Donne e conoscenza storica
     

Sito ufficiale del Festival Sguardi Altrove, 2003, Milano
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Le registe in Sguardi Altrove - Catalogo X edizione

Appunti: Festival Internazionale della regia femminile SGUARDI ALTROVE a Milano e L'occhio delle donne a Sesto San Giovanni

Film e storia al Festival Sguardi Altrove a Milano 2003. Commenti

di Donatella Massara

 

Vetrina mediorientale e altri film

Nel sito della Libreria delle Donne:
Combattenti e terroristi articolo di Amira Haas

Nella Rete Civica Milanese: un forum Israele che raccoglie documentazione e notizie sulla storia e la cultura ebraica attraverso un'ampia raccolta di links con le risorse in rete

 

 

Between the Lines, regia Yifat Kedar, Israele, 2001, v.o. araba-ebraica, 68’
E' il film importante che apre la Sezione immagine mediorientale della rassegna. Per me è il primo film perchè è dedicato a Amira Has, una presenza importante nel paesaggio della guerra fra Israele e Palestina. Amira, ebrea figlia di una sopravvissuta alla Shoah, ha scelto di vivere a Ramallah, un territorio dell'Autorità palestinese, giornalista di A' Haretz la vediamo fra strade e case dove non dovrebbe stare per documentare e capire, la accompagnano le parole di sua madre. Quattro anni sono durate le riprese del film. Amira è quindi inviata, e poi figlia, ripresa fra vita privata e vita pubblica che, come succede alle donne, è con rilevanza una cosa sola. Sentiamo la sua voce al funerale della madre mentre ne legge il diario del 1944. Amira mette sè nel dialogo politico e parla allora, con in braccio il piccolo di amici palestinesi, di figli che non desidera, che non ha voluto, perchè fra l'altro, nella sua vita, c'è l'impegno militante che viene prima di tutto e la sua soggettività sospesa fra presente e un futuro forse, per destino, inevitabilmente già segnato dalla negazione della maternità.

L'inviata di guerra è l'interprete di queste vicende del nostro tempo (una figura affatto nuova, ce ne sono già nel Risorgimento, e appena nasce il giornalismo, nel '700) sta dentro le linee dei 'suoi' confini e nello stesso tempo le salta perchè cerca di starne fuori nel desiderio di rappresentare e di fare giustizia senza ideologizzare, senza schierarsi. E' una figura dello scambio fra donne e uomini, donne e mondo essenziale per pensare la storia del nostro tempo. Non si scaglia e non si schiera neanche con la determinata e preordinata diligenza di chi vuole capire nè per deontologia professionale, è già dentro alle cose; di solito, nata in queste terre, ne è apparentata profondamente; è alla ricerca di un senso più lontano e originario, così le conosce nella mescolanza dolorosa e incoerente che esse offrono.
Nel sito della Libreria delle Donne c'è un articolo di Amira Haas che Stefano Sarfati Nahmad ci ha fatto conoscere traducendone l'ebraico

4 Songs for Palestine (Quattro canzoni per la Palestina), regia di Nada El-Yassir, 2001, Palestina, v.o. araba, 13'.
La regista palestinese guarda e documenta attraverso la televisione cosa sta succedendo 'fuori' mentre la protagonista sta in casa a cucinare per sè e allattare la figlia di pochi mesi. E' l'unico film 'artistico' raffinato e semplice, usa musiche e colori, non ha dialogo se non quello televisivo e quello dei gesti fra la madre e la piccola o tesi verso gli oggetti. Non è un documentario e non è neppure un film, è un cortometraggio che sollecitando ciò che noi già sappiamo mette in scena quello che spiegano, attraverso le parole, gli altri film. Sono le difese del mondo adulto contro la violenza esterna a essere protagoniste. In questo caso la vita prosegue e le emozioni sono attenuate nella dolcezza del dialogo madre-figlia. La soggettività femminile è costruita nell'esilio dentro a un luogo familiare, la casa e il paese dove si è nate e cresciute, il centro del mondo è il proprio luogo interiore e allo stesso tempo è esposto allo sguardo quello di altre e altri.

