Libri Recensioni “Donne che attraversano la scena teatrale” di Danilo Caravà

pubblicato da Donatella Massara il 7 gennaio, 2020

La parola teatrale porta con sé una responsabilità enorme, è una sorta di morula, di principio vitale che in potenza esprime l’umano; è, dunque, femminile, non solo per la grammatica, ma per la dimensione ermeneutica, nel momento in cui la stessa si fa conoscere attraverso l’ascolto, quando viene aperto il suo scrigno e la luce del significato porta in dote con sé il profumo del pane appena sfornato, del misterioso rosmarino, della rosa il cui segreto giace oltre, al di là del suo nome e del singolo fiore. Donatella Massara, perciò, è l’autrice in grado di donare ai grafemi la vita di embrione teatrale, e lo fa con il sorriso materno, con la mano appoggiata delicatamente sul ventre della sua ispirazione, tenendo sempre vivo e aperto il dialogo con la sua Musa, con la quale trova una complicità femminile che non può che parlare all’Universale. E’ la Diotima evocata dal Socrate simposiale di Platone, che impara proprio da una donna cosa sia l’amore: l’essere femminile è causa prima, principio di ogni pura, sincera e fondamentale educazione sentimentale. Ricordo un’espressione imparata negli anni universitari, durante le lezioni di psicologia dinamica, che ben si adatta a riassumere la capacità, la vis creativa di questa autrice, “mettere al mondo il mondo”. Ecco, questa è la capacità di Donatella; il segreto, ed insieme la forza della sua drammaturgia sta tutta qui, in questa facoltà. Leggere e poi assistere alla messa in scena di un suo testo è un’esperienza speciale, unica, per entrare nel cuore del cuore femminile, per vedere e toccare idealmente, dal di dentro, quegli atri, quei ventricoli, per sentire, nella contrazione , quel tessuto affettivo ed emotivo urgerti sull’anima. Ed attraverso di lei, ogni volta, si rivive un’esperienza meravigliosa, finalmente e completamente umana (e come difficile, nella drammaturgia contemporanea, ritrovare l’umano dell’umano,che dovrebbe essere il compito precipuo del teatro), ci si sente abbracciare, avvolgere delle parole, si avverte il senso del loro essere necessarie, di un messaggio mercuriale che deve arrivare all’essere umano, che deve ricordare quanto un solo gesto femminile possa salvare il mondo da se stesso. E’ un’opportunità unica quella di vedere i paesaggi umani raccontati da dietro la pupilla femminile, è come vedere un quadro di Frida Kahlo, ed accorgersi che l’anima può traboccare dal corpo in forma di creazione artistica, che i colori degli stati d’animo coprono l’intero arco dell’arcobaleno emotivo. La lettura dei suoi testi ha la capacità di accrescere l’appetito teatrale, e di provocarlo anche nella creatura più inappetente nei confronti del palcoscenico. Mi è capitato raramente di vedere tradursi in forma di drammaturgia una dichiarazione d’amore così completa e sincera nei confronti del teatro, e come esso si possa, anzi si debba, declinare al femminile, il quale si sublima in una categoria interiore, dell’anima, diventa una forma a priori trascendentale di kantiana memoria, insieme allo spazio ed al tempo, per poter fare esperienza completa della realtà. Consiglio questo libro ogni volta che si sente il bisogno, la necessità, di un abbraccio, di una parola di conforto, di quelle di mamma o di nonna, che già ti curavano la febbre, ancor prima di prendere farmaci, di una tisana calda da tenere fra le mani, o di una coperta metafisica in grado  di dare tepore ad i pensieri ed alle emozioni. Concludo con una citazione presa dal Talmud ebraico, “la divinità conta le lacrime delle donne”, e davvero non c’è autentica teologia che non passi dal mistero ineffabile del sentire femminile: anche Donatella conta benissimo, con la sua scrittura, le lacrime delle donne, insieme ai loro catartici sorrisi.

Danilo Caravà

(critico autore e regista teatrale)

Libri, Recensioni: Marina Mariani su Donatella Massara “Risotto al veleno” ebook@women, 2014

pubblicato da Donatella Massara il 7 novembre, 2019

Recensione di Marina Mariani dal libro di *Donatella Massara

ilmiolibro.it – pag. 195 – euro 15 – disponibile anche in ebook@woman

Desidero recensire in questo sito, che si occupa della salute di genere, il romanzo “giallo” Risotto al Veleno  per la capacità innovativa di trattare di storia moderna utilizzando in modo puntuale e articolato il dispositivo narrativo del genere giallo.

Considero questo scritto una felice opportunità per riflettere sui cambiamenti culturali che i movimenti femministi degli anni ’70 hanno introdotto nella società italiana e nella vita di molte giovani donne di allora e oggi e di oggi. Un modo semplice per ricordare i 40 anni dalla fondazione della nostra Associazione Centro Problemi Donna che prendendo forza dai movimenti femminili e femministi si è costituita il 17 Novembre 1975.

La narrazione si apre mettendoci di fronte al fatto compiuto:  Habwel Manyang parlamentare italiano di origine sudanese è stato assassinato, causa del decesso sembra essere un piatto di risotto ai funghi.

Cinzia Manisco (ex giornalista), la sua compagna Marisa (critica cinematografica) e Mariella Salvi, che è ancora attiva in politica in una formazione mista, cercherà di coinvolgere le due amiche in una inchiesta parallela. Lentamente ma inesorabilmente le due protagoniste Cinzia e Marisa si troveranno a indagare nel passato recente di Habwel che abbandonato l’impegno politico in un partito extraparlamentare  degli anni ’70 si è fatto eleggere in una formazione mista di centro. La storia italiana di questi anni ci scorre sotto gli occhi intrecciandosi con abilità nella quotidianità di tutti i giorni e offre al lettore l’opportunità di annodare informazioni, dati stanti vissuti.

Ci chiediamo  insieme alle intrepide investigatrici come sia stato possibile che un uomo dotato di carisma “vero mito della sinistra extraparlamentare milanese” sia scivolato in un sordido anonimato. Molte inquietanti ombre avvolgeranno il sentiero tracciato dalle protagonista, sentiero che costringerà Cinzia a partire repentinamente per Roma dove in circostanze non chiare incontrerà Lem un amico “dei tempi della passione politica”. Sarà con l’aiuto di Lem che Cinzia riuscirà ad annodare quel filo rosso che dal presente le porterà a ripercorrere l’esperienza dei collettivi femministi collegati alla pratica del partire da sè e trovare la sintesi risolutiva.

Sarà questo intreccio tra ricordi e attualità e capacità di discutere dei politica delle donne a svelare la verità. Rinsaldate dalla rinnovata amicizia e dalla pratica di confronto politico,  Cinzia e Marisa si preparano ad affrontare nuove avventure.

 

Note sull’autrice

*Donatella Massara di origine piemontese ha studiato a Milano, dove si è laureata in storia della filosofia e ha conseguito due master in discipline filosofiche storiche. Ha aderito a movimento delle donne, a metà degli anni ‘7o decidendo di abbandonare insieme ad altre la politica militante nei gruppi della sinistra, incompatibile con la pratica politica non separatista.

