Cinema: “Laura” di Vera Caspary e il film “Vertigine”, 1944

pubblicato da Donatella Massara il 19 gennaio, 2019

“Vertigine” è un famoso film del 1944 girato a Hollywood con la regia di O. Preminger. E’ tratto dal romanzo Laura di Vera Caspary. Ho letto il libro e confrontato il film . Come già mi è successo mi stupisce sempre che quando vengono venduti i diritti d’autore la produzione di film con un romanzo acquistato può fare quello che vuole. Da un raffinato giallo psicologico nel romanzo il film è diventato un bel giallo. Niente di più, un classico della storia del cinema, quando della scrittrice non si ricorda più nessuno. La protagonista, l’attrice Gene Tierney è molto brava, non fa mai trapelare tracce di sensualità, come nel romanzo. E’ una donna generosa, intelligente che alla fine si innamora del poliziotto che indaga sul suo presunto omicidio. Quindi di chi si è occupato di lei, analizzando la sua vita, ascoltandola. Tutti si muovono attorno a un delitto di cui è difficile capire: movente assassino e addirittura chi sia la vittima. La ragazza uccisa non è Laura ma una modella a cui lei, nel romanzo, aveva prestato la casa. Mentre Vera Caspary, la scrittrice, agisce nel romanzo usando una fine logica che intreccia l’interesse degli uomini per le donne e viceversa, assecondando una precisa idea delle psicologie maschili e femminili, tutto questo gioco di chiari e scuri, nel film precipita nella pura azione. Spiegabile perchè il regista avesse detto alla scrittrice “Laura non ha sesso”. Troppo complicato era farglielo rappresentare. Il vero fallo è però quello che addita la stessa scrittrice, punto sul quale aveva rotto con Preminger. Era stata trattata da produttore e regista come una scema. Ma aveva ragione. L’arma del delitto nel romanzo è presente fin dall’inizio e potrebbe mettere sulle tracce dell’assassino, nel film va a finire dentro una pendola. Poco chiaro perchè l’investigatore innamorato vada a guardare proprio là dentro. Anche lievemente ridicola la situazione che all’improvviso si crea con questo arraffare dentro una pendola, che chiude il film con i pezzi delle lancette semidistrutti. La scrittrice aveva protestato quando aveva letto la sceneggiatura perchè le sue scelte oggettuali erano state oculate e fortemente simboliche. L’arma del delitto la scrittrice la nasconde dentro al bastone da cui mai si separa l’assassino. Cammina con un bastone ma non ne ha bisogno, lo fa per snobismo apparentemente. E’ un esteta che arriva a uccidere la donna che non possiede. L’altro il detective nasconde il difetto di una gamba zoppicante e quindi sarebbe lui a averne veramente bisogno.

L’inutile bastone di Waldo nasconde invece un’arma. La brama di possedere imperversa nell’assassino. Non nel detective definito “un vero uomo” dalla cameriera Bessie, l’unica veramente disperata per la presunta morte della sua padrona. Il detective vorrebbe solo avere il ritratto di Laura, quando crede ancora che sia lei la vittima. Ma niente fa mai pensare che brami dalla voglia di possesso. Lui “il vero uomo” non porta simboli, non ha neppure la pistola. Il simbolo del potere, lo esibisce l’assassino. E a riprova che Laura è una donna esteriormente ma nella mente di Preminger è asessuata c’è la scena del tentativo di ucciderla. E’ lei che si salva dal nuovo tentativo di femminicidio dell’assassino che non può averla, spostandogli l’arma così che devia il proiettile. E’ lei che ha una mossa forte capace di affrontare un’arma. Nel romanzo è il detective invece a salvare Laura. Perchè Laura che in fondo non riesce a innamorarsi veramente, ma solo a proteggere i suoi uomini, in questo caso ha trovato chi la salva dall’essere dolce e enigmatica ma priva di caratteristiche sensuali. Aspetti interessanti sacrificati per un film più comprensibile, dove per la psicologia femminile c’è poco posto.. E la scrittrice continuò a essere chiamata, come racconta, “bambola e dolcezza” dai produttori.