Frontiere di sogni e di paure, regia di Mai Masri, 2001, Libano-USA, v.o. araba, 56'. Anche in questo film, girato benissimo ritroviamo quanto dicevo prima. In questo caso la regista si rivolge alle giovanissime donne e ripone in loro la speranza del miglioramento. C'è la posizione tipica delle registe palestinesi viste fin'ora che cerca di ascoltare le differenze, di desituare le immagini per non creare linee rigide di riferimento, pur mantenendo viva la posizione di denuncia contro Israele. Come sappiamo i palestinesi e le palestinesi non riconoscono lo stato di Israele, neppure sulle mappe che stampano e distribuiscono (!).

Alle frontiere
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regia di Danielle Arbid, Libano, Belgio, Francia, 2000, 59 parla ancora di questo punto di vista; la regista però è libanese e stando ostinatamente ai confini, nella terra fra le dogane, attraversando quindi Libano, le alture del Golan, la Siria, la Giordania e arrivando fino ai confini dell'Egitto, nei pressi del Sinai, interroga chi passa. Riprende e intervista le palestinesi che vanno nei giorni di festa sulle alture della Siria per potere vedere il loro villaggio al di là del confine; sentiamo i borghesi palestinesi emigrati dichiarare che non era possibile stare sulle proprie terre amatissime e accettare l'occupazione, e si parla del '48, quando si forma lo stato di Israele, e per questo motivo se ne sono andati, altri più poveri invece ci dicono che sono tornati in Israele a lavorare e quando sono rientrati in Libano hanno scontato sei mesi di prigione per averlo fatto. La regista allora chiede agli esiliati, uomini e donne e a chi passa il confine se pensano di avere la cittadinanza palestinese o israeliana. Alcuni non pronunciano neanche il nome Israele, perchè non lo riconoscono altri quasi si stupiscono della domanda, essendo arabi israeliani con la cittadinanza doppia sul passaporto.

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500 Dunam on the Moon, regia di Rachel Lee Jones, 2001, Israele, Francia, USA, 47', v.o. araba-ebraica è invece di una regista israeliana e ci mostra l'insediamento di Ein Hod. Era un villaggio palestinese dopo la risoluzione delle Nazioni Uniti, e quindi con il ritorno ebraico e la creazione del kibbutz, è diventato un rifugio per chi si occupa d'arte e ristrutturato su progetto del dadaista Mancel Janco. I filmati d'epoca e i quadri descrivono la vita finalmente libera di Ein Hod, colonia di artisti che sono sopravvissuti alla Shoah. Oggi nella stessa terra convivono famiglie ebraiche e palestinesi, le une alla ricerca di una cultura originaria e ebraica perchè quella araba-palestinese - a sentire gli ebrei non avrebbe lasciato tracce. Non sappiamo dove questi insediamenti ebraici non abbiano distrutto oltre alle anonime casette del villaggio - che pure ai palestinesi erano care - reperti di una cultura originaria araba. Le attuali abitazioni palestinesi sono confinate in zone stupende, belle case però scomode, prive di allacciamento all'acqua e all' elettricità. Distrutte le loro abitazioni di origine oggi vivono in queste case dove il mancato progresso delle relazioni fra i due popoli ha bloccato l a cotruzione di infrastrutture che sono attive solo per il villaggio degli artisti. Sorprendente la posizione di una giovane nata e cresciuta dentro all'insediamento ebraico, ormai dotato di tutto il comfort, che ci spiega la poesia e la forza di questa vita 'naturale', dei vicini palestinesi, più vicina alla verità, come toccò ai primi coloni ebrei, nel '48.

