Between
the Lines, regia Yifat Kedar, Israele,
2001, v.o. araba-ebraica, 68
E' il film importante che apre la Sezione
immagine mediorientale della rassegna. Per me è il primo film perchè
è dedicato a Amira Has, una presenza
importante nel paesaggio della guerra fra Israele e Palestina. Amira, ebrea figlia
di una sopravvissuta alla Shoah, ha scelto di vivere a Ramallah, un territorio
dell'Autorità palestinese, giornalista di A' Haretz la vediamo fra strade
e case dove non dovrebbe stare per documentare e capire, la accompagnano le parole
di sua madre. Quattro anni sono durate le riprese del film. Amira è quindi
inviata, e poi figlia, ripresa fra vita privata e vita pubblica che, come succede
alle donne, è con rilevanza una cosa sola. Sentiamo la sua voce al funerale
della madre mentre ne legge il diario del 1944. Amira mette sè nel dialogo
politico e parla allora, con in braccio il piccolo di amici palestinesi, di figli
che non desidera, che non ha voluto, perchè fra l'altro, nella sua vita,
c'è l'impegno militante che viene prima di tutto e la sua soggettività
sospesa fra presente e un futuro forse, per destino, inevitabilmente già
segnato dalla negazione della maternità.
L'inviata
di guerra è l'interprete di queste vicende del nostro tempo (una figura
affatto nuova, ce ne sono già nel Risorgimento, e appena nasce il giornalismo,
nel '700) sta dentro le linee dei 'suoi' confini e nello stesso tempo le salta
perchè cerca di starne fuori nel desiderio di rappresentare e di fare giustizia
senza ideologizzare, senza schierarsi. E' una figura dello scambio fra donne e
uomini, donne e mondo essenziale per pensare la storia del nostro tempo. Non si
scaglia e non si schiera neanche con la determinata e preordinata diligenza di
chi vuole capire nè per deontologia professionale, è già
dentro alle cose; di solito, nata in queste terre, ne è apparentata profondamente;
è alla ricerca di un senso più lontano e originario, così
le conosce nella mescolanza dolorosa e incoerente che esse offrono.
Nel sito
della Libreria delle Donne c'è un articolo
di Amira Haas che Stefano Sarfati Nahmad ci ha fatto conoscere traducendone
l'ebraico
4
Songs for Palestine
(Quattro canzoni per la Palestina),
regia di Nada El-Yassir, 2001, Palestina, v.o.
araba, 13'.
La regista
palestinese guarda e documenta attraverso la televisione cosa sta succedendo 'fuori'
mentre la protagonista sta in casa a cucinare per sè e allattare la figlia
di pochi mesi. E' l'unico film 'artistico' raffinato e semplice, usa musiche e
colori, non ha dialogo se non quello televisivo e quello dei gesti fra la madre
e la piccola o tesi verso gli oggetti. Non è un documentario e non è
neppure un film, è un cortometraggio che sollecitando ciò che noi
già sappiamo mette in scena quello che spiegano, attraverso le parole,
gli altri film. Sono le difese del mondo adulto contro la violenza esterna a essere
protagoniste. In questo caso la vita prosegue e le emozioni sono attenuate nella
dolcezza del dialogo madre-figlia. La soggettività femminile è costruita
nell'esilio dentro a un luogo familiare, la casa e il paese dove si è nate
e cresciute, il centro del mondo è il proprio luogo interiore e allo stesso
tempo è esposto allo sguardo quello di altre e altri.
Frontiere
di sogni e di paure, regia di Mai
Masri, 2001, Libano-USA,
v.o. araba, 56'. Anche in questo film, girato benissimo ritroviamo quanto dicevo
prima. In questo caso la regista si rivolge alle giovanissime donne e ripone in
loro la speranza del miglioramento. C'è la posizione tipica delle registe
palestinesi viste fin'ora che cerca di ascoltare le differenze, di desituare le
immagini per non creare linee rigide di riferimento, pur mantenendo viva la posizione
di denuncia contro Israele. Come sappiamo i palestinesi e le palestinesi non riconoscono
lo stato di Israele, neppure sulle mappe che stampano e distribuiscono (!).
Alle frontiere,
regia di Danielle Arbid, Libano, Belgio,
Francia, 2000, 59 parla ancora di questo punto di vista; la regista però
è libanese e stando ostinatamente ai confini, nella terra fra le dogane,
attraversando quindi Libano, le alture del Golan, la Siria, la Giordania e arrivando
fino ai confini dell'Egitto, nei pressi del Sinai, interroga chi passa. Riprende
e intervista le palestinesi che vanno nei giorni di festa sulle alture della Siria
per potere vedere il loro villaggio al di là del confine; sentiamo i borghesi
palestinesi emigrati dichiarare che non era possibile stare sulle proprie terre
amatissime e accettare l'occupazione, e si parla del '48, quando si forma lo stato
di Israele, e per questo motivo se ne sono andati, altri più poveri invece
ci dicono che sono tornati in Israele a lavorare e quando sono rientrati in Libano
hanno scontato sei mesi di prigione per averlo fatto. La regista allora chiede
agli esiliati, uomini e donne e a chi passa il confine se pensano di avere la
cittadinanza palestinese o israeliana. Alcuni non pronunciano neanche il nome
Israele, perchè non lo riconoscono altri quasi si stupiscono della domanda,
essendo arabi israeliani con la cittadinanza doppia sul passaporto.