Nel 1976 ha fondato con altre la Casa delle Donne di via Mancinelli. E’ entrata a far parte della Libreria delle Donne di Milano nel 1977. Ha fatto parte di gruppi e collettivi femministi collegati alla pratica del partire da sè. Ha insegnato per vari anni filosofia nei licei. Dal 2000 si dedica al sito di cui è fondatrice “Donne e conoscenza storica”, qui si occupa di comunicazione della storia e del pensiero delle donne e di storia e critica del cinema femminile (http://www.donnediparola.eu).

Nel 2006 ha partecipato al Simposio Internazionale della Filosofia all’Università di Roma Tre. Dal 2009 lavora alla costruzione della web radio Donne di Parola, con altre socie, per diffondere a voce e interpretare i testi delle donne, per prime le scrittrici italiane fra ‘800 e ‘900. (http://www.donneconoscenzastorica.it/decs15/)

 

LIBRI, Recensioni’L’abbraccio della signora Sole’ di Jasmine Irani, La Vita Felice, 2018

pubblicato da Donatella Massara il 2 ottobre, 2019

‘L’abbraccio della signora Sole’ di Jasmine Irani, La Vita Felice, 2018   E’ un libro che dice verità che nessuna donna già non abbia dentro di se’. È una triste esperienza di subita violenza di una moglie ora divorziata. L’autrice sa raccontare la sua vita in modo diretto. E riconoscersi nella cultura ‘di altri paesi’. La cultura diversa è quella islamica, in questo caso derivata dall’Iran, quindi è esposta all’uso di leggi, pregiudizi e costumi che non sono occidentali. Lei non nasconde questa cultura e neppure la critica ma quello che non dice può essere intuito. Jasmine Irani non passa per un’auto analisi che porterebbe al fondo di se stessa per chiedersi perché abbia imboccato questa strada, racconta con gli occhi della testimone che non ha dimenticato. Non è un libro passato al confronto della cosiddetta storia vivente che vuole sottoporre al giudizio di altre il proprio vissuto per raccontarlo con uno sguardo anche diverso. Il racconto di Jasmine è scabro, senza elaborazioni stilistiche e riesce in certi momenti a mettere chi legge in una condizione di spiacevole condivisione che sicuramente preferiremmo evitare. Il riscatto è nella sua nuova vita che dalla schiavitu’ della rassegnazione e della bugia l’ha portata a scegliere oltre la paura. È quindi un buon libro.

Cinema Recensioni ‘E poi c’è Katherine’ di Nisha Ganatra

pubblicato da Donatella Massara il 28 settembre, 2019

Ho visto “E poi c’è Katherine” uscito nelle sale il 12/9 regia di Nisha Ganatra,(n.1974). La regista canadese americana è di origine indiana, ha vinto il Golden Globe per una serie televisiva e girato altri due film Chutney Popcorn e Cosmopolitan. Il film è interpretato da Emma Thompson e da Mindy Kaling, anche lei di origine indiana e che è pure la sceneggiatrice del film. Una forte preponderanza femminile dunque nel cast, fra le autrici e nella produzione. E’ un film bello che merita vedere, sicuramente lo sostiene l’interpretazione di Emma Thompson. Non è perfetto e ha qualche momento di ripetitività. Però la tematica è intrigante. C’è una conduttrice televisiva di grande successo. L’unica donna a tenere da decenni uno show nella fasce notturne. Infatti il titolo inglese è Late Night (Tarda notte). Dopo tutti questi anni lo show perde consenso. Stanno per licenziarla. Sorretta dai suoi stessi cambiamenti, (finalmente accetta che esista Internet) e dalla giovane sconosciuta che ha voluto lavorare con lei, Katherine resiste perché, come dirà alla fine: in quello show ha messo il sangue e la vita. Una donna che non ha avuto maternità mette la sua potenza creativa in una pratica realizzata. O anche nell’una e nell’altra. Quello che ho visto io.

 

 

 

Cinema: “Revenge”, 2017 di Coralie Fargeas con Matilda Lutz

pubblicato da Donatella Massara il 4 settembre, 2019

Ho visto “Revenge” di Coralie Fargeas regista francese film del 2017. Interprete una bravissima Matilda Lutz. In fotografia attrice a sinistra e regista a destra. Sono stata molto colpita. Il film ha avuto un ottimo successo di critica. E’ il primo film ‘splatter’ fatto da una donna. Io non sono molto impressionabile, per le immagini di finzioni. Forse alle donne non è così piaciuto, di solito le donne dicono che non vogliono vedere violenze. Neppure io. Qui però le violenze splatter, quindi che eccedono i limiti della verosimiglianza, sono volute non solo subite da una donna e sono create da una donna e il senso del film è molto femminista. A me è piaciuto e mi ha colpito. La regista proviene da una scuola di cinema francese molto ricercata. E’ pienamente autrice del film perché l’ha scritto, diretto e montato. Si vede subito che non c’è niente di banale, c’è cura e raffinatezza, senza cadere nella leziosità (per esempio a me Sorrentino risulta un decadente artefice di immagini stravaganti). Le scelte di regia e montaggio, curato dalla stessa regista, gli attori scelti, le luci, la fotografia sono perfettamente o quasi responsabili della comunicazione, le parole supportano al minimo l’azione che è sconvolgente, ma sempre sul parametro della misura scelta dalla regista. La misura è portare alle donne il significato oltre la trama usandola però per costruire senso nell’immaginario femminile. Una giovane donna bellissima alla ricerca di una carriera viene mandata a divertire un cacciatore del deserto. Fino a qui tutto corrisponde alla libertà della ragazza. Ma poi arrivano gli amici e scatta lo stupro. E’ il momento in cui la ragazza diventa la vendicatrice. Impossibile descrivere l’azione fra i quattro personaggi, bisogna viverla attraverso il film. E capire l’identificazione delle donne che vuole costruire la regista che va oltre la situazione proposta per potere diventare la lotta femminile per resistere. E’ ovvio che questo film è a sé stante e non può diventare il modo ‘normale’ con cui le registe potrebbero fare film, per farsi ricordare. E’ ‘un’ film, con la sua modalità di espressione. Il discorso del genere a me pare superato, che vuole dire? Ognuna trova le sue coordinate per creare. Questo film sollecita a trovare altri modi di comunicazione, a costruire la creatività delle donne, osando tutte le modalità di espressione con arte.

Politica delle donne: Intervista a Nilde Vinci sulla 76a Mostra del cinema di Venezia

pubblicato da Donatella Massara il 30 agosto, 2019

Intervista a Nilde Vinci di Donatella Massara

Sono rimasta colpita dalla significativa presenza di registe scelte come giurate alla 76a Mostra del cinema di Venezia. Una presenza tutt’altro che neutra! come ha fatto vedere la presidente Lucrecia Martel aprendo una coraggiosa polemica contro Roman Polanski, autore in concorso, condannato, in contumacia, per stupro di una tredicenne, avvenuto quando aveva 43 anni. In sostegno con le donne del suo paese, l’Argentina, la regista ha dichiarato che vedrà il film come tutti gli altri in concorso ma che non l’applaudirà.

Mi sono rivolta a chi è un’avanguardia della pratica politica femminista sul cinema delle registe, convinta che sulla scena di Venezia il red carpet lo stiano tenendo non solo gli abiti delle attrici ma anche le posizioni femministe. E’ tramontata l’idea del cinema come cultura, intoccata dalla carnalità delle differenza, dove pubblico e produzioni condividono i principi puri dell’arte. Con l’attenzione alle registe e ai loro film Nilde Vinci ha creato ormai trentanni fa, nel 1990 l’Associazione Lucrezia Marinelli che oltre a possedere un archivio di migliaia di film a regia femminile propone, organizza, distribuisce e promuove per pura passione politica i film delle registe.