Politica delle donne, Testi: Qualche idea sulla politica del femminismo scaturita dal dibattito in La Biblioteca femminista

pubblicato da Donatella Massara il 5 gennaio, 2019

Qualche idea sulla politica del femminismo scaturita dal dibattito in La Biblioteca femminista di Donatella Massara

“Lottare per avere gli stessi diritti”  è quello che dicono molte donne del femminismo intersezionale. Le ho conosciute in rete durante un lungo dibattito nel gruppo FB La Biblioteca femminista, di cui sono con altre amministratrice. L’uguaglianza è un’aggiunta poco significativa per il femminismo. Gli stessi diritti ce li abbiamo da tempo, maschi e femmine non più solo uguali davanti a Dio come dicevano secoli fa, ma uguali davanti alla legge. E’ l’ideologia accreditata dal Ministero delle pari opportunità, la  parità. Ma non sono esattamente le donne delle pari opportunità che hanno fatto il femminismo. Io so per convinzione, teoria e pratica che è molto più interessante politicamente pensare alla differenza e lavorare con passione per la differenza, per il valore dell’essere donne, anche differenti l’una dall’altra, è molto più forte questa differenza che non lottare per volere essere uguali agli uomini.

Non vivo queste battaglie come vincenti. A me il femminismo ha dato la possibilità di vivere i miei desideri, riconoscerli, e agirli. Il femminismo è una bellissima avventura politica che vivo in intensa relazione con alcune donne. Mi accontento? A me sembra di avere fra le mani il mondo.

So che gli uomini non hanno difficoltà a riconoscere che le donne sono vittime, gli dà anche una certa potenza in più, hanno problemi a riconoscere la differenza femminile, ovvero che quello che va bene a loro può non andare bene a noi, tutto quello che fanno, dicono e pensano è consacrato all’unicità del soggetto maschile e la vittima viene incorporata in questa costruzione simbolica. Il pensiero della differenza crea due soggetti, l’uno diventa due. Senza vittime. 

Oggi il separatismo non è un correttivo, non lo è mai stato. Il gesto separatista originario è stato in USA quando durante un’assemblea di studenti maschi e femmine, le donne decisero di separarsi e di parlare da sole, fra di loro. E’ stato un gesto di lotta, il separatismo, nato negli anni ’70 quando le donne facevano politica con gli uomini, nei gruppi della sinistra. Oppure è nato quando condividevano per esempio l’esperienza artistica (penso alla Lonzi critica d’arte che decide di separarsi dal mondo maschile). Il separatismo è anche piacere di stare fra donne, ritrovare nell’autocoscienza quel linguaggio proprio, non più colonizzato dalla politica mista. Ci siamo date una parola di donna. 

La mia (non solo mia ovviamente) è una posizione politica che rifiuta di prendere il sesso maschile e le sue costruzioni teoriche politiche sociali come modello da assimilare. Dare valore alla differenza di essere donne e uomini, in questo caso parlo di noi donne, e parto da noi donne, significa potenziare il punto di vista femminile e dargli la carta di giocarsi nel mondo partendo da sè. Che siamo uguali perchè esseri umani è un’osservazione ovvia. Quindi la parità è implicita oggi. Però storicamente è stata rifiutata. Pretesi scienziati hanno asserito che le donne sono inferiori agli uomini. L’idea di parità è stata la prima rivendicazione femminista, per esempio rispetto al voto dal quale le donne erano escluse. Politicamente dagli anni ’70 del XX secolo il neofemminismo ormai definito storico ha elaborato l’idea di differenza sessuale (Carla Lonzi Luce Irigaray Lia Cigarini Luisa Muraro etc) perchè le donne attingano a se stesse, al proprio deposito di conoscenze, di linguaggio, di storia per trovare una propria politica, differente da quella maschile. 

