Donne e conoscenza storica
         
Rassegna stampa

sta in Il manifesto 2 settembre 2003
recensione a Rosenstrasse di Margarete Von Trotta, Lost in Translation di Sofia Coppola,
Les sentiments di Noémie Lvovsky

 

Rosenstrasse, quella vertigine della storia
Gran ritorno al Lido della regista Margarethe von Trotta, già Leone d'oro nell'81 con «Anni di piombo». Tra presente e memoria ci conduce nella strada berlinese della morte, raccontando le vicende di ebrei, «condannati» da un divorzio delle mogli tedesche. E dalla cupa Rosenstrasse si sbuca nella caleidoscopica Tokyo, quartiere Shibuya, con «Lost in translation» di Sofia Coppola
MARIUCCIA CIOTTA
INVIATA A VENEZIA
Se la Mostra di Venezia è destinata a declinare in nome di un cinema che «piace al pubblico» oggi e non a fare da apri-pista di nuovo immaginario, si troverà davanti film di resistenza come quelli passati al Lido, insofferenti delle barriere messe al programma. Nel giorno di Bernardo Bertolucci che scende a Venezia a pugno chiuso e con il suo «sogno» del `68 luccicante, adrenalico scatenante pulsioni armate come l'Anything Else di Woody Allen, Margarethe von Trotta segna il suo grande ritorno. Anche lei con un passo indietro-avanti per fare della memoria il nostro futuro. Rosenstrasse (concorso) fa scratching tra la New York contemporanea e la Berlino del 1943 in una strada grigia circondata di edifici monumentali, in una nebbia azzurrina dove è palpabile la morte, che aleggia ancora per i quartieri berlinesi, glaciali estatici inchiodati davanti alla scena di sessanta anni fa. E su quel palcoscenico ci riporta la regista di Anni di piombo (Leone d'oro 1981) accanto alla modernità svettante grattacieli, di Potsdamerplatz, dove giunge Hanna (Maria Schrader) americana di famiglia ebrea tedesca, alla ricerca del passato di sua madre salvata bambina da una pianista, Lena (Katja Riemann) sposata a un musicista ebreo. La ritroverà, novantenne, e con lei ci porterà nei flash-back di una storia mai raccontata, quella delle mogli di ebrei, detenuti a Rosenstrasse e destinati ai campi di sterminio, appena le loro donne di «razza pura» avessero divorziato. Il punto di vista si capovolge negli occhi rivolti in su verso le finestre dove ogni tanto i prigionieri fanno capolino. Il «pianista» di Polanski che gettava lo sguardo perduto verso la strada per cercare vie di fuga ha nel film di von Trotta uno sguardo di risposta, e incrocia l'azzurro ariano delle donne, corpi fantasma tra le segnaletiche del nazismo. Nel flusso cinematografico sul nazismo, il film apre una nuova vertigine visiva nel fermo-immagine su queste sentinelle pietrificate che sfidano le SS pronte a una sventagliata di mitra. Nella genialità dell'happy end, premio alla memoria come macchina della felicità, la regista si fa prendere da un finale che spezza la tensione berlinese e ci invita a una matrimonio dai colori accesi a Manhattan. Avremmo preferito restare a Rosenstrasse.

Un'altra regista ci porta a Manhattan ma quella di Tokyo, nel quartiere Shibuya. Sofia Coppola, 32enne, figlia di Francis, ricordata per il poema macabro Il giardino delle vergini suicide, torna alla regia con Lost in translation (L'amore tradotto) Controrrente. In scena il più stralunato dei soggetti comici, Bill Murray, specchio di tutte le follie contemporanee. La capitale giapponese accoglie il divo Bob Harris per uno spot su una marca di whisky, business di stelle hollywoodiane in trasferta (e di cui si vergognano in patria) in una pioggia di luci, sotto palazzi dalle facciate semoventi proprio come a Time Square. Pubblicità ormai «mondo» in movimento, doppio del reale che narra scivolando sui grattacieli un'altra storia. Tokyo si è ricostruita così, «copiando» New York, Parigi, Roma. Ma il sapore di sushi e sashimi si apprezza soltanto dopo qualche immersione tra stradine dove all'improvviso sbuca un tempio e una processione, e vedi un albero fitto di bigliettini bianchi, omaggio ai morti, o vai nei locali un po' mostra di designer, performance d'arte, discoteca... E quel che accade a Bob, stranito alien frastornato dagli inchini della delegazione giapponese e dalle urla logorroiche dal pubblicitario nippo-punk tradotto comicamente con monosillabi.

Ma i jokes anti-giapponesi sono una trappola per il pubblico perché Sofia Coppola, grande frequentatrice di Tokyo, ama l'isola e la fa amare anche all'insofferente divo hollywoodiano che incontra un'altra piccola alien americana all'Hyatt Hotel. Charlotte (Scarlett Johansson) è sperduta e guarda dai piani alti dell'albero il profilo discontinuo della città. Insieme ne faranno di incursioni notturni, raid, fughe e incontri e poi se ne staranno a meditare sul senso della vita. Lui con moglie petulante che gli spedisce i campioni della moquette, lei con neo-marito fotografo avvolto nelle spire di starlette squittenti. La relazione uomo-bambina, ricorrente in molti film, diventa qui non a caso (il sogno del maschio si dilegua) il prototipo di un rapporto d'amore e di amicizia. Charlotte ha vent'anni ma è in sintonia perfetta con il sessantenne Bob. L'erotismo sprigiona nelle menti che si toccano, ma anche nell'abbraccio finale, quando lui ormai rassegnato al ritorno ferma il taxi diretto all'aeroporto tra la folla per inseguire Charlotte. Non sappiamo cosa le sussurra all'orecchio ma lei smette di piangere e saluta l'amico nel fluire della gente di Tokyo, avvolgente e calda come il saké.

Non si può dire lo stesso per il film francese in concorso, Les sentiments di Noémie Lvovsky (concorso) a proposito di relazione eccentriche. Anche qui uomo-di-una-certa-età (Jean-Pierre Bacri) e piccolina pannosa, tutta gridolini e spensieratezza che «ruba» per gioco il marito a Nathalie Baye, più affascinante di lei ma incapace di far rifiorire l'organo sessuale del marito, al centro di oscene storielle snocciolate nella pochade insipida con temibile coretto surreale alla Resnais (lasciamo stare La signora della porta accanto di Truffaut). Sarà una critica alla borghesia ma il conformismo svaporato della commedia è insostenibile, a parte la scelta degli abiti così entusiasti nelle loro righe, palline, fiori da sollevare un po' il morale delle mogli abbandonate e supplicanti come non se ne vedavano più dagli anni Cinquanta.