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Premetto
che, dopo le penose e ridicole vicende che hanno accompagnato il licenziamento
del precedente staff della Biennale accusato di simpatie per la sinistra,
ero andata al Lido abbastanza prevenuta ma, non avendo l'abitudine di
esprimere opinioni per sentito dire, curiosa di verificare come sarebbe
stata questa 58ma edizione della Mostra del cinema di Venezia. Temevo
che la qualità dei film selezionati sarebbe stata scadente, sia
per il poco tempo a disposizione sia per i molti diktat imposti ai selezionatori;
mi aspettavo invece, come promesso (o minacciato, dipende dai punti
di vista) dalla nuova gestione, desiderosa di trasformare la mostra
in un festival "glamour", un carosello di divi e un imperversare
di eventi mondani; infine, in base a un mito diffuso tra noi italiane/i,
confidavo nell'efficienza organizzativa germanica del neodirettore svizzero/tedesco.
Come spesso accade, la realtà ha in gran parte smentito i pregiudizi:
tra i film selezionati, molti erano di ottimo livello, forse anche perché,
per andare sul sicuro, erano stati invitati molti grossi nomi che sono
stati all'altezza della loro fama; dive e divi presenti non sono stati
né di più, né più noti delle edizioni precedenti,
né hanno suscitato entusiasmi superiori alla consueta composta,
tiepida anche se cortese, accoglienza del pubblico; in quanto all'organizzazione
è stata il fallimento più clamoroso. Fallimento che è
dipeso soprattutto dalla nuova impostazione politica della mostra ed
è stato una delle sue spie più evidenti.
La nuova direzione
ha voluto privilegiare il pubblico pagante che suppongo si sia presunto
appartenere a quel ceto di nouveaux riches che costituisce in
buona parte l'elettorato e gli eletti del governo in carica. Riservando
solamente al pubblico una buona parte delle proiezioni serali si è
sconvolto quell'equilibrio che attraverso aggiustamenti successivi era
stato raggiunto dalla precedente gestione fino a creare un meccanismo
che permetteva a tutte/i quelle/i che seguono il festival per lavoro
o passione di riuscire a sfruttare a pieno il proprio tempo. Le esigenze
del pubblico si sarebbero potute soddisfare aumentando il numero delle
proiezioni; il nuovo calendario, apparentemente inalterato ma sostanzialmente
diverso, ha invece penalizzato un po' tutti ma soprattutto gli "accrediti
cinema" - il gruppo cui appartengono per la maggior parte giovani
cinefili ma anche meno giovani che lavorano in associazioni e circoli
culturali - che si sono trovati di fronte a poche opzioni giornaliere
e che in molti casi si sono viste sbarrate le entrate alle proiezioni
dopo lunghissime code. Ma non solo, tra le tante suddivisioni tra accrediti
di serie A e di serie B, peraltro già esistenti, mai come quest'anno
è stata fatta pesare la differenza imponendo, con un non sempre
velato tono di disprezzo, divieti e attese, anche quando ciò
ha comportato conferenze stampa quasi deserte o incontri per pochi intimi.
Si dirà che certi atteggiamenti dipendono solo da carenze puramente
organizzative, mancanza di sensibilità, scarsa flessibilità,
eccessiva burocrazia e incapacità di prendere decisioni rapide
e di buon senso, ma secondo me tutto ciò è enfatizzato
quando trova il consenso di chi dà le direttive, che in questo
caso si adeguano a un clima politico in cui a contare sono la ricchezza,
il potere (vero o presunto), l'arroganza. In cui tutto ciò che
anche lontanamente ha a che fare con la cultura va rigorosamente bandito
a favore di un disimpegno che si vorrebbe generalizzato. E' stata quindi
più l'aria che si respirava fuori dalle sale che non quello che
in esse si è potuto vedere a dare la misura del cambiamento.
Per ora il nuovo regime, rapidissimo nelle decisioni che più
lo toccano da vicino, ha ancora dei ritardi per quel che riguarda i
particolari e quindi nel caso della mostra di Venezia, pur avendo espresso
direttive ben precise, non ne ha verificato l'attuazione. Si sono perciò
viste opere impegnate che descrivevano una realtà non certo tranquillizzante
e che esprimevano opinioni non in linea col consenso acritico che si
pretendeva. Le scomposte reazioni a tutto ciò che è sfuggito
al controllo la dicono lunga non solo sul self-control di chi le ha
espresse ma anche su quel che ci aspetta nel futuro. Nel frattempo,
finché rimane qualche smagliatura, speriamo che non siano troppo
poche e pochi ad approfittarne.
Per riallacciarmi a quanto appena detto, vorrei esaminare la partecipazione
femminile alla mostra anche dal punto di vista dei temi affrontati e
della maggiore o minore propensione al conformismo. Prima, però,
due parole sulla qualità dei film delle registe presenti, che
è stata nel complesso poco significativa confermando una tendenza
che avevo già riscontrata l'anno scorso. Più gli spazi
si aprono anche alle donne e meno la loro presenza risulta incisiva.
Sembra che il prezzo da pagare sia la perdita di originalità,
l'appiattimento e questo è tanto più evidente quanti più
sono i capitali messi a disposizione. In Frida, film fortemente
voluto dalla protagonista, con motivazioni più che legittime
peraltro, le esigenze commerciali hanno finito per avere la meglio.
Julie Taymor, regista in altre occasioni decisamente inconfondibile
- il suo Titus poteva disturbare per l'eccesso di macabra visionarietà
ma sicuramente si discostava dalla produzione di routine -, si è
adeguata, malgrado le ripetute asserzioni sue e della produttrice/protagonista
di non aver voluto fare un "biopic", ai normali standard delle
megaproduzioni. Il film è perciò noioso e prolisso, a
tratti involontariamente comico, salvato solo da una bella ricostruzione
d'epoca, un'ottima fotografia e due originali inserti girati con lo
stile del collage. Questi ultimi danno l'idea di come avrebbe potuto
essere il film se la regista fosse stata libera di esprimersi secondo
la propria personalità, senza i vincoli di una pedissequa narrazione
cronologica.
Nell'altro film biografico della mostra, Un viaggio chiamato amore,
il regista Michele Placido ha fatto una scelta più intelligente
decidendo di rappresentare solo una parte della vita di Sibilla Aleramo.
Meno colma di iatture della vita di Frida Khalo ma ancor più
affollata di presenze ingombranti, l'intera descrizione di quella di
Sibilla sarebbe diventata solo un interminabile elenco di amori con
tutti o quasi gli intellettuali italiani dell'epoca. La vicenda del
film si concentra invece sui pochi anni dell'amore tempestoso con Dino
Campana, quello forse meno recitato e più autentico, finché
è durato, dell'ineffabile Sibilla. A questa storia si intrecciano
gli episodi della giovinezza della scrittrice raccontati in Una donna.
Rispetto ai precedenti film del regista questo è più mosso,
più complesso, meno didascalico ma purtroppo non riesce ugualmente
a diventare qualcosa di più di un onesto prodotto, come d'altronde
quasi tutti i film italiani di una selezione più modesta degli
anni scorsi ma accolta, per fortuna, con critiche meno isteriche da
parte di giornalisti e affini presenti.
continua
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