In
Le pays de Blanche, regia di Maryse Gargour, Palestina-Francia, 2002, 28’la storia del conflitto arabo-israeliano è raccontato attraverso le parole di questa anziana donna, ha 91 anni ed è una dei 5.000.000 di palestinesi in esilio. Nel '48 lascia la sua ricca casa, le sue terre e non è più tornata in Palestina. Ricorda ancora la dolcezza e la bellezza del suo paese, viveva a Jaffa, 'come una principessa'. I suoi ricordi risalgono alle colonizzazioni ebraiche degli anni '30, la Palestina dopo la sconfitta e la disfatta dell' Impero turco è sotto il mandato britannico. I sionisti hanno professato il ritorno alla terra promessa e stanno avviando ,dopo le primissime emigrazioni di ebrei nel XIX secolo, trattative, acquisti di terre e più massicci trasferimenti e organizzazioni produttive per costruire uno stato ebraico, il primo dopo la distruzione del tempio nel 70 d.c. e la diaspora. In quegli anni - racconta Blanche - era andata in viaggio a Parigi con il marito per visitare la grande esposizione internazionale. Entrati nel padiglione dedicato a Israele -Palestina si trovarono fra pareti coperte di arabi e cammelli, palmeti e tende del deserto intitolate: i beduini. Blanche è ancora sdegnata adesso: questa era la Palestina per gli ebrei, questa era la propaganda che ci facevano per sollecitare le grandi potenze a farsi assegnare il governo della nostra terra!! Ecco è lì che è nato tutto ! Molto poetico e ricco di storia questo documentario tutto girato intorno a una signora araba cristiana è una vera invenzione creativa che meriterebbe di essere tradotto e visto.

News Time
, regia di Azza El Hassan, Palestina, 2001, 52’ v.o.araba è una narrazione in prima persona della regista che riprende le strade vuote di Ramallah durante l'eclisse di sole. Adattissimo come il film di Mai Masri a essere discusso e proiettato a scuola. I protagonisti sono in questo caso quattro ragazzini di tredici anni, quelli che, in alcuni casi, finiscono sui manifesti appesi ai muri e allora è la fine per noi, dice qualcuno, perchè quelli sono i martiri dell'Intifada; non sono i kamikaze, di cui questi film non parlano mai, bensì i ragazzini che tirano le pietre e sono uccisi negli scontri con la polizia. E' uno di loro a fare questa morte alla fine del film. I quattro erano stati grandi amici e si erano divertiti a farsi riprendere e a raccontare alla regista la loro storia personale. Lo sguardo di Azza non è militante, è trasversale: racconta che un giorno ha aperto la finestra e quando tutti si nascondevano per l'eclisse di sole ha cominciato a girare. E' questa visione che sposta l'abitudine a vedere sempre le stesse cose, la consuetudine a ascoltare solo le parole che ci sono più famigliari e obbliga a guardare meglio, a sentire le tante peculiarità che si affiancano, coperte dentro un punto di vista 'ufficiale'.

Dopo queste giornate intense non si scansa il giudizio politico. Come appare dunque la società israeliana-palestinese nei film delle registe e come ne esce il conflitto israelo-palestinese ? I film delle palestinesi sono intenzionati anzituto a restituire la realtà del conflitto e la denuncia dell'oppressione; i risultati più interessanti sono quelli che attraversano la politica muovendosi anche all'interno della quotidianità, allora la cinepresa accarezza le cose, gli interni, i volti ed è come se discutesse, sapendo di avere a che fare con qualcosa che c'è e allo stesso tempo può cambiare.
Viceversa i film delle israeliane sono soprattutto rivolti a sè, intenzionati a fermarsi sulle proprie contraddizioni e a discutere con i cambiamenti interni alla società israeliana.