Donatella: Cosa pensi della presenza a Venezia di registe note. Ci sono Lucrecia Martel, Mary Harron, Susanna Nicchiarelli, Costanza Quattriglio, Antonietta De Lillo. Sono tutte giurate sparse nelle varie sessioni, oltre a quella centrale, insieme a donne esponenti delle professioni artistiche, come Laurie Anderson?

Nilde: Che ci siano tante registe sono contentissima, anche se considero più semplice fare la giurata che non fare la regista, nel senso che se devo vedere, i film a regia femminile a Venezia, sono molto pochi rispetto, per esempio, a Locarno. La cosa importante è che questi nomi: la Martel, la Nicchiarelli, la Quatriglio, la De Lillo etc non sono così nell’orecchio delle spettatrici e degli spettatori. Questo permette alle registe che il loro nome vada nel mondo. E non è una piccola cosa, è molto importante, perché uno dei problemi dei film a regia femminile è che non sempre le persone sanno il nome della regista.

Donatella: La presidente Lucrecia Martel che ha attaccato Polanski, come criminale, tu cosa pensi sgnifichi dal punto di vista della differenza femminile?

Nilde: Ma io sarei d’accordo di boicottare Polanski. Dopo quello che ha fatto. Sono cose che non si perdonano. Mi viene sempre in mente questo bellissimo documentario fatto dalla Feltrinelli sulla giudice della Corte Suprema degli USA che si chiama Ruth Ginsburg (“Alla corte di Ruth RBG” diretto dalle registe Betsy West e Julie Cohen) la quale nelle sue manifestazioni continua a rivolgersi agli uomini dicendogli “Dovete smetterla di calpestarci”. Questa è una frase – “Smettetela di  calpestarci – che veramente mi ha colpito molto. E infatti nella realtà, Polanski facendo lo stupro di una bimba di tredici anni non ha fatto altro che calpestare lei e noi, perché secondo me non c’è differenza. Quindi io sulla storia di Polanski non gli concederei nessun vantaggio. La distribuzione ha detto che ritirerà l’opera perchè il grande artista va giudicato solo per la sua opera. Io non credo che sia così.

Donatella: Quindi tu pensi che chi ha commesso un oltraggio verso una donna vada punito.

Nilde: Gli oltraggi sono anche più modesti come le molestie, figuriamoci davanti a una bambina di tredici anni.

Donatella: Diversamente il direttore Barbera si è soffermato sulla bellezza del film J’accuse di Polanski dove ogni particolare del caso Dreyfuss viene raccontato con grande meticolosità e questi fatti di cui stiamo parlando non l’hanno toccato per niente.

Nilde: Non dimentichiamo che Barbera è un uomo e gli uomini hanno sempre fatto quadrato fra loro contro le donne. “Non calpestateci, non calpestateci, non calpestateci. Vi ordino di smetterla – dice Ruth. E invece ci calpestano. Certo Lucrecia Martel ha fatto un gesto molto coraggioso. Oltre tutto i suoi film sono molto belli.

Donatella: Ecco parliamone. Tu conosci molto bene il lavoro delle registe. Pensi che queste registe scelte per fare le giurate abbiano fatto film che corrispondono agli interessi delle donne?

Nilde: Abbastanza. Basterebbe l’avere firmato con il loro nome di donna delle opere. Penso però che la settimana scorsa è stato l’anniversario della morte di Eleonora Fonseca Pimentel. Hanno citato sul Corriere questa data raccontando del libro che è stato scritto da un uomo  (C.Stajano“Il resto di niente”) ma guardandosi bene dal dire che il film, con lo stesso titolo, è stato fatto da Antonietta De Lillo. Anche questa è una forma di dimenticanza voluta, di superficialità e di desiderio di cancellazione del femminile? Non sono in grado di rispondere.

Donatella: Però queste registe sono state scelte perché avevano fatto dei film – penso- rivolte in qualche modo alle donne.

Nilde: Queste registe sulla storia di Polanski non si sono ancora pronunciate

Donatella: Anzi Susanna Nicchiarelli ha detto che anche il film di un criminale può essere bello.

Nilde: Non sono d’accordo

Donatella: Non sono d’accordo neanch’io

Donatella: Ci sono anche delle registe in concorso

Nilde: C’è Haifaa Al-Mansour, che è stata la regista di La bicicletta verde

Donatella: Domando: c’è corrispondenza fra il peso delle registe scelte, la loro importanza, per la giuria e le registe che sono o sono state presenti a Venezia. Penso a Jane Campion che vinse con Lezioni di piano e Agnes Varda Senza tetto né legge o Margarethe von Trotta con Anni di piombo. Le registe giurate hanno avuto riconoscimenti proprio a Venezia, certo non nella sessione del Insomma le registe scelte per fare le giurate hanno una certa importanza nella storia del cinema?

Nilde: Hanno una media importanza. E principalmente in Italia. Non so esattamente che peso abbiano a livello internazionale le italiane. Le straniere però hanno più peso. Come Lucrecia Martel.

Donatella: Queste donne riescono a togliere al cosidetto grande cinema l’aura della genialità? Voglio dire che la critica che è per lo più maschile parla sempre dei grandi geni e sempre sono maschi, per esempio – quest’anno – c’è un gran parlare di Polanski o Kubrick, di cui quest’anno si celebra Eye wide shut. o il Leone d’oro alla carriera è stato dato a Pedro Almodovar. La lotta di Lucrecia Martel contro l’uomo Polanski può andare nella direzione di destabilizzare questo regno della genialità maschile?

Nilde: Lei farà questo tentativo. E’ difficile dire se ce la farà, certo che bisogna assolutamente continuare. E’ una cosa forte e se ne parlerà. Ci saranno i due schieramenti: l’uomo è una cosa e l’artista è un’altra e invece, specialmente le donne diranno l’uomo e l’artista non sono inscindibili fra di loro. E’ stato di nuovo messo in campo questo problema e secondo me noi femministe dobbiamo sostenere questa posizione. E poi principalmente informarsi se un film è a regia femminile o maschile. E potenziare i film a regia femminile, quelli belli, che non è detto che debbano essere tutti potenziati facendo il discorso ‘donne è bello’. Però ci sono dei film a regia femminile bellissimi che toccano dei temi importantissimi ma che spariscono. Per esempio due anni fa a Venezia c’era un film di una che era andata a fare la soldata per avere i soldi e poi pentitissima è ritornata, per quello che aveva visto. E’ sparito completamente. Un altro film è Le vent tourne di Bettina Oberli che mette in campo una cosa importantissima:  due uomini amano la stessa donna purchè lei tenga presenti i due progetti dei due uomini. I due uomini hanno ognuno un progetto forte e vorrebbero che lei andasse con uno dei due sostenendo il loro progetto ma lei dice di no a tutt’e due. E’ un film che avevo visto nel 2018 e mi era piaciuto moltissimo è un film che tocca una tematica importante.