'500
Dunam on the Moon,
regia di Rachel Lee Jones, 2001, Israele,
Francia, USA, 47', v.o. araba-ebraica è invece di una regista israeliana
e ci mostra l'insediamento di Ein Hod. Era un villaggio palestinese dopo la risoluzione
delle Nazioni Uniti, e quindi con il ritorno ebraico e la creazione del kibbutz,
è diventato un rifugio per chi si occupa d'arte e ristrutturato su progetto
del dadaista Mancel Janco. I filmati d'epoca e i quadri descrivono la vita finalmente
libera di Ein Hod, colonia di artisti che sono sopravvissuti alla Shoah. Oggi
nella stessa terra convivono famiglie ebraiche e palestinesi, le une alla ricerca
di una cultura originaria e ebraica perchè quella araba-palestinese - a
sentire gli ebrei non avrebbe lasciato tracce. Non sappiamo dove questi insediamenti
ebraici non abbiano distrutto oltre alle anonime casette del villaggio - che pure
ai palestinesi erano care - reperti di una cultura originaria araba. Le attuali
abitazioni palestinesi sono confinate in zone stupende, belle case però
scomode, prive di allacciamento all'acqua e all' elettricità. Distrutte
le loro abitazioni di origine oggi vivono in queste case dove il mancato progresso
delle relazioni fra i due popoli ha bloccato l a cotruzione di infrastrutture
che sono attive solo per il villaggio degli artisti. Sorprendente la posizione
di una giovane nata e cresciuta dentro all'insediamento ebraico, ormai dotato
di tutto il comfort, che ci spiega la poesia e la forza di questa vita 'naturale',
dei vicini palestinesi, più vicina alla verità, come toccò
ai primi coloni ebrei, nel '48.
In
Le pays de Blanche,
regia di Maryse Gargour, Palestina-Francia,
2002, 28la storia del conflitto arabo-israeliano è raccontato attraverso
le parole di questa anziana donna, ha 91 anni ed è una dei 5.000.000 di
palestinesi in esilio. Nel '48 lascia la sua ricca casa, le sue terre e non è
più tornata in Palestina. Ricorda ancora la dolcezza e la bellezza del
suo paese, viveva a Jaffa, 'come una principessa'. I suoi ricordi risalgono alle
colonizzazioni ebraiche degli anni '30, la Palestina dopo la sconfitta e la disfatta
dell' Impero turco è sotto il mandato britannico. I sionisti hanno professato
il ritorno alla terra promessa e stanno avviando ,dopo le primissime emigrazioni
di ebrei nel XIX secolo, trattative, acquisti di terre e più massicci trasferimenti
e organizzazioni produttive per costruire uno stato ebraico, il primo dopo la
distruzione del tempio nel 70 d.c. e la diaspora. In quegli anni - racconta Blanche
- era andata in viaggio a Parigi con il marito per visitare la grande esposizione
internazionale. Entrati nel padiglione dedicato a Israele -Palestina si trovarono
fra pareti coperte di arabi e cammelli, palmeti e tende del deserto intitolate:
i beduini. Blanche è ancora sdegnata adesso: questa era la Palestina per
gli ebrei, questa era la propaganda che ci facevano per sollecitare le grandi
potenze a farsi assegnare il governo della nostra terra!! Ecco è lì
che è nato tutto ! Molto poetico e ricco di storia questo documentario
tutto girato intorno a una signora araba cristiana è una vera invenzione
creativa che meriterebbe di essere tradotto e visto.
News Time,
regia di Azza El Hassan, Palestina, 2001, 52
v.o.araba è una narrazione
in prima persona della regista che riprende le strade vuote di Ramallah durante
l'eclisse di sole. Adattissimo come il film di Mai Masri a essere discusso e proiettato
a scuola. I protagonisti sono in questo caso quattro ragazzini di tredici anni,
quelli che, in alcuni casi, finiscono sui manifesti appesi ai muri e allora è
la fine per noi, dice qualcuno, perchè quelli sono i martiri dell'Intifada;
non sono i kamikaze, di cui questi film non parlano mai, bensì i
ragazzini che tirano le pietre e sono uccisi negli scontri con la polizia. E'
uno di loro a fare questa morte alla fine del film. I quattro erano stati grandi
amici e si erano divertiti a farsi riprendere e a raccontare alla regista la loro
storia personale. Lo sguardo di Azza non è militante, è trasversale:
racconta che un giorno ha aperto la finestra e quando tutti si nascondevano per
l'eclisse di sole ha cominciato a girare. E' questa visione che sposta l'abitudine
a vedere sempre le stesse cose, la consuetudine a ascoltare solo le parole che
ci sono più famigliari e obbliga a guardare meglio, a sentire le tante
peculiarità che si affiancano, coperte dentro un punto di vista 'ufficiale'.
