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sta in Il Manifesto 5. 11. 2002

Nel nome di Rosa, una adolescenza partigiana
La scomparsa di Marisa Musu. Aveva 77 anni. A 19 era entrata nei Gap, con il nome di battaglia di «Rosa», nella formazione guidata da Franco Calamandrei della quale facevano parte Carla Capponi, Rosario Bentivegna, Mario Fiorentini, Lucia Ottobrini. Giornalista e scrittrice amava la libertà e i bambini
SANDRO PORTELLI
L`intervista che segue mi è stata rilasciata da Marisa Musu nel 1999

 

Il mio è un percorso molto semplice. Sono stata educata nella famiglia di una coppia sarda antifascista, perché mia madre veniva da una militanza molto attiva nel partito repubblicano, quindi libertà, democrazia, eccetera. Negli anni più pesanti del fascismo era un antifascismo, dico io, senza nessuna cattiveria, da salotto, incontri di ex repubblicani, per vedere a che punto stavamo, sembrava sempre che fosse prossimo a cadere ma non cadeva mai...L'educazione familiare, pur non essendo impositiva era molto forte, e il fascismo della scuola mi ha appena lambito, quindi non ho mai avuto modo di essere fascista. Non per mio merito, non per una mia ricerca personale. Anche le ragazze colle quali ero molto amica e colle quali infatti poi mi sono ritrovata nel partito comunista erano le ragazze della stessa élite intellettuale, cresciute in famiglie anch'esse antifasciste. Poi l'unica che ha fatto la lotta armata sono io; ma tutte queste ragazze hanno partecipato attivamente alla resistenza. Quindi forse la domanda potrebbe essere: perché nella resistenza hai scelto la lotta armata. Può sembrare molto infantile, ma è la risposta vera: io avevo diciott'anni, e in realtà ero appena uscita dalle bande di Bufalo Bill, tutti quanti avevamo una certa pistola giocattolo, che costava cinque lire e che quindi era carissima, e che ci piaceva moltissimo. Io di carattere sono stata sempre una ragazzina molto concreta, ho sempre fatto giochi di maschiacci, stavo sempre nelle bande dei ragazzi. Essendo giovanissima, mi interessava l'azione. E coloro che veramente facevano la lotta al fascismo con cose concrete, dalla cospirazione al volantino alla scritta agli scioperi, erano i comunisti, per cui appena ho potuto sono entrata in contatto col partito comunista. La lotta armata non è stata una scelta per cui mi sentivo più coraggiosa delle altre: la ragazza che portava le copie dell'Unità clandestina, che preparava l'assalto ai forni, correva gli stessi identici rischi miei. Anzi, ancora maggiori; perché se la prendevano l'avrebbero torturata e fucilata come me, con lo svantaggio che lei non si sarebbe potuta difendere, mentre io avevo una pistola in mano.

Io so di uno di noi che entrò nei Gap e dopo aver fatto la prima azione ne è uscito. Ma la situazione era talmente estrema che io non credo che nessuno di noi si sia posto allora il problema etico dell'uccisione. Noi vivevamo in una città dove ogni giorno c'era la spia che aveva fatto arrestare e uccidere il compagno che era clandestino; o la pattuglia dei repubblichini che veniva a prendere la famiglia ebrea che era riuscita a salvarsi dalla razzia del ghetto; o la notizia, `è caduto', ed era una persona che conoscevi, e poi a casa avevano trovato i chiodi a tre punte e quindi l'avevano fucilato... era una situazione, più che di terrore, di violenza continua. Per cui, forse ci vorrebbe lo psicologo per spiegarlo, ma a me non è venuto mai, `uccido, faccio male.' Nel senso che questo significava affrettare la fuga dei tedeschi. Quindi se penso, che so, d'aver contribuito con una bomba a far saltare in aria un soldato tedesco, non penso, che so, che quello era un figlio di mamma, che era il padre di un bambino piccolo, non la vivo così. Vedo torturatori di via Tasso, rastrellatori di ebrei, guardia ai campi di sterminio...

