girare
e a quello che vedono invece le registe palestinesi e ebree, piuttosto
che quelle che stanno in contatto con le sacche di proletariato del
sud e Centramerica.
L'altra rassegna invece si apre lunedì 3 marzo e si intitola
La felicità ricerca o casualità? e attraverso tre
film, soprattutto, perché due risultano estranei
all' interrogativo, vorrebbe fare riflettere su questo problema che
non esiterei a definire di filosofia della vita. Per quanto ne so, la
felicità è una chimica dei fluidi riconoscibile come tale,
stato corporale di beatitudine oppure stato della mente che è
felice dell'intuizione di sé e del mondo, oltre l'attimo fuggente
è uno stato psichico, una contingenza di situazioni riconoscibili
propriamente, come dice Adorno, solo quando se ne è fuori, solo
quando la felicità è nel passato, si puo' dire, dunque:
sono stata felice.
Invece L'occhio delle donne propone di progettare la felicità
e qui la filosofia che conosco non mi dà risposta, se non quella
delle donne; quando scrivemmo Non credere di avere dei diritti
ci fu chi teorizzò il kairos, l'occasione giusta saperla
cogliere, dunque, e essere felici. E per citare, quindi, Aristotele:
cercare l'eudaimonia nella via di mezzo, nell'equilibrio delle
situazioni.
A questo risponderebbero i film programmati perché come si legge
nell'Introduzione <<Se è vero che non si nasce sapienti,
ma lo si diventa, è anche vero che non si nasce felici, ma potremmo
sempre imparare a diventarlo. Ci sono persone così infelici al
mondo che, ad un certo punto della loro esistenza, non possono fare
a meno di trovare un rimedio, una soluzione per porre un termine a quel
tormento>>. Ecco che allora le due rassegne mi sono accorta che
si parlano, non sono opposti insanabili, sono due versioni diverse della
contingenza, dell'essere nel mondo, sapendo che cosa abbiamo vissuto
e stiamo vivendo.
continua:
I film di Sguardi altrove
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