Dopo queste giornate
intense non si scansa il giudizio politico. Come appare dunque la società
israeliana-palestinese nei film delle registe e come ne esce il conflitto israelo-palestinese
? I film delle palestinesi sono intenzionati anzituto a restituire la realtà
del conflitto e la denuncia dell'oppressione; i risultati più interessanti
sono quelli che attraversano la politica muovendosi anche all'interno della quotidianità,
allora la cinepresa accarezza le cose, gli interni, i volti ed è come se
discutesse, sapendo di avere a che fare con qualcosa che c'è e allo stesso
tempo può cambiare.
Viceversa i film delle israeliane sono soprattutto
rivolti a sè, intenzionati a fermarsi sulle proprie contraddizioni e a
discutere con i cambiamenti interni alla società israeliana.
The south: Alice never lived here regia di Senora
Bar-David, Israele, 1999, 82' v.o. ebraica-bulgara-ladina descrive con attenzione
la vita di tre generazioni di donne ebree che abitano nei quartieri sefarditi
di Tel Aviv, a Tel Kabir. Il problema di Elinor la più giovane è
come riuscire ad andarsene. E' la storia della regista. Il conflitto palestinese
è presente-assente fino a risolversi nella battuta di Elinor che dice se
Peres vuole lasciare Tel Kabir a Arafat io non mi oppongo. Se lo tenga pure: è
talmente brutto!!!
Ramleh regia di Michal
Aviad, Israele, 200, 58', v.o. araba-ebraica-russa affianca donne molto diverse:
due russe ortodosse, una ragazza madre e un' araba israeliana. Anche questo film
descrive l'interno della società molto esclusiva dei due popoli. Vediamo
così che le donne sono religiose nel senso più devotamente patriarcale:
il foulard nero lo si porta anche se non è affatto gradito alla giovane
donna nascondere i capelli però fa piacere al marito che può dimostrare
alla comunità la religiosità della moglie. L'idea comune è
che le donne hanno potere sugli uomini e anche se loro non possono fare quello
che vorrebbero però gli uomini sono, in fondo, molto malleabili. In realtà
il fatto stesso di lasciarsi riprendere testimonia le contraddizioni. C'è
l'adesione a regole non di origine femminile nella devozione però c'è
- allo stesso tempo - un moto di riconoscimento e di comunicazione verso le altre
donne che a queste regole non sottostanno.
Nella
bolla regia di Dalia Castel & Alessandro
Cassignoli, Italia, 2002, 45', v.o. ebraica con sott. italiani conferma l'idea
che gli israeliani e le israeliane non vivano tutta la drammatica straordinarietà
della loro condizione, anche perchè non l'hanno certo scelta ! Sono le
amiche e gli amici di Dalia a dichiararsi durante l'intervista <<nella bolla>>.
Una ragazza si definisce <<scollegata>>, ascolta i giornali radio
che non la turbano perchè è chi ha paura che sa tutto, anche quante
pietre sono state lanciate in un giorno. Lei non ha paura. Allo stesso tempo protetti
e consapevoli, questi giovani raccontano che hanno paura di sedersi nei bar, di
prendere gli autobus, creano teatro che denuncia i giocattoli bomba confezionando
bombe giocattolo di stoffa a fiorellini riempita di bambagia.
The
women of Hezbollah regia di Maher Abi-Samra,
Francia, 2001, v.o. araba-francese sono le donne che accettano le regole del fondamentalismo
patriarcale enunciandone consapevolmente le contraddizioni. Due
donne legate al Partito di Dio raccontano la loro storia. Una è una famosa
leader islamica, porta solo il foulard in testa, ha il viso bello e segnato di
rughe, è stata imprigionata nelle carceri israeliane, ha subito la tortura,
ha avuto un marito, l'ha lasciato e ha trovato un altro compagno, ha avuto parecchi
figli, uno è entrato nella resistenza e lei di questa scelta è molto
orgogliosa, le donne occidentali non possono capire che la più grande gioia
per le donne islamiche è avere un figlio martire di Allah; la stessa affermazione
la ripete l'altra donna, interamente coperta di nero, vediamo solo un triangolo
del suo viso giovane, famiglia d'origine non religiosa è diventata stretta
osservante frequentando una scuola religiosa. Questa donna ha i figli ancora bambini
e riconosce che non si sente ancora pronta per ricevere questa grazia. Il fondamentalismo
del partito armato è pienamente accettato in queste donne che pensano che
uomini e donne debbano lottare a fianco, allo stesso tempo denunciano le umiliazioni
a cui è sottoposta la donna nell'islam, la sottovalutazione del sesso femminile
non agevola queste donne a dedicarsi come avrebbero desiderato allo studio, all'apprendimento.