Oggi lottare per essere uguali –  trans con uomini, donne nere con donne bianche e via dicendo, povere con ricche – è inerente alla vita umana, siamo uguali perchè essere umani. Ma la lotta politica e la passione per la politica per me nasce dalla mia differenza di donna. So che gli altri li coinvolgo nel momento in cui faccio azioni pubbliche. La Biblioteca femminista è un gruppo aperto. La Libreria delle donne di Milano è un negozio. I Centri di documentazione sono frequentabili da donne e uomini. Le donne sono le protagoniste, gli uomini amici delle donne, accettino questi principi. Sono per una politica femminista che lotta per cambiare il simbolico. Che valorizza la differenza. E include tutte le manifestazioni che partono dalla sessualità. L’individualita’, la soggettività di ognuna (donna) è un valore fondante con cui mi relaziono. Lottare per il simbolico femminile vuole dire stare dentro alla scrittura, al linguaggio, alle espressioni artistiche del passato e del presente. È il cambiamento profondo di un simbolico che oggi fa ancora fatica a riconoscere le donne. Questo riconoscimento può fare scaturire quei cambiamenti originari che fanno saltare gli assetti di potere. La differenza sessuale porta con se’ non solo i caratteri genitali ma quelli che portano ai comportamenti, alle scelte, ai desideri. I bisogni di una donna benestante sono simili a quelli di un uomo soprattutto se è sua moglie i bisogni di una donna povera sono simili a quelli di un uomo povero soprattutto se è suo marito. Il desiderio di libertà di una donna bianca può essere simile a quello di una nera se riesco a vedere la nostra differenza. Io lavoro, quindi, per conoscere, costruire, capire la differenza femminile. Va bene che ognuna segua la sua pratica politica, senza però fare degli errori di interpretazione. C’è chi ha detto  che il femminismo separatista rischia di “far perpetrare un’ideologia discriminatoria nei confronti del sesso femminile stesso perché lo si rappresenta sempre e solo come vittima”. Mai successo. Il femminismo separatista, il pensiero della differenza è notoriamente contro la rappresentazione delle donne come vittime. Le donne sono soggetti che sono state espropriate della loro identità dall’universale maschile. E’ la rappresentazione unilaterale dal punto di vista maschile che incombe sui due sessi, per cui c’è un unico soggetto. Non è vittima la donna ma consapevole o inconsapevole trasmettitrice di questa parola unica, per cui: la storia l’hanno fatta gli uomini, il canone letterario vede elencati solo uomini, la storia della filosofia ignora che ci sono state le filosofe. Il pensiero della differenza vuole creare il linguaggio che esprima questa differenza, facendo breccia dentro il simbolico universale maschile. E da qui il passo laterale, del separatismo.

 

LIBRI, Recensioni, Gisella Modica, “Come voci in balìa del vento”, Iacobelli, 2017

pubblicato da Donatella Massara il 8 dicembre, 2018

Gisella Modica “Come voci in balìa del vento” Un viaggio nel tempo tra storia personale e storie collettive, Iacobelli, 2017 di Donatella Massara

Le donne parlano, le voci si confondono con le ondate di vento caldo che, sospinte dal mare, raggiungono la Sicilia. Sono voci che non hanno trascrizione ma si disperdono, resistendo. Prive di un luogo pubblico che le coniughi – facendole autorevoli – a un ascolto, rovistano fra i pezzi della storia collocandosi come soggetti nella loro differenza. 