Donatella: Quindi se si sposta l’attenzione sui temi che per le donne hanno importanza anche tutta la genialità maschile di certi film – Nilde: viene ridimensionata.

Donatella: Quello che mi colpisce, inoltre, è che le registe sono stimate, secondo me, più per la presenza politica che per quella artistica e così leggo il film della saudita in concorso, ma tu mi pare che non sia d’accordo

Nilde: No perché La bicicletta verde, ha spinto cento donne musulmane a andare a Milano da via Padova 366 dove c’è la moschea fino a Porta Venezia per opporsi alle proibizioni verso le donne. E’ stata La bicicletta verde che ha spinto, l’hanno fatta due volte  questa biciclettata e nel 2017 si sono aggregate anche altre donne non musulmane.

Donatella: Penso però che Eye wide shut di Kubrick è un film che di politico non ha proprio niente è un film sul sesso, politicamente non spinge proprio a niente,

Nilde: Certo gli uomini tengono presente la sessualità maschile

Donatella: Quindi gli uomini possono fare i film che vogliono, che non insegnano proprio niente, le donne invece in qualche maniera devono richiamarsi ai fatti del giorno. Locarno è molto politico. Se una fa un film solamente artistico come fanno gli uomini, senza grandi richiami politici, probabilmente tanto spazio non ce l’ha

Nilde: Laurie Anderson aveva fatto il film sul suo cane, era bellissimo.

Donatella: Ho l’impressione che alle donne si chieda di raccontare film sul presente, anche su realtà di cui le donne sono vittime

Nilde: Non è vero non ci sono solo le donne vittime, pensiamo a film come Amelia o su donne celebri

Donatella: Però sono sempre film di eccezionalità che stupisce l’immaginario maschile, per esempio Chantal Ackermann con il famoso film su Jeanne Dielman che è una casalinga che ogni tanto si prostituisce, ed è un film forte, quel film che successo ha avuto? Non vanno a fargli il restauro. Non lo mettono al centro di un concorso come pezzo storico della cinematografia.

Nilde: Un film bellissimo era quello su suor Juana de la Cruz Io la peggiore di tutte

Donatella: Certo perché se fai un lavoro su una donna storica fai un lavoro umile ma se fai un lavoro partendo semplicemente dal tuo immaginario è più facile che sia un uomo a essere accettato. Per esempio Woody Allen con le sue storielle, molto bravo che non annoia mai, ma che cosa ci racconta?

Nilde: Niente

Nilde: Le donne fanno tanti documentari sulle donne celebri. Io preferisco i film a regia femminile che quelli a regia maschile. Considero tantissimi film di registe dei grandi capolavori. Difficilmente le attrici parlano dei film che hanno fatto con le registe. Questa è una delle cose negative. Solo le più sensibili parlano di questo rapporto con le registe. Come Jennifer Lawrence la protagonista di Un gelido inverno che ha spiegato il suo rapporto con la regista Debra Granick. Quindi non andrò a vedere il film del giapponese dove c’è la Deneuve un’attrice che si è schierata contro il me too.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Politica delle donne, Testi: “Omaggio a Lina Merlin” di Franca Fortunato (Città Vicine)

pubblicato da Donatella Massara il 10 marzo, 2019

ARTICOLO DI FRANCA FORTUNATO PUBBLICATO SUL QUOTIDIANO DEL SUD IL 09.03.2019

OMAGGIO A LINA MERLIN

IN OCCASIONE dell’ 8 Marzo, Giornata Internazionale delle donne, voglio rendere omaggio a una grande donna, il cui nome in questi ultimi mesi è tornato ad essere pronunciato con insistenza da chi vorrebbe cancellare la legge che porta il suo nome, Lina Merlin, la donna a cui si deve il coraggio, la forza, la determinazione e la consapevolezza di fare la cosa giusta, nel portare avanti per dieci anni, in Parlamento e fuori, la battaglia per la chiusura delle “case chiuse”, luoghi di istituzionalizzazione dello sfruttamento, della violenza, dello stupro seriale a pagamento, della miseria della sessualità maschile ridotta a “sfogo”. Di tutto questo tantissimi uomini non  hanno alcuna consapevolezza, come dimostra anche il libro di Antonio Iannicelli sulle “case chiuse” a Catanzaro, “Curiosità erotiche e salute pubblica in Calabria”, dove ci si compiace di una immagine maschile della prostituzione e delle “case chiuse” soddisfacente, gradevole e piacevole solo per loro stessi, coprendo, così, con la complicità di una cattiva morale, una cattiva letteratura di autori calabresi e un linguaggio incivile , la verità sulla prostituzione, sulle “case chiuse”, sugli uomini che le frequentavano a pagamento. Uomini che sicuramente allora, come tantissimi altri, hanno osteggiato Lina Merlin e che oggi da vecchi guardano a quelle case con nostalgia, come luoghi di “piacere erotico” e di “libertà sessuale”, mostrando di non aver la minima consapevolezza del degrado della loro sessualità e del male fatto a tanta umanità femminile, su cui hanno rigettato la vergogna e lo stigma sociale della prostituta. Uomini che – come ebbe a dire la Merlin – andavano a messa la domenica e al bordello il lunedì, con indosso lo stesso cappotto “buono”. Nascondere oggi la verità sulla prostituzione e sulle “case chiuse”, di oggi e di ieri, non è più possibile né consentito. La verità è stata detta e da qui non si torna indietro. Una verità che Lina Merlin, la socialista che da maestra elementare si rifiutò di giurare fedeltà al regime fascista, che conobbe le patrie galere e partecipò alla lotta partigiana, aveva già capito allora. Ieri, a dire la verità sulle “case chiuse” e sulla prostituzione sono state le donne prostituite, come si può leggere nelle centinaia di lettere che scrissero alla Merlin, per incitarla ad andare avanti, a non dare ascolto agli uomini e alle tenutarie che della violenza sul corpo delle donne ne avevano fatto un business, come oggi l’industria del sesso. Alcune di quelle lettere la Merlin le pubblicò nel 1955, “Cara senatrice Merlin. Lettere dalle case chiuse”, ripubblicate nel 2008 e nel 2018 dal Gruppo Abele. Fu una mossa, la sua, geniale, perché quelle lettere scossero l’opinione pubblica e accelerarono l’approvazione della legge in Parlamento (20 febbraio 1958).  Oggi nel mondo, compresa l’Italia, è aperto un grande conflitto tra donne e uomini, e anche con alcune donne che chiedono il riconoscimento della prostituzione come un lavoro, che lo Stato dovrebbe tutelare. Lina Merlin già negli anni Cinquanta aveva capito la verità sulla prostituzione, era convinta che non fosse un lavoro – il “lavoro più antico del mondo” come amano ripetere ancora oggi tanti uomini per nascondere, consapevolmente o meno, la verità – e sognava il giorno in cui la prostituzione sarebbe stata eliminata. Quel giorno è arrivato, è qui, è il nostro tempo, grazie ad altre donne coraggiose come Rachel Moran che con il suo libro “Stupro a pagamento – La verità sulla prostituzione” ha trovato dentro di sé, scavando dolorosamente nella sua esperienza di ex prostituita, le parole giuste per dire quello che, nelle lettere alla Merlin, altre non avevano saputo dire. Quando la verità detta da una donna risuona come tale dentro altre che l’ascoltano e le credono, allora accade che il vecchio è finito ed è iniziata qualcosa di nuovo, il che non è detto che avvenga in modo indolore. È quello che è accaduto e accade con la fine del patriarcato, quando le donne non hanno dato più credito ad esso e gli uomini, incapaci di rapportarsi alla libertà femminile, le uccidono. È accaduto con il movimento #MoToo quando le donne hanno detto basta alle molestie sul posto di lavoro, sta accadendo con la prostituzione dopo la verità detta da Rachel Moran e da altre donne come Julie Bindel, con il suo libro “Il mito Pretty Woman. Come la lobby dell’industria del sesso ci spaccia la prostituzione”, dove demolisce il mito della “prostituta felice”. Indietro non si torna anche se al governo ci sono uomini misogini come Matteo Salvini, Lorenzo Fontana e al Senato come Simone Pillon, che pensano di avere il potere di riportare indietro l’orologio della storia delle donne a quando l’aborto era un reato, il divorzio era vietato e le case chiuse erano aperte. È di qualche giorno fa la sentenza con cui la Corte Costituzionale ha ribadito la costituzionalità della legge Merlin contro chi ne chiedeva la cancellazione. Quest’anno saranno quarant’anni dalla morte di Lina Merlin, morta all’età di 92 anni il 16 agosto 1979. Una grande donna, una madre della Costituzione italiana, una donna che amava le altre donne, e che non esitò nel 1961 da parlamentare, per restare fedeltà a se stessa e alla sua storia, a restituire la tessera al suo partito, dove era diventata sempre meno gradita e lei ci stava sempre più scomoda. Nel suo discorso di saluto disse di non dissociarsi dalle idee socialiste che ispirano il Partito ma dagli uomini che lo compongono. Rimase in Parlamento, passando al gruppo misto, fino alla fine della legislatura (1963), per essere fedele a coloro che l’avevano eletta. Non si ricandidò mai più. Lei è morta, ma vive nella coscienza di tante donne e nelle battaglie di donne come Rachel Moran e Jiulie Bindel, entrambe in Italia in questi giorni per presentare i loro libri in molti luoghi di donne e portare la loro lotta contro la prostituzione e l’industria del sesso.

