Donne e conoscenza storica
         

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ARCHIVIO RASSEGNA STAMPA - 2004


Miguel Benasayag e Florence Aubenas, Resistere è creare
, Milano, MC Editrice, 2004

 

 

Il Palazzo senza presa
La rinuncia alla conquista dello stato per dare forma a un altro mondo possibile senza nessuna attesa messianica del futuro. Per i due autori, è questa la caratteristica che alimenta la radicalità del «movimento dei movimenti». Con un grande rimosso, la questione di come interdire l'esercizio del potere da parte delle istituzioni economiche e politiche
BENEDETTO VECCHI
«Le posizioni si moltiplicano, oscillano, si scontrano. Ci troviamo nel momento tormentoso in cui le cose si svolgono e non si decidono». Con queste parole Miguel Benasayag e Florence Aubenas descrivono lo stato dell'arte del «movimento dei movimenti», quasi a ratificare il fatto che sia irrappresentabile, data la sua magmaticità e la sua irresistibile tendenza a mutare nel tempo e nello spazio. Un'irrappresentabilità che non dispiace ai due autori, che la considerano anzi una delle caratteristiche migliori dei gruppi e delle reti sociali che contestano la globalizzazione neoliberista, e che tuttavia non è elemento sconosciuto al pensiero critico. Ciò che invece costituisce una novità è la diffusa convinzione che l'altro mondo possibile nasce «nel qui e nell'ora della situazione» e il rifiuto programmatico di qualsiasi attesa messianica o teleologica di un avvenire radioso. La rivolta contro il neoliberismo non punta a costituire dettagliati programmi del «nuovo mondo» che verrà. Semmai manifesta una caparbia determinazione a costruire da subito relazioni e rapporti sociali altri rispetto a quelli dominanti. Il movimento dei movimenti ha semplicemente rinunciato a prendere il potere statale per trasformare la società, preferendogli la costituzione di relazioni sociali che diano il segno di un cambiamento irreversibile della vita quotidiana. Miguel Benasayag non è nuovo a queste provocazioni. Lo ha scritto e detto in tutti i suoi libri. Dell'altra autrice sappiamo che è una giornalista del quotidiano francese Libération, mentre filosofi o psicoanalisti erano i coautori di tutti i libri che il filosofo e psicoanalista ha firmato da quando, uscito profondamente segnato dalle torture subite nelle carceri argentine dei golpisti di Videla, si è trasferito in Francia. Da Il mito dell'individuo (Mc editrice) a Contropotere (Eleuthera), da Per una nuova radicalità (Il Saggiatore) a questo Resistere è creare (Mc editrice, pp. 116, € 14), lo studioso argentino ha sempre scelto la strada del sodalizio intellettuale con un compagno o una compagna di strada per dare forma e spessore al suo percorso teorico, che ha come leit motiv la sconfitta dei movimenti radicali degli anni Settanta e la loro attraversata del deserto della «rivoluzione neoliberista». E così per tutti gli anni Ottanta e i primi anni Novanta l'attenzione era fissata sull'individualismo e sull'egemonia culturale del postmoderno, fino a quando in una regione sperduta del Messico un esercito di indigeni ha dato vita alla più stravagante insurrezione popolare armata del Novecento.

In Resistere e creare, l'esperienza degli indigeni chiapaneci è infatti considerata la esemplificazione dei nuovi movimenti sociali e della loro «politica della situazione», cioè quel dare forma e senso a «un altro mondo possibile». E politica della situazione sono le occupazioni delle terre da parte dei sem terra brasiliani, le occupazioni delle case a Buenos Aires o a Parigi, una mobilitazione per ottenere il permesso di soggiorno in Spagna, un centro sociale occupato, una battaglia contro la costruzione di una diga in India, un esperimento di «guerriglia comunicativa» a San Francisco. Momenti di conflitto sociale e culturale inseriti, però, nella dimensione molteplice della realtà sociale. La «politica della situazione» non ha però nulla a che fare con il localismo o la politica delle identità costantemente evocati dalla pubblicistica. In questi movimenti sociali, ogni uomo o donna è inserito in contesti variamente interconnessi. Da qui all'invito a pensare localmente e agire localmente, perché è nella situazione che si cerca di dare risposta al lungo elenco di ingiustizie che si vuole combattere; ed è nella situazione che si costruiscono le sue connessioni con il livello globale.

In Resistere è creare le mobilitazioni contro il G8 o il Fmi o la Banca mondiale sono quindi considerate come un «obiettivo situazionale» tra i tanti, ma spogliate della valenza simbolica che hanno assunto nelle discussioni del «movimento dei movimenti», quasi che abbiano sostituito la simulazione giocosa di un assalto al palazzo d'inverno che non ci sarà mai. Il movimento dei movimenti deve dunque pensare localmente e agire localmente, perché la situazione è l'espressione più pregnante della molteplicità assunta dall'attuale modo di produzione. In altri termini, è la globalizzazione stessa che plasma il locale in funzione del globale, visto che «la totalità può esistere solo nella singola parte e non come somma di tutte le parti». Nel volume c'è un forte accento sul fatto che se una politica della trasformazione si gioca «qui ed ora», la dimensione locale assume una centralità strategica, una centralità che non ritroviamo negli interventi di altri intellettuali critici della globalizzazione capitalista.