The south: Alice never lived here
regia di Senora Bar-David, Israele, 1999, 82' v.o. ebraica-bulgara-ladina descrive con attenzione la vita di tre generazioni di donne ebree che abitano nei quartieri sefarditi di Tel Aviv, a Tel Kabir. Il problema di Elinor la più giovane è come riuscire ad andarsene. E' la storia della regista. Il conflitto palestinese è presente-assente fino a risolversi nella battuta di Elinor che dice se Peres vuole lasciare Tel Kabir a Arafat io non mi oppongo. Se lo tenga pure: è talmente brutto!!!

Ramleh
regia di Michal Aviad, Israele, 200, 58', v.o. araba-ebraica-russa affianca donne molto diverse: due russe ortodosse, una ragazza madre e un' araba israeliana. Anche questo film descrive l'interno della società molto esclusiva dei due popoli. Vediamo così che le donne sono religiose nel senso più devotamente patriarcale: il foulard nero lo si porta anche se non è affatto gradito alla giovane donna nascondere i capelli però fa piacere al marito che può dimostrare alla comunità la religiosità della moglie. L'idea comune è che le donne hanno potere sugli uomini e anche se loro non possono fare quello che vorrebbero però gli uomini sono, in fondo, molto malleabili. In realtà il fatto stesso di lasciarsi riprendere testimonia le contraddizioni. C'è l'adesione a regole non di origine femminile nella devozione però c'è - allo stesso tempo - un moto di riconoscimento e di comunicazione verso le altre donne che a queste regole non sottostanno.

Nella bolla regia di Dalia Castel & Alessandro Cassignoli, Italia, 2002, 45', v.o. ebraica con sott. italiani conferma l'idea che gli israeliani e le israeliane non vivano tutta la drammatica straordinarietà della loro condizione, anche perchè non l'hanno certo scelta ! Sono le amiche e gli amici di Dalia a dichiararsi durante l'intervista <<nella bolla>>. Una ragazza si definisce <<scollegata>>, ascolta i giornali radio che non la turbano perchè è chi ha paura che sa tutto, anche quante pietre sono state lanciate in un giorno. Lei non ha paura. Allo stesso tempo protetti e consapevoli, questi giovani raccontano che hanno paura di sedersi nei bar, di prendere gli autobus, creano teatro che denuncia i giocattoli bomba confezionando bombe giocattolo di stoffa a fiorellini riempita di bambagia.

The women of Hezbollah regia di Maher Abi-Samra, Francia, 2001, v.o. araba-francese sono le donne che accettano le regole del fondamentalismo patriarcale enunciandone consapevolmente le contraddizioni.
Due donne legate al Partito di Dio raccontano la loro storia. Una è una famosa leader islamica, porta solo il foulard in testa, ha il viso bello e segnato di rughe, è stata imprigionata nelle carceri israeliane, ha subito la tortura, ha avuto un marito, l'ha lasciato e ha trovato un altro compagno, ha avuto parecchi figli, uno è entrato nella resistenza e lei di questa scelta è molto orgogliosa, le donne occidentali non possono capire che la più grande gioia per le donne islamiche è avere un figlio martire di Allah; la stessa affermazione la ripete l'altra donna, interamente coperta di nero, vediamo solo un triangolo del suo viso giovane, famiglia d'origine non religiosa è diventata stretta osservante frequentando una scuola religiosa. Questa donna ha i figli ancora bambini e riconosce che non si sente ancora pronta per ricevere questa grazia. Il fondamentalismo del partito armato è pienamente accettato in queste donne che pensano che uomini e donne debbano lottare a fianco, allo stesso tempo denunciano le umiliazioni a cui è sottoposta la donna nell'islam, la sottovalutazione del sesso femminile non agevola queste donne a dedicarsi come avrebbero desiderato allo studio, all'apprendimento. Il film ha ottenuto una Menzione della Giuria al Vermont Women's Film Festival, 2002