 

 

Politica delle donne, Testi, “La libertà femminile nella scrittura” di Franca Fortunato (Città Vicine)

pubblicato da Donatella Massara il 6 marzo, 2019


ARTICOLO DI FRANCA FORTUNATO PUBBLICATO SUL QUOTIDIANO DEL SUD IL 05.03.2019

LA LIBERTA’ FEMMINILE NELLA SCRITTURA

“SCRIVERE con l’inchiostro bianco” è l’ultimo libro della scrittrice di origine siciliana, Maria Rosa Cutrufelli, ospite, insieme alla giornalista – scrittrice Annarosa Macrì, venerdì 1 marzo,                          ad un incontro con alcune scrittrici calabresi – Eliana Iorfida, Daniela Rabia, Giusy Staropoli Calafati, Giulia De Sensi, Marilia Ciconte, Nuccia Benvenuto, Daniela Lucia – , tenuto nel magnifico complesso San Domenico di Lamezia. La lodevole iniziativa, a cui ho partecipato insieme ad altre, che ha visto la presenza di qualche uomo e tante donne accomunate dall’amore per la lettura e la scrittura, è stata organizzata da Daniela Grandinetti, scrittrice, e Annamaria Persico giornalista e direttora di Reportage, giornale on line, insieme al Circolo dei lettori e delle lettrici Librellula in collaborazione con il Sistema Bibliotecario lametino e il Chiostro Caffè letterario. Un incontro “storico” l’ha definito la Macrì, perché “una cosa così in Calabria non si era mai fatta. Resterà negli annali culturali di questa regione”. Scrittrici calabresi giovani, talentuose, piene di entusiasmo, a cui il libro della Cutrufelli indica, a partire da sé, la strada per chi voglia arrivare a scrivere in fedeltà a se stessa e al proprio essere donna. Un saggio in cui l’autrice ripercorre la sua esperienza di donna che scrive romanzi e che negli anni si è affermata come una delle scrittrici più importanti nel mondo letterario. L’amore per la lettura e la scrittura fa parte della storia delle donne ed oggi, a differenza di ieri, di solo vent’anni fa, le donne pubblicano tanto, partecipano vittoriose a importanti premi letterari, tante sono recensite, più degli uomini, ma resta comunque un pregiudizio sui loro libri, è come se dovessero sempre dimostrare di essere all’altezza, di essere cresciute. I libri delle donne vengono recensiti soprattutto da altre donne, e “molte recensore preferiscono recensire uomini anziché donne, perché questo è come se fosse un di più, un punto in più nella carriera”. Convinzioni da emancipate in carriera! E se è vero, che la “tradizione letteraria” l’hanno scritta gli uomini, cancellando le donne, è anche vero che esiste una genealogia femminile di scrittrici – sconosciuta alle più – da cui ogni donna può attingere e imparare a scrivere narrativa, restando fedele a se stessa, mentre ancora molte sono le scrittrici, anche calabresi, che preferiscono rifarsi e affidarsi all’autorità di scrittori. Sta qui gran parte della forza della tradizione letteraria maschile, che si presenta come unica, neutra e universale. Gli uomini si sostengono a vicenda, si riconoscono e si danno autorità letteraria. E le donne? Sono molte in questa regione, e non solo, quelle che sostengono gli uomini, gli scrittori, nutrendo il loro narcisismo, supponenza e autoreferenzialità, come hanno dimostrato alcuni di loro, di cui ha parlato Annamaria Persico, in occasione del Salone del libro di Torino che hanno trovato “normale” che a rappresentare la Calabria letteraria fossero solo uomini, cancellando così le tante donne, giovani e no, che in questa terra si cimentano nella narrativa. Fare le vittime non serve, non paga, ma fare circolare autorità femminile, facendo riferimento l’una all’altra e alle grandi madri della letteratura e della narrativa, del passato e del presente, come Maria Rosa Cutrufelli insegna nel suo libro, questo sì che crea forza e libertà femminile, che non ha alcun bisogno del riconoscimento maschile. Dove siamo oggi? Dove ci collochiamo? Con quale libertà scriviamo? Sono domande che le donne che vogliono scrivere in fedeltà a se stesse si devono porre, come ha ripetuto nell’incontro la Cutrufelli. “Siamo diventate soggetto di scrittura, non siamo più muse ispiratrici, l’oggetto della scrittura maschile. Questa liberazione c’è stata”. Una liberazione che a lei e a tante donne è venuta con la presa di coscienza femminista degli anni ’70. Da lì è iniziato un percorso, che lei racconta nel libro, partendo da sé, per cercare e trovare nella scrittura “una propria voce” che non fosse la ripetizione di quella degli uomini, una voce libera, “originale” nel senso di un ritorno alle “origini”, che per ogni donna è la relazione con la madre, reale o simbolica, rappresentata nel libro dal mito di Demetra e Core, la coppia madre figlia sulla cui rottura gli uomini hanno costruito la loro civiltà, la loro cultura, la loro tradizione letteraria, da cui le donne sono state prima escluse ed oggi incluse, ponendo se stessi come unico metro di misura per una donna che vuole scrivere. Scrivere con voce libera – come ha ripetuto la Cutrufelli – significa diventare soggetto della propria immaginazione, il che è un’impresa non facile, perché “le voci maschili”, che ti vogliono insegnare come devi scrivere, sono un coro potente, la loro tradizione letteraria, con il suo immaginario, è un coro potente. Sottrarsi a quel coro, liberarsi dalla colonizzazione culturale dell’altro, dall’immaginario maschile, è passo decisivo per una scrittura libera, su cui, come donne “non ci siamo interrogate abbastanza”, in Calabria mai. Interrogarsi sulla libertà con cui scriviamo, cercare una nuova strada nel romanzo, come in ogni altro campo, è cruciale per ogni donna che ambisce a diventare veramente soggetto della propria scrittura. È quello che hanno fatto le grandi scrittrici. L’importante, come ha ripetuto la Cutrufelli, non è tanto scrivere libri e farli pubblicare – magari a pagamento, il che è poco professionale – quanto interrogarsi sulla libertà con cui scriviamo, e a quale immaginario facciamo riferimento quando scriviamo. Di questa libertà fa parte il linguaggio che non è mai neutro- come invece insegna la tradizione linguistica, scritta dagli uomini, dove il maschile si è elevato ad universale – neutro, cancellando la differenza femminile – ma è sempre incarnato in un corpo di donna o di uomo. La sessuazione del linguaggio da parte delle donne – come ci siamo autorizzate a fare molte di noi a partire dalla fine degli anni ’80 del Novecento – richiede un’assunzione consapevole della propria differenza e un darsi e dare all’altra l’autorità per significare quel “Io sono una donna” da cui si è partite, nel farsi soggetto di parola, pensiero e scrittura. È dalla libertà femminile nella scrittura, non solo in letteratura, che può scaturire un nuovo modo di guardare, raccontare, narrare la Calabria, fuori dalla complementarietà alla narrazione degli uomini, che hanno un loro schema narrativo ben consolidato. Libertà nella scrittura, è la questione da cui è partito l’incontro, questione poco indagata e poco interrogata anche lì. Alle donne che hanno organizzato l’incontro va il mio ringraziamento per aver creato l’opportunità di porre tra noi, per la prima volta, tale questione, che vale per chiunque di noi voglia scrivere, e mi auguro che possiamo riprenderla in altri incontri, in altre città, anche per moltiplicare, rafforzare e non disperdere quello che abbiamo iniziato a Lamezia.

