Strawberry
Fields di Ayelet Heller, Israele, 2006 produzione di Osnat
Trabelsi
di Donatella Massara
E' un documentario
veramente vivace. Interessantissimo. Parla di politica ancorato a
una storia concreta di lavoro e di gente che su di esso vive e spera.
Per scelta è questo il punto di vista in cui le autrici si
sono collocate, la regista e la produttrice: i campi di fragole della
striscia di Gaza quelli che nascono sulle piantine madri che arrivano
da Israele e - coltivati dai palestinesi- producono le famose fragole
a forma di cuore che arrivano nei cesti natalizi delle case europee.
<<Sembrano pomodori>> dice divertito l'agricoltore arabo
delle coltivazioni riprese da Ayelet Heller. La fragola è il
centro del film. La vediamo ancora seme nascosto nelle piantine infilate
in fretta nel terreno in 24 ore perchè le radici non si anneriscano,
sbucare verde sotto ai tendoni di plastica trasparente che coprono
le colture, quando è raccolta, rossa e polposa, dal gusto di
miele, viene inscatolata in confezioni di plastica rigida che raggiungono
Haifa per essere imbarcate e raggiungere i mercati europei. Sulla
loro scatola c'è scritto Palestina, l'unica scritta commerciale
che finora porti in giro per l'Europa l'esistenza di questa terra.
Da una parte il
"tempo delle fragole" è un naturale regolatore del
duro lavoro di chi coltiva la terra, e ci riempie di soddisfazione
vedere come è produttivo, con la sua logica e la sua resa che
porta il prodotto fino a essere selezionato, imballato e esportato.
Dall'altra parte il conflitto arabo-israeliano avvolge in modo affatto
naturale questo luogo e il "tempo delle fragole" non gli
è consono anzi gli è del tutto indifferente e forse
a qualcuno infastidisce pure. Fra il 2005 e il 2006 avviene che i
campi di fragole che davano così buoni frutti subiscono i bombardamenti
dell'esercito israeliano, le fragole si riempiono di piombo e non
servono più a nulla.
<<Forse non riusciremo quest'anno a fare arrivare le fragole
palestinesi per Natale.>> Questo dicono i protagonisti del documentario
e lo ripete la produttrice, Osnat Trabelsi, presente con Maria Nadotti
all'anteprima assoluta del documentario in Europa, allo Spazio Oberdan
dove è stato proiettato il 10, 10, 2006
Fra le prime scene
avevamo visto le donne che selezionano le fragole avvolte nel loro
velo nero, palestinesi che con il grido delle donne arabe in tonalità
di godimento inneggiano nel 2005 alle ruspe ebraiche che lasciano
la striscia di Gaza in seguito agli accordi del 6,6, 2004 - il Disengagement
Plan sottoscritto dallo Stato di Israele con la supervisione degli
USA - per evacuare gli insediamenti ebraici. <<Che cosa c'è
da essere felici?>> le rimprovera la donna araba che dirige
la coltivazione delle fragole con un anziano agricoltore. Infatti
poco dopo con gli attacchi sul Libano riprenderà il conflitto
ancora più duramente.
Sentendo parlare
la produttrice del film che ci spiega l'incontro fra la regista, un'ebrea
israeliana e la troupe del film, araba palestinese, vedendo la donna
del campo di fragole e gli abbracci che si scambia con la regista
e le sue assistenti, viene da chiedersi come è possibile che
ci sia la guerra. Se c'è desiderio di conoscenza, per ragioni
di solidarietà, amicizia, rispetto, nel caso delle donne che
ho detto, o per ragioni di buoni affari, in altri casi che sempre
il film documenta, tenendo al centro del racconto il suo "tempo
delle fragole", una non riesce a pensare alla guerra causata
dall'inimicizia fra i popoli. Ed è questa la bellezza del documentario:
mescolare cose così distanti, la fragola a forma di cuore che
viene da Israele e cresce in Palestina, le bombe che cadono rumorosamente
di fianco ai campi e le donne che quando si incontrano poi si vogliono
bene, la durezza del conflitto armato e le ragioni pacifiche del mercato;
fare vedere che tutto sta saldamente mescolato insieme e che le ragioni
pacifiche hanno ancora spazio e il "tempo delle fragole"
sospeso troverà modo di ritrovare la sua voce. Questo film
è un mezzo interessante per raccontare un conflitto; rimettendo
di nuovo il racconto su una strada fedele alla quotidianità,
alla politica prima, agli scambi anche commerciali e alla relazione
femminile fa capolino la speranza che qualcosa prima o poi anche in
questa terra di guerra potrà cambiare.