Resistere è creare può essere collocato negli oramai voluminosi ripiani dei testi dedicati ai nuovi movimenti sociali. In particolare nella sezione che sottolinea gli aspetti di discontinuità con la cultura politica del movimento operaio in tutte le sue varianti. Certo, Miguel Benasayag rivendica la sua passata militanza nel partito argentino dei lavoratori, ma lo fa quasi sempre per quel vezzo tutto latinoamericano di chi vuol indicare che viene da lontano e che vuol andare lontano. La sua decennale riflessione ha però ben pochi punti di contatto con quell'esperienza. Parole d'ordine come «politica della situazione», «contropotere» sono infatti usate per indicare semmai il fallimento della politica radicale novecentesca e, al tempo stesso, per significare il campo d'azione degli attuali movimenti sociali. Pensare la molteplicità del movimento come a un insieme di reti politiche sociali che si compongono e scompongono per affinità elettive, rifiutando al tempo stesso ogni volontà politica di coordinarle e unificarle dall'esterno, è cosa ben diversa dal pensare a una scansione dell'agire politico come politica dell'organizzazione con tutte le virtù, e i difetti, che questa ha avuto nella storia del movimento operaio. C'è una profonda e condivisibile insofferenza verso il rapporto strumentale che i partiti politici hanno da sempre intrattenuto con i movimenti, raccolta nella dissacrante frase che i due autori dedicano ai politici di professione: «Non perdere tempo a farti gocciolina, cavalca l'onda, non farne parte». E' quindi preferibile «occuparsi del mondo» perché questo significa «vivere in un mondo diverso» da subito, senza nessuna attesa salvifica del sole dell'avvenire. Vivere, amare, lavorare, fare figli, coltivare rapporti di amicizia: aspetti che sono da sempre considerati fattori inessenziali della vita da parte del rivoluzionario di professione. Per Benasayag e Aubens, va invece ribaltata la prospettiva: è da questa bistrattata quotidianità che inizia il nuovo mondo.

Temi, argomenti che sono presenti nell'agire politico da circa trent'anni, grazie sicuramente alla riflessione e alla pratica femminista sintetizzata nello slogan «il personale è politico», come riconoscono i due autori, ma che oramai sono diventati patrimonio comune di tutti i movimenti. Il problema, allora, non è il grado di continuità che i movimenti sociali hanno con la cultura politica del movimento operaio. Ad esempio, nel libro viene affermato che oramai le proteste sociali non tanto chiedono un cambiamento del sistema economico e politico, quanto contestano la scala gerarchica, cioè il «posto» che le diverse figure sociali occupano al suo interno. Un elemento, questo, agli antipodi della tradizione politica della sinistra tutta. C'è però un altro passaggio di Resistere è creare che merita di essere citato: i movimenti sociali traggono, secondo gli autori, forza dalla loro costellazione rizomatica e dalle esperienze di «contropotere», una forza che non può essere misurata con i parametri del passato. Ma allo stesso tempo alimentano le possibilità di dispersione dei movimenti sociali, se per dispersione si intende quell'insieme di «pratiche fluttuanti» tra ciò «che non esiste più e ciò che non esiste ancora, nell'attesa che assomiglia già a una delusione di quel `qualcosa' che alla fine dovrebbe venire a darle un senso». Ma questa zona di confine ha anche un altro nome: si tratta infatti del potere, o più precisamente del rapporto che i movimenti hanno con il potere costituito. Così, se la rinuncia alla conquista del potere costituisce la trama del discorso di critica radicale della globalizzazione, l'esercizio o meglio il modo in cui si interdice l'esercizio del potere rimane il grande rimosso del «movimento dei movimenti». E non è un caso che l'unico terreno su cui si è manifestata la «forza» del movimento sia la messa in discussione della legittimità degli stati nazionali così come degli organismi sovranazionali a prendere decisioni che riguardano una «minoranza che è però la maggioranza» della popolazione. Oltre questo, il «movimento dei movimenti» non è riuscito ad andare oltre. E quando lo ha fatto, ha dovuto misurarsi, senza grandi capacità innovative rispetto alle forme politiche, con le istituzioni tradizionali della democrazia rappresentativa. L'elezione di Lula in Brasile ne è l'esempio più eclatante, dato che in quell'occasione un partito è stato delegato a rappresentare «l'altro mondo possibile» all'interno di uno stato nazione, mentre a livello globale le istanze dei movimenti hanno trovato ad esempio nel cosiddetto gruppo dei «G22plus» il soggetto politico che ha fatto sue, durante l'incontro del Wto a Cancun, le proposte di modifica degli accordi sul commercio internazionale avanzate dai gruppi organizzati della società civile e delle organizzazioni non governative.

Quello del potere è dunque il nodo irrisolto non solo del «movimento dei movimenti», ma anche del volume Resistere è creare. Trovarne il bandolo significa fare i conti con quella politica dell'organizzazione che sembrava ormai dissolta nella crescita della contestazione al neoliberismo. Non è così, ovviamente, e il continuo alternarsi di grandi manifestazioni e la dispersione molecolare del movimento dei movimenti ha origine proprio nella difficoltà nel produrre istanze organizzative che facciano tesoro dell'innovazione avviata dal manifestarsi della «nuova radicalità» così appassionatamente sottolineata dai due autori. Negli anni scorsi, c'è stato un gran fermento attorno al modello reticolare di organizzazione politica, perché la rete è uno strumento flessibile, inclusivo, rispettoso delle differenze, ma allo stesso tempo capace di moltiplicare il potere dei movimenti. Insomma, è l'immagine cambiata di segno dell'attuale modello produttivo. In un'altra era c'è chi ha teorizzato che un'organizzazione politica dovesse ricalcare la struttura della grande fabbrica, perché solo così si potevano creare le condizioni di una politica della trasformazione. Ma era, appunto, un'altra era. Oggi la proposta di una struttura centralizzata che porti dall'esterno le risposte al che fare sarebbe giustamente rigettata. E tuttavia il metodo di pensare una rete organizzativa come risposta all'esercizio del comando è la cruna dell'ago da passare per pensare non la «grande politica», ma la politica sans phrase.