Cinema Recensioni Politica delle donne: “WIFE – Vivere nell’ombra”

pubblicato da Donatella Massara il 6 febbraio, 2019

“WIFE. Vivere nell’ombra” è il film uscito nel 2107, nell’ottobre 2018, per la distribuzione italiana, è diretto da Bjorn Runge, un regista svedese, ma è interpretato da Glenn Close, sceneggiato da Jane Anderson che ha elaborato il romanzo di Meg Wolitzer statunitense, (1958) figlia della scrittrice Hilama Wolitzer. La sceneggiatrice  ha poi riscritto il suo testo teatrale “The Mother of the Maid” (La madre della serva) del 2013, dove racconta la storia e la relazione fra Isabella e sua figlia adolescente che è Giovanna d’Arco, debuttando nel 2018 con protagonista Glenn Close. Jane Anderson è sposata con una compagna. “Wife” è dunque un film diretto da un regista ma con una presenza femminile così protagonista alla quale possiamo dire che lui ha reso un buon servizio. Il romanzo è stato pubblicato in traduzione italiana da Garzanti nel 2018 con lo stesso titolo del film ed era uscito in lingua originale nel 2003. La storia di “Wife” è piuttosto nota. Joan è la moglie di uno scrittore che ha vinto il premio Nobel. Il film parte dall’annuncio del ricevuto premio per spostarsi quasi subito a Stoccolma dove sono ambientate quasi tutte le scene del prima e dopo la cerimonia della premiazione, fino a quando lui muore e lei ritorna in USA con il figlio. La vera scrittrice è lei ma per comune decisione, in tutti questi anni, la coppia aveva deciso che lei sarebbe stata il ghost writer e  lui pubblicamente lo scrittore. Lei in trent’anni ha passato otto ore al giorno a scrivere, lui, scrittore poco riuscito, già professore di letteratura a Yale, si è speso a cornificarla, creandole occasioni di narrazione, e tutto quello che faceva erano le revisioni. Il motivo per cui lei gli ha ceduto così in fretta l’identità pubblica è che, dopo i primi tentativi di scrivere, era stata avvertita da una scrittrice che i suoi libri come donna sarebbero stati meno letti che se fosse stata un uomo. La sua passione di scrivere (perchè chi scrive non lo fa mai per pubblicare) e anche i successi e i guadagni che incassano insieme hanno mantenuto il patto attivo per trentanni, fino a che davanti al Premio Nobel, lei non regge più e decide di lasciarlo. Ancora una volta lui, vecchio e malato, si era fatto distrarre da una bella fotografa con 50 anni meno di lui. Non è successo nulla fra i due ma a Joan è bastato il sospetto. C’è qualcosa che va molto oltre la gelosia. Il film quindi si gioca su questi passaggi psicologici, sulla verità nascosta, che chi guarda conosce, ma su cui continua a dubitare, sui doppi ruoli, su come le cose spesso non sono come sembrano ma guardando più da vicino, oltre le convenzioni, possono essere anche viste per come sono. Un film giocato quindi prima di tutto sulla grandezza della recitazione della protagonista, di Glenn Close, già nominata per numerosi premi, fra cui l’Oscar, e, anche della sua spalla, l’inglese Jonathan Pryce. Lui è un marito superficiale che continua mangiare e sfodera vecchie battute che solo l’aura che alita intorno a chiunque sia nato per destino con i cromosomi XY e si autodefinisca di successo può rendere credibile. C’è poi l’abilità di chi ha romanzato la trama, la scrittrice, e poi di chi, partendo da lì,  ha sceneggiato il film. Il regista è riuscito a giocare sulle riprese, distribuendole fra chi è il protagonista di facciata e chi questa facciata la costruisce veramente nell’ombra. Per tutto il film siamo tenuti sulle porte della verità che la coppia custodisce. Fino a che c’è l’esplosione e la copertura va in mille pezzi. Quando lui fa i consueti ringraziamenti alla moglie, definita “la sua coscienza” lei inizia a chiudere il patto. Glielo aveva detto “non ringraziarmi pubblicamente, almeno non farmi passare come la povera moglie che sta umilmente al tuo fianco”. Ma lui non può non fregiarsi di questa possibilità, non può non stare nelle convenzioni. E’ una vanità a cui non può rinunciare. Perché lui ci crede che senza di lui lei non avrebbe trovato di che scrivere. E’ l’estrema presunzione maschile di chi pensa che la propria vita ‘forte’ ispiri chi scrive. Come se non vivessero, tutte e tutti, quelle e quelli che non sono morti. Ma tradurre in parole ‘la vita’ è una grande fatica, e ancora più faticoso è uscire dal piacere di scrivere per farsi pubblicare e al sommo della scala delle difficoltà c’è accettare che non tutte e non tutti siamo dotati della stessa intelligenza, sensibilità e degli stessi poteri davanti ai soldi, ai premi, alle edizioni. 

