Un'intervista
con la studiosa Farian Sabahi autrice del libro «Storia dell'Iran»
L'oro nero degli ayatollah
Il potere del clero, un'economia fondata sul petrolio, le speranze
deluse dal presidente Khatami e una situazione internazionale che
punta il dito contro l'Iran dei mullah. Le incognite che pesano sul
movimento che chiede la democratizzazione del paese
Modernizzazione a tappe forzate Il petrolio ha reso l'Iran uno dei
paesi più ricchi del mondo. Ed è il filo di Arianna
che unisce il tentativo nazionalista di Mossadeq, il regno autoritario
dello scià, la rivoluzione del '79 e la guerra contro l'Iraq
di Saddam Hussein. Ma la teocrazia si trova oggi di fronte una nazione
giovane che non tollera il chador e i limiti alla libertà di
espressione posti dai «Guardiani della rivoluzione»
TOMMASO DI FRANCESCO
Abbiamo intervistato la storica e giornalista iraniana Farian Sabahi,
autrice del libro Storia dell'Iran, (Bruno Mondadori editore, Biblioteca
del Novecento, pp. 253, € 12,50) in questi giorni in libreria.
La nomina di Shrin
Ebadi a premio Nobel per la pace, ora il conflitto aspro sulle prossime
elezioni, con l'esclusione dalle liste di candidati riformisti. E
solo a fine anno il devastante terremoto che ha cancellato, con la
storica città di Bam, 50 mila iraniani dalla faccia della terra.
Davvero l'Iran è al centro dell'attenzione del mondo...
Sì, la
repubblica islamica è sotto i riflettori. È sicuramente
anche a causa dei fattori da lei citati - il nobel a Shirin Ebadi
e il terremoto del 26 dicembre - se oggi i mezzi di informazione di
tutto il mondo osservano, con maggiore attenzione rispetto al passato,
gli eventi politici in corso e le prossime elezioni legislative, previste
per venerdì 20 febbraio. Nei giorni scorsi è stato dato
grande rilievo, per esempio, all'esclusione di 3.605 candidati al
parlamento in quanto, secondo il Consiglio dei guardiani, non erano
abbastanza fedeli all'Islam, alla teocrazia e al leader supremo. 3.605
squalificati: si tratta di una cifra cinque volte superiore a quella
del febbraio del 2000, quando furono esclusi in settecento. Non è
quindi la prima volta che il Consiglio dei Guardiani mette fuori gioco
una percentuale importante di candidati. Era successo anche in occasioni
delle presidenziali. Ciò che attira maggiormente l'attenzione,
in queste legislative, è invece l'esclusione di 83 deputati
attualmente in carica, su un totale di 290 che compongono il parlamento.
Tra gli esclusi vi sono persino i due vicepresidenti dell'attuale
majlès (parlamento).
Nel libro lei
sembra delineare la storia dell'Iran come la storia di una modernizzazione
mancata. Quali le responsabilità dell'Occidente, degli Stati
uniti in particolare, visto che sono intervenuti prima, nel 1953,
per distruggere il tentativo democratico di Mossadeq consegnando il
paese nelle mani del sanguinario scià Reza Pahlavi, e poi nel
1980, per interposto Iraq allora alleato degli americani, per fermare
il contagio della rivoluzione islamica degli ayatollah. Trovando,
come nel caso dello scandalo Iran-Contras nel 1985 con il presidente
Reagan, la guerra civile in Bosnia con il presidente Clinton, ogni
volta l'occasione per trattare più o meno segretamente con
le ali più oltranziste del regime iraniano?
Più che
di una modernizzazione mancata si è trattato di una modernizzazione
a velocità sostenuta, tanto sostenuta da non permettere alle
infrastrutture di stare al passo. Negli anni Sessanta e Settanta lo
scià avviò, con l'aiuto degli Stati Uniti, la cosiddetta
rivoluzione bianca, vale a dire una serie di riforme volte a modernizzare
il Paese. La pietra miliare della rivoluzione bianca era la riforma
agraria, volta a distribuire i latifondi ai contadini. Ma un altro
punto fondamentale fu l'istituzione del cosiddetto «esercito
del sapere»: anziché servire nelle forze armate, i giovani
diplomati avevano l'opportunità di insegnare a leggere e scrivere
in regioni remote, dove nessun insegnante si sarebbe mai avventurato.