Ma poi questo tipo di cosa, che è giustificata in quel momento, in quei nove mesi così tesi, poi la devi abbandonare, se no diventi tu un portatore di morte. Io ho avuto questo intermezzo di attività armata, ma già una settimana dopo la liberazione ero a fare riunioni di donne nelle borgate, nei quartieri popolari. Ho immediatamente smesso i panni mentali della persona che faceva la lotta armata, perché sono stata travolta da quest'attività straordinaria che era un partito comunista a Roma che sorgeva nelle borgate, nei quartieri popolari, donne straordinarie, e mi dovevo occupare del fatto che loro volevano che il prezzo del pane diminuisse, che il loro figlio lavorasse, volevano la fontanella nelle borgate. Roma io l'ho amata moltissimo non durante la resistenza ma subito dopo, quando ho scoperto questa Roma straordinaria, incredibile per me affascinante, Trastevere, Testaccio, Pietralata, Tiburtino - un grande amore per questa città. Perché era una città straordinaria, piena di volontà di vivere, di cambiare, di uscire dall'ignoranza - una grande città. La vita era talmente piena di cose che la lotta armata m'è passata subito di testa. La pistola è andata a finire nel cassetto. Non ho più, non ho mai avuto tentazione di nessun tipo. No.

Dopo che abbiamo fatto l'azione di via Rasella, quello che è successo alle Fosse Ardeatine è stato realmente un grosso, un grosso trauma; perché nessuno se l'aspettava. Noi abbiamo fatto anche delle azioni abbastanza consistenti : le bombe all'Hotel Flora, la bomba alla Stazione Termini... Certo, non ne avevamo mai ammazzati trenta tutti insieme; però, in realtà rappresaglie non ce n'erano state. Quindi per noi è stato un grande, un grande shock, eravamo sconvolti perché non solo non l'avevamo previsto, ma sapevamo perfettamente che noi vivevamo se avevamo la tacita solidarietà della popolazione e ci siamo spaventati, perché questo tipo di strage non poteva che metterci contro la popolazione.

Io mi sono trovata qualche volta a discutere di via Rasella nelle scuole. Una volta, sono stata chiamata a Melfi da un insegnante che aveva preparato i suoi ragazzi, aveva lavorato tutto l'anno su questo episodio e poi ha concluso con un'assemblea in cui si è discusso di via Rasella. E' stato molto bello. I ragazzi erano anche loro più che altro interessati ai sentimenti. A loro non interessava tanto, giustamente, sapere se e quante persone c'erano, quante bombe sono state sparate, come è stata pensata l'azione; ma dicevano: avevate paura? Cosa pensavate qualche ora prima? Se aveste potuto annullare avreste annullato? Qual'erano i vostri sentimenti verso la morte?

La paura, prima dell'azione non credo che ci fosse, e neanche nel corso dell'azione perché poi quando si spara c'è una gran confusione. Il senso della morte, sì. M'avevano preso, m'avevano condannato a morte; una volta che eri stato catturato, che pensavi d'essere ucciso, rammarico per aver perso delle cose che non conoscevi. Cioè avevi la netta sensazione che la tua vita si spezzava quando appena appena avevi messo il capino fuori e, e c'erano tante cose da vedere, da conoscere, da fare. Questo sì. Grande rimpianto. Io ho ricevuto una serie di lettere da questi ragazzi e ragazze che dicevano: l'impegno voi l'avete vissuto in una società terribile, in momenti tragici, però, non stiamo peggio noi che non abbiamo di che temere ma non sappiamo che fare della vita nostra?

Coi figli non ne ho mai parlato, credo che abbiano saputo che ero partigiana quando avevano diciott'anni. Ma, non per una scelta precisa; perché finiti questi nove mesi, io stessa non sono più tornata su questo argomento. Avevo talmente tante altre cose da fare - con i figli si discuteva, certo, il movimento studentesco, le assemblee, i comitati di base, e poi quando sono andata in Vietnam, il Vietnam. Ma questo era un passato, e un passato che in fondo non è più rivenuto fuori.