Il film racconta una storia che può sembrare, oggi, inverosimile. Un altro film “Big Eyes” di Tim Burton descrive invece la vera storia di Margaret Keane, che negli anni ’50 dipingeva i quadri dei bambini con gli occhi grandi che erano attribuiti al marito Walter. Nel 1958 Margareth raccontò la verità, i due ex coniugi finirono a processo perché lui non voleva riconoscerla e non voleva darle i soldi incassati. Alla fine la pittrice ebbe ragione sulle pretese dell’ex marito. 

Politica delle donne, Testi, Comunità di storia vivente di Milano, “La spirale del tempo. Storia vivente dentro di noi”, Moretti & Vitali, 2018

pubblicato da Donatella Massara il 29 gennaio, 2019

di Donatella Massara

Comunità di storia vivente di Milano, “La spirale del tempo. Storia vivente dentro di noi”, Moretti & Vitali, 2018,  libro distribuito agli inizi di quest’anno. La Comunità di storia vivente accoglie alcune donne impegnate nella ricerca sulla storia soggettiva, è stata promossa nel 2006 da Marirì Martinengo già fondatrice della Comunità di pratica e riflessione pedagogica e di ricerca storica. Questo libro attinge, rielaborandole, con lo sguardo della storia vivente, alle storie personali delle autrici, nasce da una profonda riflessione collettiva durata anni. I racconti non sono quindi semplici spunti autobiografici ma nascono dall’incontro con altre, mirato, attraverso la relazione politica, a fare uscire allo scoperto, per metterlo in parole, il nucleo più resistente emozionalmente, quello condizionante lo svolgimento nel tempo, della nostra storia.
Il libro mi è piaciuto veramente molto. Consiglio di non farselo sfuggire. Anche se la veste grafica è poco attraente, fa pensare a un noioso lavoro politico che magari non abbiamo voglia di leggere. Invece è brillante come un romanzo. E c’è da ringraziare Luciana Tavernini per l’amorosa e attenta lettura dei testi. Giovanna Palmeto, a questo proposito, riconosce a Luciana Tavernini “la sapiente e generosa cura con cui ha saputo porsi con lei in relazione di ascolto, confronto e riflessione”. Ci sono scritti come il suo e quello di Marie-Therese Giraud che sono dei gioielli preziosi ricavati parola per parola da una confessione con se stesse che solo  la presa di distanza da sè hanno fatto diventare una riflessione da cui imparare, apprendere, cercare la mediazione per storie nostre magari molto differenti. In questa differenza da un’altra che si è resa disponibile attraverso percorsi interiori meditati, ho visto la nascita del pensiero, della riflessione che ci fa capire di più il mondo in cui siamo vissute e viviamo. Prendo una citazione di Simone Weil dallo scritto di Giovanna Palmeto perchè mi ha colpito particolarmente proviene da “La prima radice”, testo che conosco bene e il cui senso è  bene concentrato in questa frase: “La nozione di obbligo sovrasta quella di diritto, che le è subordinata […] C’è obbligo verso ogni essere umano, per il solo fatto che è un essere umano, senza che alcun’altra condizione abbia a intervenire”. Mi riconosco in questa frase ampia. E’ questa vibrazione che ha a che vedere con l’erotismo, con la nostra vita passata, con la corrispondenza di amorosi sensi. Ma a volte non ci si sceglie, il vedersi e stare in relazione accade. Nella vita vera non c’è preferenza, come in una classe, una sala da ballo, un concorso. Credo nel lasciare che l’accadere avvenga senza pilotarlo con le convenienze. La ‘preferita’ suona come una scelta fredda, razionale, volutamente ‘cattiva’ che seleziona. E questa selezione la si subisce e la si esercita. Non mi piace. Quindi ognuno di questi racconti lo accolgo. Non ho preferenze. Ho ammirato e capito molto dai racconti di Marie Therese Giraud e Giovanna Palmeto. C’è nei loro racconti quella consonanza di soggettivo e oggettivo, che cita Laura Minguzzi da Chiara Zamboni, la nozione hegeliana di coincidenza di astratto e concreto. Io la chiamo capacità di giudizio sintetico, di legame semplice. Lo vedo in quei racconti precisi, che ho citato, ricchi di legami, dove fatti e valutazioni cadono insieme, come quando la punta della matita sul foglio disegna con una minima pressione i segni della mente. Non amo le troppe spiegazioni, l’intrigo delle identificazioni, chiamare una situazione per spiegarne un’altra che in quella starebbe nascosta. La biografia riguadagnata nel ricordo, nell’analisi, nella mossa di un’altra che ricade su di noi, quando avviene, in un’apertura, lascia posto a chi legge per lavorare di suo. Il racconto di Marirì Martinengo mi ha dato il respiro di un tempo e di una società di relazioni che mi hanno incuriosita. Il racconto di Laura Modini lo conoscevo già, l’avevo ascoltato letto da lei e mi aveva emozionata. La scrittura mi ha tolto quel di più di partecipazione, adesso penso che gli occorrano molte più parole. Ecco leggere mi ha dato la certezza che il suo racconto chiede di essere approfondito, proprio perché esca tutta la sua grandezza femminista. Il racconto di Laura Minguzzi mi ha fatto entrare dentro un mondo di cose, luoghi, azioni, movimenti. Anche la sua storia già conoscevo, la morte di sua madre ancora mi ha commossa. Questa volta il fantasma di sua madre, che non ho mai visto in fotografia, ha preso le fattezze di Domitilla Colombo. L’ho vista a teatro recitare “La sposa di Ade”, proprio poche ore prima di leggere il racconto di Laura. Domitilla ha recitato un lungo monologo dove racconta la storia, le probabili emozioni, i possibili pensieri di una giovane sposa, abbandonata dal futuro marito, il giorno delle nozze, che, con indosso il suo abito bianco si getta, in quello stesso giorno, dal balcone di viale Monza a Milano. È una storia realmente accaduta su cui l’autore, Danilo Caravà, nipote della sposa mancata, ha lavorato, dissotterrando il ricordo che lo ha accompagnato fin da bambino. Ecco per me la madre di Laura è diventata quella sposa in abito bianco di seta, con le scarpette d’oro che la bella amica Domitilla ha interpretato.

Necessarie mappe dei concetti che trasferiscono senso politico alla storia vivente in Milagros Rivera Garretas e in Marina Santini. “La storia vivente è quella storia che continua a vivere dentro di noi” così l’ha definita all’origine Marirì Martinengo, inventrice di questa pratica che è stata raccolta da Milagros Rivera Garretas, se una è la madre della storia vivente l’altra è la sua madrina. Intenso il testo di Luciana Tavernini che approda, dopo una lunga narrazione su sua madre, suo padre e lei stessa, al concetto di trasformazione della necessità in libertà. Questo è il senso dell’agire delle nostre madri. Riprendono le storie con il gruppo di storia vivente di Foggia, aperto da poco tempo ma già pronto a raccontare per coinvolgere chi legge. Dopo che le amiche della Comunità di storia vivente di Milano ci hanno fatto strada, illuminando le braccia della pianta della vita dove trasferiamo i nostri ricordi, molte storie si avvicinano a comporre il quadro del fare comunità.

