La
storia di El Cielo gira comincia molto prima del film, nel vissuto
della regista Mercedes Alvarez, bimba di pochi anni a La Aldea, sulle colline
di Soria, nord della Spagna, dove è nata e da dove come tutte le altre
famiglie anche i suoi genitori sono stati costretti a partire. Non c'era lavoro,
la vita era impossibile, una meteorologia troppo dura per coltivare la terra e
così suo padre, storia comune all'Europa degli anni sessanta, finisce operaio
in qualche fabbrica dei paesi baschi dove la giovane Mercedes cresce prima di
approdare a Barcellona per gli studi di cinema all'università di Pompeu
Fabra (dipartimento del documentario).
Cresciuta
alla «scuola» di Luis Guerin, presenza visibile nella ricerca sull'identità
dei luoghi, inizia come montatrice - suo il montaggio di En costruction
dello stesso Guerin - firma un corto nel 97, El viento africano, fino a
questo vero e proprio esordio che è stato una rivelazione.
Premiatissimo
ovunque, conteso dai festival internazionali, Tiger award all'ultimo festival
di Rotterdam, El Cielo gira ha conquistato anche il primo premio
del parigino Cinéma du réel. Eppure in apparenza è una vicenda
semplice, dichiaratamente autobiografica nella voce fuori campo che accompagna
ogni immagine (a volte forse con eccesso di presenza) ma al tempo stesso con la
distanza emozionale della Storia.
E
qui è la forza d'attrazione di questo film, il suo fascino e la sua capacità
di essere dentro un'«onda» cinema contemporanea, che gioca sull'emozionalità
sospesa e sulla presenza di un io narrante singolare nel quale vive un'esperienza
collettiva. Che è l'emigrazione, lo sradicamento dei luoghi e dei vissuti
- nel villaggio ci sono oggi 14 abitanti tutti anziani - la perdita inevitabile
di una memoria che non è retorica della nostalgia ma profonda consapevolezza
del presente. L'uomo del pane passa una o due volte alla settimana: se quando
suona il clacson non arriva nessuno riparte, racconta uno degli anziani abitanti.
Il venditore di pesce non viene più, tanto nessuno lo compera dice un'altra.
C'è una coppia di amici da quando erano ragazzi che scherza sulla filosofia
della vita: nascere, morire, essere ragazzi e diventare vecchi... tutto in una
passeggiata sotto al sole. Ci sono le leggende e i ricordi come vecchie fotografie.
Nelle prime si parla dei dinosauri che avrebbero camminato su quelle colline.
Dei Romani e delle loro ville. Nelle altre, del vecchio olmo sulla piazza che
ci si ritrovava tutti lì la sera d'estate fino alle quattro del mattino.
Poi lo hanno tagliato, si era ammalato, era tutto secco. Dei franchisti, della
guerra civile. Oggi alla tv i pochi rimasti guardano le notizie della guerra in
Iraq. Osservano i socialisti che arrivano a fare campagna elettorale mentre le
vecchine sono in chiesa: «se avessero aspettato avrebbero due voti in più».
Il tutto però con la consapevolezza di chi ormai si sente «fuori».
La destinazione
è qualche casa di riposto nei paraggi, dovranno partire presto mentre il
vecchio castello è trasformato in albergo di lusso per chi cerca vacanze
in totale isolamento. Dei personaggi sappiamo comunque poco. La regista che ha
passato un anno insieme a loro nel villaggio li fa vivere soprattutto in relazione
a questa scomparsa. È l'immagine come lavoro sul tempo quotidiano, sulle
esistenze, che è senso della perdita e di un movimento inesorabile uguale
alle stagioni che lo scandiscono. E insieme sulla fisicità: la luce, la
terra, quegli spazi raccontati in parallelo dal pittore quasi cieco che accompagna
la regista in questa sua ricerca.
Mercedes Alvarez la incontriamo nel
caos del festival. Contenta del premio, del pubblico, con la speranza che tutto
questo aiuti a portare in film in sala anche fuori della Spagna.
«El
Cielo gira» è il tuo primo film. Nella voce fuori campo spieghi che
volevi raccontare una realtà destinata a scomparire...
Quando
ho iniziato a lavorarci pensavo al film come al ritratto di una persona cara.
Per questo sono tornata a vivere nel villaggio un anno. La convivenza con la gente
mi avrebbe aiutata a preparare le riprese, a rendere tutti consapevoli di quanto
sarebbe accaduto. La macchina da presa non doveva essere un intruso e soprattutto
non doveva influenzare l'atteggiamento delle persone filmate.