Il problema era legato alle aspettative, sempre crescenti della popolazione:
le riforme diedero avvio al processo migratorio nei centri urbani,
ma le infrastrutture - in termini di abitazioni, scuole, occupazione
- non furono in grado di far fronte all'aumento della popolazione
nelle città, causando perciò frustrazione e alimentando
il malcontento che contribuì poi alla rivoluzione del 1979.
In questo contesto, non vanno sottovalutate le responsabilità
degli Stati Uniti: nel 1953 rovesciarono il premier Mossadeq, responsabile
della nazionalizzazione del petrolio iraniano, e rimisero al potere
Muhammad Reza Pahlavi. Fu solo allora che lo scià iniziò
a regnare con il polso di ferro. Prima del 1953 il secondo sovrano
della dinastia Pahlavi non era un dittatore. Fu solo dopo essersi
accorto della propria debolezza che istituì la temibile polizia
segreta Savak, i cui agenti erano istruiti ed equipaggiati, occorre
ricordarlo, da Washington e Israele. I rapporti tra l'Iran e gli Stati
Uniti peggiorarono, come sapete, con la rivoluzione del 1979 e la
presa degli ostaggi nell'ambasciata americana. Ma non per questo i
rapporti furono del tutto interrotti. Gli americani vendettero infatti
armi all'Iran... come dice un vecchio porverbio mediorientale «l'odore
dei soldi fa deviare anche il corso dei fiumi»...
Che rapporto esiste
tra ayatollah, potere teocratico, economia del «bazar»
e ricchezza petrolifera? Chi tiene in mano il potere economico dell'Iran
che è uno dei più ricchi paesi al mondo per risorse
energetiche?
Le risorse energetiche
sono gestite dal Ministero per il petrolio, che assegna contratti
di buy-back alle società straniere impegnate nelle prospezioni
e nello sfruttamento dei campi petroliferi per un certo numero di
anni: in cambio del loro lavoro, le società straniere vengono
ripagate con un numero di barili di oro nero. In senso lato, il potere
economico è in mano al clero sciita e ai bazarì (mercanti).
È il clan dell'ex presidente Rafsanjani a tenere, in buona
parte, i cordoni della borsa. Proveniente da una famiglia di produttori
di pistacchi, `Ali Akbar Hashemi Rafsanjani si era arricchito con
il boom immobiliare degli anni Settanta e ha stretti legami con il
bazar. Presidente del parlamento dal 1980 al 1989, fu eletto ai vertici
della Repubblica islamica nel 1989 e riconfermato nel 1993 per un
secondo mandato. In seguito all'elezione di Khatami nel maggio del
1997, la percezione politica di Rafsanjani è cambiata: è
presidente del Consiglio per la determinazione delle scelte - l'organo
incaricato di dirimere le dispute tra il parlamento e il Consiglio
dei guardiani che può bloccare il processo legislativo - e
numero due dell'Assemblea degli esperti incaricata di nominare il
leader supremo. Rafsanjani è uno degli uomini più potenti
del Paese e, da quando Khatami è presidente della repubblica,
è considerato un conservatore.
Lei scrive che
il colore dell'Iran è il nero del ciadòr, già
abolito per decreto da Reza Shah nel 1936, poi imposto per decreto
da Khomeini all'indomani del 1979. Le donne sono la punta culturale
avanzata della società iraniana. Quali prospettive si pongono
in questo senso?
Nel 1936 Reza
Shah, fondatore della dinastia Pahlavi, mise fuori legge il velo.