Dopo la recensione al libro della Comunità di storia vivente, “La spirale del tempo” qui pubblicata aggiungo alcune considerazioni alla luce delle osservazioni suscitate, in questi giorni, dalla mia recensione. La prima è stata quella di Daniela Pellegrini, femminista storica che ha ricordato, in risposta alla mia recensione al libro sulla storia vivente, che l’autocoscienza, secondo lei, è stata abbandonata, commettendo un grande sbaglio, alla fine degli anni ’70. Altre osservazioni hanno sottolineato che il libro vuole spingere la storiografia a cambiare, mettere fine al monopolio maschile, non solo raccontare storie negate. Le  osservazioni di Laura Modini, Luciana Tavernini, Marina Santini, Giovanna Palmeto, Marie Therese Giraud e Anna Potito, fra le autrici del libro, sono state invece di apprezzamento oltre che di gratitudine. Loretta Meluzzi, Paola Elia Cimatti, amministratrici con me della pagina Facebook La Biblioteca femminista, hanno comprato il libro, dicendosi, la prima, d’accordo con me che il libro “muove e ‘smuove’ “, e la seconda interessata per essere stata autrice di racconto autobiografico.

Alle prime osservazioni faccio presente che l’invenzione femminista, l’autocoscienza (la self rising consciousness, come la chiamarono le americane), negli anni ’60 e poi ’70, generò un’onda rivoluzionaria teorica, pratica, epistemologica. Avvenne uno slittamento importante nella vita di molte donne. Passammo  dal parlare ‘sulle donne’, al parlare di noi stesse insieme alle altre. Spiega bene questo passaggio, mettendolo in atto nella costruzione del suo libro, Gisella Modica in “Come voci in balia del vento”, Iacobelli, 2017. Dal femminismo e dalla pratica politica che avevamo inventato, la storiografia, oltre che la politica, ricevettero un forte colpo. Una rottura del muro di silenzio, appunto. Quella rottura di cui con molta passione ha parlato Carolyn G. Heilbrun (il cui alias è Amanda Cross) in “Scrivere la vita di una donna” La Tartaruga, 1990. E’ un’autrice che, come Donne di parola (www.donnediparola.eu) ci ha ispirato un radiodramma. Carolyn G. Heilbrun spiegò come furono le poete femministe americane, negli anni ’50 e ’60, quando iniziarono a parlare di sé, a rompere la complicità con il pensiero maschile, rivelando aspetti taciuti della vita delle donne. E racconta che lei stessa, docente universitaria, sulla loro spinta, trovò la forza, più tardi, negli anni ’70, di parlare, mettersi allo scoperto, rendendo pubblica, come avevano fatto quelle poetesse, la storia personale raccontata oltre i quattro muri della propria casa. Il muro di silenzio è già caduto. Ora, se dice Milagros Rivera Garretas, una delle autrici del libro, che questo non sarebbe avvenuto per ciò che ci riguarda più visceralmente, ciò sarà anche vero. Per lei, almeno. Sento però necessario riconoscere da dove partiamo, l’origine, una origine almeno. E poi definirci dentro a questa orizzontalità della storia femminista che esiste da almeno cinquant’anni. Ora che (la storia vivente) serva a raggiungere finalità di redenzione dell’intera storiografia a me per ora non  interessa. Voglio però pensare al passato, dove ci sono esempi di come la storiografia abbia taciuto su aspetti sostanziali per la cultura occidentale. F. Nietzsche nel 1881 inizia a scrivere “Così parlò Zarathustra” testo celebre e forse uno dei più diffusi anche fra chi non ha mai studiato filosofia. L’ho riletto, in questi giorni, perché Zarathustra è “il danzatore”. E sono interessata alla storia della danza. Mentre rientravo in un libro, che, rispetto a quando ho preso la laurea in filosofia ha perduto, per me, la inattaccabilità del capolavoro, mi sono trovata a pensare “Ma questo è il libro di un omosessuale”. Non una grande scoperta. Liliana Cavani, nel 1977, aveva fatto il film “Al di là del bene e del male” sul triangolo fra Paul Ree, Nietzsche e Lou Andreas Salome. Ma io mi sono riaccostata al libro di Nietzsche, pura, come lui voleva, per un desiderio innocente. Ho visto uno che non può dire quello che veramente è o è stato, magari nella sua infanzia. Sublimare vuole dire questo? Oppure se Nietzsche avesse fatto tesoro della storia vivente, magari in segreto, oggi non avremmo davanti a noi un capolavoro della filosofia di cui sappiamo veramente poco. Allora che la storia vivente continui e continui e continui ancora, è giusto. Ma il muro di silenzio non copre solo la storia vivente, nel senso di quella che Nietzsche magari non ha mai raccontato. Io penso che abbiano rotto il muro di silenzio tutte e tutti quelli che hanno scritto le bellissime biografie di donne. C’è un muro che nasconde le storie straordinarie che la storiografia maschile ignora. Studio la storia della danza, come ho detto, e ho scritto un libro su Carla Strauss, una grande rivoluzionaria delle pratiche della ginnastica, partita dalla danza libera di Isadora Duncan, per arrivare a inventare un suo metodo di ginnastica dolce rivolta soprattutto al corpo femminile. Carla Strauss non è presente nelle storie della danza, della ginnastica, e delle pratiche del corpo. È ignorata, nonostante abbia fondato la sua scuola, scritto decine di libri e sia stata una personaggia carismatica, apprezzata da allieve, mediche, artiste. La storia va così perchè la ricerca storica, oggi, viene fatta soprattutto, non più negli archivi ma nel passaggio di contenuti, dove i soggetti nominati sono quasi sempre gli stessi. La ricerca asseconda il canone, deciso da chi ha il potere di pubblicare. Voglio ancora citare proprio perché mi ha molto colpito, una grande danzatrice Ida Rubinstein (1885-1960) ormai sconosciuta anche forse a chi di danza si occupa. Fu lei stessa una protagonista, a Parigi scelta da Djaghilev,  per ballare in coppia con Nijinsky.

Ida Rubinstein promosse spettacoli, in cui oltre a essere lei interprete, coinvolse, ispirò e finanziò decine delle menti più creative del suo tempo. Nacque grazie a lei, uno dei pezzi più conosciuti della storia della musica. Il Bolero di Ravel. Scritto per un suo spettacolo. Su lei c’è un muro di silenzio che ha dell’inspiegabile. Rotto appunto da alcune donne e uomini che hanno seguito le sue tracce e rimontato, con i cocci, la sua storia. Mi sono accorta che come la intendo io la ‘storia vivente’ ha la potenza di entrare e di scorrere dentro le storie personali e di rileggere le storie di altre. Ma discutendo con Luciana Tavernini e con Marie-Therese Giraud  mi hanno convinta che è bene tenere la storia vivente per quello che è. Per rispettare il punto di vista che ho guadagnato attraverso “La spirale del tempo”,  per il quale la ricerca storica non sia semplicemente storia delle donne, potrei chiamarla: una storia partecipata. Questa storia invita a fare ricerche su chi non ha più parola, e su ciò che ci riguarda e continua a vivere per noi. Fare comunità, una grande comunità, penso sia la direzione verso cui muoverci quando il pensiero, la politica e l’agire femminile diventano sempre più forti. Fare comunità vuole dire per me avere riferimenti, stimoli, pensieri non omologanti ma che facciano da comune riferimento alle donne. Fare comunità contro ogni forma di isolamento, di solidarietà populista o di valorizzazione generica di concetti come la sorellanza, il doppio femminile dell’idea maschile di fratellanza.