Queste voci, in virtù delle quali la storia delle donne ritorna a farsi soggetto con le sue domande, i dubbi, la visibilità, sono delle donne che Gisella Modica ha intervistato nel 1977, le donne che sanno di un evento leggendario nella memoria collettiva: l’occupazione delle terre fra il 1945 e il 1957. In quegli anni guidate dai partiti dalla sinistra e dai sindacati migliaia di famiglie contadine occuparono le terre dei latifondisti siciliani. Gisella con Angela Lanza e con Rita andarono a intervistare le donne di quelle occupazioni. Storie mai prima di allora raccontate. Le fotografie ufficiali delle occupazioni  delle terre mostrano una lunga marcia di uomini, come se dove si vedevano le donne gli storici, selezionandole, sorpresi le avessero messe da parte, fuori tema. Gisella è colpita durante le sue ricerche dalla fotografia di una contadina che cavalca un mulo con in mano una bandiera rossa. La didascalia parla di una compagna che va a portare il cibo al marito. Eppure lo sguardo di quella donna la mette sull’avviso, non è esattamente così: la verità di quella fotografia va indagata andando oltre i convincimenti acquisiti. Con le altre due compagne va a cercare quelle donne che occuparono le terre. Nei paesi c’è ancora la memoria di chi fu attivista, segretaria di partito, punto di riferimento. Escono le protagoniste che lottarono con i corpi, i canti e le parole. Lottarono solo per il diritto alla terra, non ci fu altro? ci domanda Gisella. E ci riecheggia in mente la frase di Antonietta “Poi sono stata costretta a tornare a casa” Quelle lotte finirono sconfitte. Le terre non furono assegnate a chi aveva occupato, non diedero le terre alle vedove. Colpa dei revisionisti, degli errori di alleanze, del separatismo siciliano? O forse la sconfitta fu  spinta dall’ignoranza della forza silente del femminismo, del desiderio di soggettività, dell’espressione  libera di sé. Questa creatività femminile chiedeva di essere riconosciuta, interloquita, non lasciata alla impossibilità di farla rientrare nelle categorie storiche della lotta di classe. Gisella ci scriverà un primo libro “Falce, martello e cuore di Gesù. Storie verosimili di donne e occupazioni di terre in Sicilia”, Stampa Alternativa, 2000. “Come voci in balia del vento” ripubblica nell’ultimo capitolo lo stesso libro del 2000. Negli altri capitoli ripensa a quelle interviste, le riascolta. Il suo vissuto riottiene un posto importante nel racconto e porta in primo piano il lutto, per la morte di sua madre. Da questo impasto di voci lontane, di riordinamento, insieme alla storia, dei ricordi, Gisella compie quell’opera di pulizia che ci raggiunge, nel romanzo del nostro racconto. I frammenti del vissuto si spezzano non lasciando macerie ma la sostanza che ci congiunge. Ognuna/o riceve qualcosa dal lavoro di storia vivente che ha fatto l’autrice. La sua storia si fa storia mentre la racconta, togliendola dal troppo delle ridondanze della memoria. Essa può tradire ma sperimenta in continuazione, se la sappiamo accettare, il sentimento originario. La storia di queste donne deposita, non solo emozioni,  ha una durata, una cronologia, i suoi fatti. Ma anche le sue metafore, quali ‘terre’ aveva occupato mia madre, così lontana dalla Sicilia, e che non le furono riconosciute – questa è stata la domanda che mi ha creato il libro.  Laura Modini, e io, come Donne di parola, abbiamo costruito una lettura scenica, con alcuni testi del libro, suggeriti dall’autrice, li interpretiamo mixati con le musiche.

