Donne e conoscenza storica

 

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in Il Manifesto

16 Novembre 2002

Nel nome del piacere
CRISTINA PICCINO
TORINO
Sono stati i vent'anni delle cineaste che hanno vinto nel concorso dei lungometraggi, Raja Amari, tunisina con Satin rouge, in quello dei documentari, Alina Marazzi col suo magnifico Un'ora sola ti vorrei, nello Spazio Italia Ursula Ferrari (La partita) e «femminile» è anche la cifra che domina Flyng With One Wing del regista srilankese Asoka Handagama (anche premio del pubblico) che ha avuto, sempre tra i lungometraggi la mezione speciale. Non è solo una questione di identità, il «femminile» è piuttosto emozione, spessore di sensibilità, ricerca di un'immagine libera nei tantissimi fotogrammi che quest'anno si sono inseguiti nelle 11 sale del Multiplex Pathé dove il festival vuole lavorare per il futuro. Poco si sa ancora del prossimo direttore. Stefano Della Casa ha salutato ufficialmente il festival la sera dell'inaugurazione, i nomi più sicuri sembrerebbero Roberto Turigliatto e Giulia D'Agnolo Vallan, mix che apre il cinema a tutto campo rendendo la manifestazione torinese ancora più competitiva. Il cinema della ventesima edizione è come se riflettesse queste inquietudini, perché poi anche se le idee di partenza prediligono una dimensione intima, la prima persona di singoli protagonisti, i film del festival compongono un ritratto lucido del mondo contemporaneo. Non solo perché si raccontano operai, immigrati, la realtà, c'è qualcosa in più, che sta proprio nella forza del vissuto, dell'esperienza diretta senza che questo significhi narcisismo o compiacimento - lo mostra con grande intensità il lavoro di Alina Marazzi che riesce a comporre la mamma morta e mai conosciuta in un ritratto tenerissimo in cui non cerca mai la complicità dello spettatore nella lacrima.

Come non vogliono effetti speciali Andrea D'Ambrosio e Daniele Di Basio nei Pesci combattenti (menzione speciale doc), ragazzini e insegnanti nella periferia «difficile» di Napoli, Barra, tutti insieme nella scuola nata dal progetto Chance, uno di quelli che la riforma Moratti ha distrutto. Nei film di Julio Bressane (parte della retrospettiva arriva al Roma Film Festival) specie quelli girati tra la fine degli anni 60 e i primi 70, il gioco estremista di vissuto e arte è irriverente sentimento rivoluzionario di quello che sarà il «cinema novo» o marginal o udigrudi - seguendo le divisioni storiche - che è stato poi scontare un silenzio critico anche a sinistra, un po' come sarà anni dopo in Italia per in protagonisti del `77, per i Pazienza, i Tamburrini la cui modernità stellare andava diritta in endovena e per quei tempi era troppo avanti, tanto da stritolarli.

Ma è questo filo di immaginario che fa paura, che rende i no global pericolosi «terroristi» da sbattere in galera (copione abusatissimo). Non è un caso se il festival di Tunisi Satin rouge, nonostante i trionfi berlinesi (era al Forum) lo ha respinto: lo dirige una donna, lo produce una donna, Dora Bochoucha (in Italia è Key Films) la protagonista è una donna Lilia, (Hiam Abbass bravissima) che polverizza il rito del suo ruolo di madre (ha una figlia adolescente) e vedova riscoprendo il piacere del corpo e della sensualità in un cabaret di danza del ventre dove arriva inseguendo il fidanzato della figlia (col quale avrà poi una storia). Melò, eccessi, commedia, la regista rovescia ruoli e codici del cinema miscelandoli con sapienza tagliente, il rischio è la banalità volgare o il luogo comune ma questa danza nasce dal cuore, è allegra, piena di humor e di dolcezza, massacra ipocrisie e leggi per uomini e donne nel nome della libertà.

Vissuto e dinamiche collettive, appunto. La voce di Stacy Peralta in Dogtown and Z-Boys, passato in Americana tra le cose più belle viste al festival che ci racconta in prima persona la rivoluzione dello skate, quando i ragazzi di Dogtown cresciuti tra santa Monica e Venice e sopravvissuti grazie a skate e surf, azzerano tutti i regolamenti con il loro skateare contaminato, fatto di terra e acqua, che rubava al surf l'energia dell'onda pe riportarla nelle piroette su terra e cemento. Eccolo lo Zephyr Skeating Team, di cui lo stesso Peralta è tra i protagonisti, che fa esplodere lo skate nel mondo e negli Usa, trasformandolo in business.

Peralta accende gli occhi dei teen'agers del tempo (fine anni 70-80) con le sue foto dinamiche, che liberano tutto il movimento e la passione del rischio dello skate moderno, tutti sognano DogTown. Ma il business ammazza l'allegria. C'è chi come Peralta ce la fa e altri, bravissimi e più fragili che vengono risucchiati, droga, depressione, marginalità, il mercato macina talenti, li digerisce e li risputa sotto forma di nuovi logo, t-shirt, pantaloni, tavolette, riviste... Le interviste sono fantastiche, c'è dentro un'epoca che quando nasce almeno non è multinazionale, è coraggio, indipendenza, voglia di libertà. Non poco.