Il suo obiettivo era modernizzare l'Iran, anche nell'immagine. Fu
così che alle popolazioni tribali fu vietato indossare i classici
costumi. E fu imposto un copricapo - chiamato Pahlavi - che rendeva
difficile per gli uomini prosternarsi nella preghiera. Per tornare
alle donne, la loro emancipazione fu uno degli obiettivi di Muhammad
Reza Shah, che concesse il diritto di voto nel 1963 e insistette sull'istruzione
femminile. Oggi le ragazze sono il 63% degli iscritti alle università.
L'avvocatessa Shirin Ebadi, insignita del nobel per la pace nel 2003,
non è un caso isolato: sono tantissime le iraniane impegnate
come professioniste nella medicina, nel giornalismo e in tanti altri
settori, anche imprenditoriali. In merito al giornalismo, per esempio,
vale la pena ricordare il caso di Faezé Hashemi, figlia dell'ex
presidente della Repubblica Rafsanjani e simbolo dell'emancipazione
della donna iraniana. Editrice della rivista femminile Zan («Donna»),
uscita per la prima volta in edicola nell'agosto del 1998, Faezé
era in quel periodo deputata nel quinto majlès. Come il padre,
è un personaggio enigmatico: riceve infatti i giornalisti avvolta
nel ciadòr, sotto al quale si intravedono i jeans e, a coprire
meglio i capelli, un sottile velo maculato. Come la maggior parte
delle iraniane, anche Faezé ha optato per il trucco indelebile,
tatuandosi le sopracciglia per sfuggire al latte detergente che attende
le visitatrici nelle anticamere dei ministeri. Nonostante sia la figlia
dell'uomo più potente del Paese, eminenza grigia dietro le
quinte, agli inizi di aprile del 1999 è stata comunque obbligata
a chiudere il giornale per avere pubblicato un messaggio di auguri
di Noruz (nuovo anno) dell'ex imperatrice Farah Diba, moglie dell'ultimo
scià, e una vignetta ironica contro la discriminazione del
sistema penale nei confronti delle donne.
Se la teocrazia
è irriformabile, è legittimo parlare di possibilità
di democratizzazione dall'interno del paese? Dalla tua «storia»
sembra che sia esistita e che quindi abbia, se non altro memoria,
una dialettica politica reale nel paese...
Sì, in
Iran si è intravista la possibilità di una monarchia
costituzionale, all'inizio degli anni Cinquanta. Ma il fallimento
del premier Mossadeq, rovesciato da un colpo di stato, non fu solo
colpa di Londra e Washington. Mossadeq non aveva una buona percezione
delle questioni economiche e tantomeno di quelle strategiche. Il primo
ministro riteneva infatti - erroneamente - da una parte che l'Iran
fosse in grado di sopravvivere senza la rendita petrolifera e, dall'altra,
che il mondo non potesse fare a meno del greggio iraniano. Ma il blocco
delle esportazioni voluto dalla diplomazia britannica dimostrò
ben presto il contrario. Inoltre, pur trattenendo la stragrande maggioranza
dei profitti, l'Aioc (l'Anglo-Iranian Oil Company che deteneva la
concessione delle risorse energetiche) effettuava poi molti investimenti
in altri Paesi, investimenti da cui anche l'Iran avrebbe potuto un
giorno trarre profitto. Inoltre, in fatto di strategia, Mossadeq si
illuse di poter contare - erroneamente - sull'aiuto degli Stati Uniti,
timorosi di una presa di potere, in Iran, da parte dei comunisti.
Veniamo ai giorni nostri. La questione va posta nei seguenti termini:
Islam e democrazia sono compatibili? Secondo molti musulmani, facendo
uno sforzo, si può giungere a un compromesso. Ma in Iran il
problema è un altro: non è l'Islam che deve essere compatibile
con la democrazia ma il governo del clero (velayat-e faqih), quella
che lei definisce «teocrazia». E, purtroppo, come ha più
volte sottolineato intellettuale iraniano Mohsen Kadivar, «il
governo del clero non è compatibile con la democrazia perché
se la gente vota a favore di una determinata misura, non è
detto che poi questa misura venga messa in pratica perché a
decidere sarà sempre il Rahbar, il leader supremo, vale a dire
l'ayatollah Ali Khamenei». Queste affermazioni possono però
essere estremamente pericolose per gli iraniani, e infatti Kadivar
ha scontato, per essersi espresso in questo modo, nove mesi di carcere.