L’occupazione delle terre siciliane fra la metà degli anni ’40 e il 1957 interessava sterminate distese di terra lasciate incolte. Le famiglie contadine in Sicilia, come in quasi tutto il sud italiano, vivevano nelle enormi ristrettezze causate da secoli di lavoro agricolo a servizio del latifondo. Questa condizione di quasi schiavitù significava lavoro in cambio di una parte del raccolto, vale a dire neppure il sufficiente per sfamare sé e la prole. Le terre sognate e mai avute vengono occupate in quegli anni del dopoguerra sotto la guida del Partito Comunista e dei sindacati. Fino al 1947 il PCI con altri partiti di sinistra ha alle elezioni la maggioranza. Poi arriva il 1 maggio del 1947 con la strage di Portella delle ginestre. Le famiglie contadine si convocano per festeggiare. La Piana degli Albanesi è una distesa circondata da colline. Su queste sono sistemati i  banditi guidati da Salvatore Giuliano, gruppi della mafia e altre formazioni. Improvvisamente e per dieci minuti la folla è colpita da fuochi di fucili, ma non solo anche da una mitragliatrice che non apparteneva alla banda Giuliano, per non parlare delle ferite da granate riscontrate sulle vittime che mai fu provato da chi furono lanciate. Le vittime furono undici, fra cui una bambina e decine di uomini donne furono ferite. Da allora il potere politico passerà alla Democrazia cristiana. Ancora adesso non è chiaro esattamente cosa abbia causato la strage e quale sia stato il movente e chi gli esecutori e chi i mandanti. Il processo riguarderà solo la banda di  Giuliano, all’epoca già morto ammazzato dal suo vice G. Pisciotta che farà sconcertanti confessioni mai provate sulla collusione fra lui e il potere politico. Anche Pisciotta in carcere sarà ammazzato da un sicario. Sono usciti dei film molto belli su quanto accadde. Il capolavoro neorealista è Salvatore Giuliano di F. Rosi girato negli anni ’60. Il regista usò come comparse ma anche per alcune parti  attrici e attori presi fra la gente dei paesi siciliani dove stavano girando. Una straordinaria presenza, indimenticabili sono le scene con le donne che Rosi mette in primo piano e riprende durante la messa in scena delle occupazioni e della vita di quegli anni. Più recente e decisamente meno interessante, americano e sceneggiato al seguito di Mario Puzo è Il siciliano di Michael Cimino.  Invece un film forte girato pochi anni fa da un regista controcorrente sempre pronto a indagare con la cinepresa le verità storiche è Segreti di stato di Paolo Benvenuti, del 2003 girato quando fu tolto il segreto di  stato ai documenti sulla strage.

Politica delle donne, Testi Il Più che danza Festival a Milano

pubblicato da Donatella Massara il 14 novembre, 2018

Più che danza! Festival 

26 NOVEMBRE – 2 DICEMBRE 2018

Teatro Fontana/ C.I.M.D via Boltraffio 20 Milano – Centro Internazionale di Movimento e Danza

Direttrice artistica: Franca Ferrari

Più che danza! nasce nel 2014 con un’attenzione specifica agli artisti del territorio della Lombardia e diventa da quest’anno un festival nazionale attento ai giovani e all’innovazione. Un festival che affianca giovani coreografi già affermati a due importanti azioni per la danza contemporanea del nostro territorio: il progetto di ricambio generazionale Incubatore C.I.M.D Per Futuri Coreografi e DanceMe – l’app creativa che è per l’artista una residenza artistica virtuale aperta all’incontro con il pubblico- che produce quest’anno 6 coreografi under35. Inoltre, sono introdotti in questa edizione tre laboratori creativi tenuti dai coreografi Marco D’Agostin, Daniele Ninarello e Davide Valrosso.

Più che danza! si configura sempre di più come un’occasione di sviluppo di pensieri, esperienze e scambio tra artisti e pubblico.

L’ideazione e direzione artistica è di Franca Ferrari in collaborazione con Teatro Fontana e con C.I.M.D – Centro Internazionale di Movimento e Danza, Perypezye Urbane e con il sostegno di Mibac e di Fondazione Cariplo. Collabora al progetto anche il festival ConFormazioni di Palermo.

 

Libri, Testi Michela Fontana, Nonostante il velo, VandA e publishing – Morellini, 2018

pubblicato da Donatella Massara il 4 novembre, 2018

Il libro di Michela Fontana “Nonostante il velo”, VandA e publishing – Morellini, 2018 ha vinto il Primo premio di Femminile, Plurale Allumiere 3,11,2018 Le motivazioni della giuria pubblicate sul sito della Casa editrice VandA e publishing

di Donatella Massara

Posto qui la relazione con cui è stato presentato alla Libreria delle donne a Milano 8,2,2017

