Donne e conoscenza storica

 

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Roberto Silvestri in IL Manifesto

1 Settembre 2002

Un paradiso pieno di strani odori digitali
In gara «Au plus pres du paradis» di Tonie Marshall. [...]


«Pipì?», sussurra William Hurt, fotografo newyorkese tardo hemingwayano, in un francese incerto, a una sconsacrata Catherine Deneuve. Lei, critica d'arte parigina, dunque cinefila, se lo porta dietro tra Manhattan e Boston per fargli fotografare tre tele «indispensibili», chiudere la sua nuova verbosa monografia, ammazzare il tempo prima di aprire un «radioso capitolo d'amore» e far vedere a Nora Ephron e Deborah Kerr come si rifà oggi, in stile europeo, Un amore splendido, mélo di Leo McCarey. E anche questa volta in Au plus pres du Paradis, in gara, Tonie Marshall, francese, non riesce né a far ridere né a far piangere né a oscillare tra le due cose, ma almeno ci prova. Figuriamoci però se Catherine Deneuve, dopo 4 ore di macchina, ha bisognini, oltre che bigodini, umani. Ma: «Mi piace la parola `pipì'», continua non senza imbarazzo William Hurt, e la battuta assume allora un senso forte, teorico. «Se il pubblico adorava Cary Grant era perché tentava sempre inutilmente di indovinare i suoi pensieri», spiega lui, dopo 4 vodka e frasi fatte sulla Cuba di Fidel, alla alienatissima Deneuve, disgustata dal cedere alle sue incontrollabili passioni, eccitata invece dal ricalcare sentimenti e battute di altri. Si chiama paura. Fifa maledetta della vita (sentimenti a lei sconosciuti, almeno da quando la nouvelle vague le ha tolto il dentro e il fuori, ed è rimasta solo la Diva). Ma Hurt riuscirà a riportare perfino lei tra gli umani, a convincerla di quanto è bello impaurirsi e imbruttirsi, amare i piedi doloranti e non le scarpe Y.S.L., il labbro inferiore sexy perché storto, smontare le accademiche teorie se l'alea ti obbliga, e a buttarsi a capofitto nella vita, smontando gli elmetti «griffati» che la proteggono.

Hurt sembra Binoche e Deneuve sembra Hurt di Un divano a New York di Chantal Ackerman. Ma perché gli europei credono che il cinema si fa dando parole eleganti e qualche pizzicotto osé alle immagini e nobilitando, mettendoci dei soprammobili sopra, le emozioni? Citare libri (al massimo spinti, ma in questo caso La Rochefoucauld), e non spingere il «vedere» oltre il guardare, è l'ammonimento che ogni critico, regista e produttore mainstream comunitario, terrorizzato dalla forza diabolica e pulsionale delle immagini, ci vuol inculcare.
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