Invogliato a esprimersi in questi termini per le promesse di riforma
del presidente Khatami, Kadivar è stato il primo prigioniero
politico della sua presidenza.
Di fronte allo
scontro tra riformatori e conservatori che esclude, per ora, dalle
liste molti candidati riformisti, il presidente Khatami ha minacciato
le dimissioni. E' ancora un punto di riferimento per il cambiamento,
oppure ormai, dopo la scarsa affluenza al voto del 2001, e le recenti
proteste di massa, l'opposizione, gli studenti, i giovani - demograficamente
la maggioranza del paese - non si fidano più di lui e puntano
alla spallata? Non c'è il rischio di una Tian An Men a Tehran?
In Iran il 70%
della popolazione ha meno di trent'anni. Khatami lo abbiamo votato
tutti, nel maggio del 1997, io compresa. Ero a Isfahan, per un viaggio
di piacere, con la mia famiglia. Quando la radio ha dato la notizia,
abbiamo esultato: il conservatore Nateq Nuri, che minacciava di rendere
obbligatorio il velo anche per le bambine più piccole, non
era riuscito ad aggiudicarsi la presidenza nonostante l'appoggio del
leader supremo. Ma in questi anni Khatami ha deluso un po' tutti:
nel luglio del 1999 non ha difeso gli studenti, non ha detto una parola
per liberare gli intellettuali e i giornalisti finiti in carcere,
colpevoli soltanto di avere espresso la loro opinione. Khatami minaccia
di dare le dimissioni? Non ci crede più nessuno. Purtroppo
non è più un punto di riferimento né per i giovani
né per le donne. Perché, non dimentichiamolo, in Iran
le donne hanno il diritto di voto dal lontano 1963, vanno a votare
e sono in grado di cambiare il destino del Paese. Per quanto riguarda
il rischio di una Tian An Men a Teheran, non ho la sfera di cristallo,
l'Iran è un paese imprevedibile. Chi si aspettava la fine della
monarchia, armata dagli americani e riproposta come modello dalle
riviste patinate di tutt'Europa? Potrebbe succedere di tutto, ma non
dimentichiamo che nel corso del Novecento l'Iran ha vissuto la rivoluzione
del 1906-1911, che portò alla creazione del parlamento e della
costituzione, il colpo di stato del 1953, la rivoluzione del 1979.
Tanti eventi, che hanno trasformato il paese.
L'Iran ha significativamente
quanto coraggiosamente accettato i controlli dell'Aiea sui suoi siti
nucleari e per i suoi progetti. E' insomma un paese sotto controllo
della strategia di guerra preventiva di Bush e sotto sanzioni. Quanto
influisce negativamente su un processo politico reale, il fatto che
il paese a est come a ovest vede la presenza di centinaia di migliaia
di soldati Usa che, tutti intorno alle frontiere iraniane, occupano
militarmente Afghanistan e Iraq?
Per quanto riguarda
le ispezioni, Teheran non aveva scelta: gli ayatollah non avevano
alcuna intenzione di finire nel mirino di Washington. Per quanto riguarda
la presenza di centinaia di migliaia di soldati americani a oriente
e a occidente dell'Iran occorre sottolineare come l'amministrazione
Bush abbia fatto due favori alla Repubblica Islamica eliminando da
una parte i talebani, sunniti ortodossi che hanno causato non pochi
problemi alla Repubblica Islamica, e dall'altra Saddam Hussein, che
nel settembre del 1980 aveva invaso l'Iran e, armato dall'Occidente
impaurito dalla rivoluzione islamica, scatenato una guerra durata
ben otto anni. Nonostante la freddezza dei rapporti tra Washington
e Teheran, gli ayatollah saranno per sempre grati agli Usa di avere
fatto piazza pulita di due dei loro peggiori nemici.