Eppure
sappiamo che qualsiasi dispositivo di ripresa modifica sempre chi si trova davanti
all'obiettivo.
Ma
è per questo che sono rimasta lì un anno. Il film doveva essere
parte della vita quotidiana e non una semplice registrazione come accade con i
reportage televisivi che si arriva, si fanno due domande, si piazzano le telecamere
in faccia alla gente senza sapere nulla (e neppure con la voglia di saperlo) e
poi si riparte. In realtà soltanto io sono rimasta lì così
a lungo, il resto dell'equipe mi ha raggiunta per le sette/otto settimane di riprese.
Ho detto subito alla gente cosa volevo fare, mi hanno vista con la macchina da
presa, scattare fotografie... Ho anche scritto per tutti un testo in cui spiegavo
il progetto. Non ci sono stati cambiamenti nelle persone al momento delle riprese
ma perché c'era stata una relazione anteriore, un tempo di convivenza e
di reciproca scoperta. È chiaro che la presenza della macchina da presa
modifica le cose, dunque per ottenere una verità ci vuole tempo, bisogna
che il tempo del film sia una tempo vissuto insieme. Più che mettere
la loro vita in immagini mi interessava che le immagini nascessero da questa esperienza
comune.
Ci
viene in mente Depardon in «Profils paysans», situazione vicina anche
nella materia, la scomparsa di un mondo, dove i personaggi dialogano in modo esplicito
con la macchina da presa.
Mi
piace molto quel film e in genere il lavoro di Depardon. Però ho l'impressione
che lui cerchi di catturare il tempo per arrivare a una struttura narrativa. La
macchina da presa provoca una situazione, non segue la vita delle persone, e la
verità è determinata dalla durata. Per me la verità è
invece nella costruzione del film. Anche per questo ho deciso di inserire la voce
fuori campo che stabilisce una distanza ma che permette anche una riflessione
su quest'anno vissuto insieme. Il montaggio è molto importante, è
lì che si determina la struttura del film e infatti il nostro ci ha preso
otto mesi. Le riprese servono invece a aprire molte direzioni. Come ho detto non
mi interessava che la macchina da presa registrasse la vita. La logica è
piuttosto un linguaggio di frontiera tra il documentario e la fiction, perché
non è sempre possibile catturare il momento «magico» dunque
la finzione aiuta a dare un senso ai materiali del documentario. Era anche importante
che gli abitanti del villaggio fossero implicati visto che il film nasce dalla
necessità di rendere visibile una memoria di persone che oggi sono l'ultima
generazione di quel luogo e come tali sono già fuori dalla storia. Non
mi interessava raccontare le grandi catastrofi del mondo ma il tempo che passa
sulle persone e sulle cose. E quali possono essere i piccoli accorgimenti di fronte
a un popolo che scompare.
Cosa
ha causato questo spopolamento?
Sono
regioni molto povere, oggi la Castilla è la zona meno popolata della Spagna
con 9 abitanti per chilometro quadrato. Il clima è molto duro, la terra
è arida, non si riesce a vivere di agricoltura. Ci sono però importanti
siti archeologici, hanno scoperto che esistevano forme di vita già 2000
anni fa. Negli anni sessanta la gente ha cominciato a emigrare verso le zone industriali,
nei paesi baschi, a Madrid... La regione è precipitata in un'economia di
sussistenza, il governo non se ne è mai occupato. Però ora costruiscono
un albergo di lusso.
Si
parla molto di una nuova onda del cinma spagnolo. Amenabar con «Il mare
dentro» ha vinto l'Oscar, Cinéma du réel ha dedicato alla
Spagna la retrospettiva.
Non
vedo questa grande rinascita. Come sempre c'è una differenza tra il cinema
che ottiene investimenti e quello che vive ai margini. I documentari spagnoli
si vedono quasi solo ai festival e i premi non garantiscono la distribuzione.
Le sale sono occupate dal cinema americano, la difficoltà per noi è
avere spazio e attenzione da parte del pubblico. Non mi pare neppure che ci sia
un rapporto tra i cineasti. C'è molta diversità e all'estero si
continua a conoscere solo Almodovar e ora Amenabar. Quanto alla televisione, il
supporto che dà è minimo. Non voglio sembrare pessimista ma per
tutti i cineasti che lavorano in modo indipendente è sempre molto difficile.