Il film ha ottenuto una Menzione della Giuria al Vermont Women's Film Festival,
2002
Senorita
Extraviata,
regia di Lourdes Portillo, Usa, 2001, 74
v.o.spagnolo-inglese ci fa
spostare in Messico. Questo documentario ha vinto molti premi, fra i quali il
Premio del Pubblico al festival di Creteil del 2002 e quello della Giuria al Sundance
Film Festival, gli altri sono stati vinti a Cuba, e a San Josè. Racconta
una storia terribile: 268 ragazze sparite e uccise in riti satanici a Juarez,
città di frontiera con gli USA. La polizia e il governo locale, in questi
anni, non hanno fatto quasi nulla, se non arrestare bande, serial killer, uno,
e non per questo si sono fermati gli omicidi. Le famiglie denunciano, manifestano
e accusano anche la p.m. e si chiedono di che cosa abbia paura. Testimoniano le
madri, una in particolare che continua le sue ricerche, la sua denuncia, raccontandoci
che mentre era incinta della figlia aveva subito un rapimento, uno stupro e si
era salvata. E adesso si chiede perchè è successo ancora proprio
a sua figlia. Il confine fra realtà e finzione di un documentario non esiste,
tuttavia lo stile del documentario è spiazzante e alcune hanno detto che
è <<assurdo>> volendo forse sottolineare che non sembra reale.
A me pare che non sia così, la realtà è un fatto storico,
sta nel rispetto che conferiamo a chi ce la racconta; anche le camere a gas c'è
chi sostiene che servivano per chi era già morto e che in campo di concentramento
si moriva di morte naturale!!! E' ovvio che noi siamo qui che non sappiamo che
cosa fare per loro, quelle donne, quelle famiglie, intanto però tutto il
mondo sa cosa è avvenuto. Queste ragazze sono tutte molto povere la ricchezza
dello scambio e della comunicazione di notizie è un modo per rendere loro
giustizia.
Fra gli altri film visti ci sono:
La borsa di Helene,
regia di Costanza Quatriglio, Italia, 2002, 23, un bel documentario protagonisti
avventori e clienti e soprattutto una donna africana che gestisce una trattoria
nel quartiere africano di Palermo.
Welcome
in Italy, regia
di Aurora Sulli, Elena Hazanov, Italia, 2002,12 v.o.
inglese, francese, curda, russa e araba, sono interviste a donne e uomini che
arrivano in Italia chiedendo di essere accolte e accolti come rifugiati politici;
sono popolazioni curde, cecene, palestinesi.
Due pezzi pazzi,
regia di Giulia
Brazzali, Italia, 2002, 433 è un cortometraggio che racconta
l'incontro del figlioletto di quattro anni della regista con la sua migliore amica,
un'anziana donna che era stata l'anno prima ricoverata in ospedale psichiatrico
e di cui il bambino ricorda e descrive esattamente tutto: il ricovero, l'autoambulanza,
la camicia di forza, gli infermieri e anche la sua bellezza, i capelli 'biondi',
la grassezza ma soprattutto con nostalgia racconta i giochi e le 'pazze' risate
che si erano goduti in compagnia. Altri due filmati sono dedicati all'Afghanistan
Shanaz di Genevieve Mersh narra attraverso una bambina la vita di
una famiglia prima dei bombardamenti su Kabul dove hanno perduto la casa e due
bambine. Adesso vivono in un villaggio fangoso in estrema povertà, una
bambina sopravvissuta ha la faccina semiparalizzata, sta migliorando nonostante
lo choc provocatole dopo il bombardamento. I ritorni di Carla Kollmann-Peter
Bodo ci fa vedere le attiviste che stanno organizzando in Afghanistan assemblee
per spingere le donne a andare a votare e iscriversi nelle liste elettorali. Hanno
organizzato corsi sulla salute e cooperative dove le donne lavorano 15 gg. a testa
per guadagnare qualcosa.
Sull' Afghanistan è anche Dietro il
velo di Cassian Harrison e Le donne di Kabul il video delle
Donne in nero, immagini e testo di Ivana Stefani che denuncia la situazione delle
mogli ripudiate che vivono spesso prostituendosi in condizioni di totale povertà
e che solo grazie al RAWA possono modificare la loro vita.