Senorita Extraviata, regia di Lourdes Portillo, Usa, 2001, 74’ v.o.spagnolo-inglese ci fa spostare in Messico. Questo documentario ha vinto molti premi, fra i quali il Premio del Pubblico al festival di Creteil del 2002 e quello della Giuria al Sundance Film Festival, gli altri sono stati vinti a Cuba, e a San Josè. Racconta una storia terribile: 268 ragazze sparite e uccise in riti satanici a Juarez, città di frontiera con gli USA. La polizia e il governo locale, in questi anni, non hanno fatto quasi nulla, se non arrestare bande, serial killer, uno, e non per questo si sono fermati gli omicidi. Le famiglie denunciano, manifestano e accusano anche la p.m. e si chiedono di che cosa abbia paura. Testimoniano le madri, una in particolare che continua le sue ricerche, la sua denuncia, raccontandoci che mentre era incinta della figlia aveva subito un rapimento, uno stupro e si era salvata. E adesso si chiede perchè è successo ancora proprio a sua figlia. Il confine fra realtà e finzione di un documentario non esiste, tuttavia lo stile del documentario è spiazzante e alcune hanno detto che è <<assurdo>> volendo forse sottolineare che non sembra reale. A me pare che non sia così, la realtà è un fatto storico, sta nel rispetto che conferiamo a chi ce la racconta; anche le camere a gas c'è chi sostiene che servivano per chi era già morto e che in campo di concentramento si moriva di morte naturale!!! E' ovvio che noi siamo qui che non sappiamo che cosa fare per loro, quelle donne, quelle famiglie, intanto però tutto il mondo sa cosa è avvenuto. Queste ragazze sono tutte molto povere la ricchezza dello scambio e della comunicazione di notizie è un modo per rendere loro giustizia.

Fra gli altri film visti ci sono:
La borsa di Helene, regia di Costanza Quatriglio, Italia, 2002, 23’, un bel documentario protagonisti avventori e clienti e soprattutto una donna africana che gestisce una trattoria nel quartiere africano di Palermo.
Welcome in Italy, regia di Aurora Sulli, Elena Hazanov, Italia, 2002,12’ v.o. inglese, francese, curda, russa e araba, sono interviste a donne e uomini che arrivano in Italia chiedendo di essere accolte e accolti come rifugiati politici; sono popolazioni curde, cecene, palestinesi.
Due pezzi pazzi, regia di Giulia Brazzali, Italia, 2002, 4’33’’ è un cortometraggio che racconta l'incontro del figlioletto di quattro anni della regista con la sua migliore amica, un'anziana donna che era stata l'anno prima ricoverata in ospedale psichiatrico e di cui il bambino ricorda e descrive esattamente tutto: il ricovero, l'autoambulanza, la camicia di forza, gli infermieri e anche la sua bellezza, i capelli 'biondi', la grassezza ma soprattutto con nostalgia racconta i giochi e le 'pazze' risate che si erano goduti in compagnia. Altri due filmati sono dedicati all'Afghanistan Shanaz di Genevieve Mersh narra attraverso una bambina la vita di una famiglia prima dei bombardamenti su Kabul dove hanno perduto la casa e due bambine. Adesso vivono in un villaggio fangoso in estrema povertà, una bambina sopravvissuta ha la faccina semiparalizzata, sta migliorando nonostante lo choc provocatole dopo il bombardamento. I ritorni di Carla Kollmann-Peter Bodo ci fa vedere le attiviste che stanno organizzando in Afghanistan assemblee per spingere le donne a andare a votare e iscriversi nelle liste elettorali. Hanno organizzato corsi sulla salute e cooperative dove le donne lavorano 15 gg. a testa per guadagnare qualcosa.
Sull' Afghanistan è anche Dietro il velo di Cassian Harrison e Le donne di Kabul il video delle Donne in nero, immagini e testo di Ivana Stefani che denuncia la situazione delle mogli ripudiate che vivono spesso prostituendosi in condizioni di totale povertà e che solo grazie al RAWA possono modificare la loro vita.