“Nonostante il velo” è un libro che presenta le interviste alle donne saudite accompagnate dalle ricerche dell’autrice e dalle sue considerazioni. Per esempio Aisha è l’attivista che guidò nel 1990 la prima protesta delle auto. Un gruppo di donne si convocarono a Ryhad per guidare la propria auto perché l’Arabia saudita è l’unico paese dove alle donne è stato proibito. Solo recentemente hanno avuto questa concessione. Le interviste si estendono a donne diverse e inaspettatamente ci troviamo a contatto con giornaliste, donne della classe alta, media, mediche, una celebre oculista, donne d’affari, fondamentaliste, le giovani della generazione twitter, le scrittrici, organizzatrici di gruppi per il rafforzamento o il sostegno delle donne, dirigenti di banca. Il libro mi è piaciuto per la grande limpidezza della sua costruzione. Offre tutti gli elementi per potere giudicare insieme a un linguaggio leggero, ricercato ma essenziale.  Mi è piaciuto sia il rigore con cui sono esposti i dati e sia la passione, il coinvolgimento emotivo, l’amicizia che è scattata fra Michela e alcune delle intervistate. Mi piace che lei consideri le donne saudite la vera ricchezza di questo paese.

L’Arabia Saudita è un paese ossessionato dalla moralità che proibisce i contatti fra i sessi, e esclude le donne dalla sfera pubblica. Questo paese è tale per cui come dice Michela è quasi tutto proibito e poco è lecito.Ho fatto dei paralleli

“Le donne non sono riconosciute come soggetti liberi, giudicate incapaci di agire secondo ragione, sono subordinate alla potestà paterna e poi maritale. Per una qualunque transazione economica devono richiedere il permesso del marito, non hanno diritto di voto, non possono frequentare le stesse scuole dei maschi, non possono accedere alle carriere liberali” ma questa non è una citazione sull’Arabia Saudita bensì è una citazione storica sull’Italia e gli altri paesi europei nel corso del XIX secolo, periodo in cui i diritti delle donne arretrarono. Dopo la Rivoluzione francese viene sancita la vittoria del cittadino maschio che decreta l’incapacità politica delle donne. Con il Codice napoleonico le donne perdono tutti i diritti civili. Ecco quindi che in Italia lo stato liberale, a sessantanni dalla sua nascita, abolisce nel 1919 l’autorizzazione maritale quell’istituto giuridico per cui una donna non può gestire il proprio patrimonio e fare transazioni economiche. L’ Arabia Saudita stato assoluto è stato proclamato nel 1932 dopo la conquista di Ibn Saud che non a caso indicò nella scelta del nome che era di proprietà di un uomo e della sua famiglia. Questo stato comincia oggi, dopo ottantanni dalla sua nascita, a pensare di abolire la figura del ‘guardiano’ di colui che autorizza i movimenti delle donne e che può essere il padre, il fratello, lo zio, il marito. E’ infatti notizia di fine settembre 2016 che è arrivata al re la petizione di 14 000 donne saudite favorevoli a questa decisione.

Cercando di venire a capo di questa matassa che avvolge insieme diritti delle donne, i nostri e i loro passati e presenti ho seguito l’interrogativo politico di Michela che si chiede come finirà questo esperimento delle donne saudite, basato sulla veloce crescita della loro partecipazione – pur se in regime di separazione sessuale. Ci sono luoghi dove i maschi stanno da una parte e le donne da un’altra e non si devono incontrare – sono i luoghi della vita pubblica, però questa partecipazione riguarda le  carriere, l’economia, gli affari, gli studi, i viaggi all’estero. Mi è piaciuto questo interrogativo che apre il discorso a quello che stanno facendo le donne secondo uno sguardo che è sì dall’alto ma che è rivolto alla differenza più che alla parità. Nonostante il velo, infatti le saudite alle elezioni dei consigli amministrativi comunale, le uniche che esistono, le donne hanno partecipato nel 2015 e sono state anche elette. Ed è stata eletta anche una donna come consigliera regionale della regione dove c’è La Mecca.

Mi sono domandata allora per sospendermi da interrogativi a cui manca per ora la risposta e per uscire dalla strettoia dei diritti: Che cosa desiderano queste donne? Ho messo insieme delle parole chiave: guidare, ma anche guidarsi perché c’è chi vuole  liberarsi del sistema di tutela maschile,  studiare perché sono il 58% della massa scolastica, e le studentesse pare si siano addirittura scontrate con la polizia per migliorare le condizioni di abbandono e sporcizia dei loro campus, twittare, usare i mezzi informatici perché su 5000 blog il 46% è stato creato dalle donne, e poi c’è: ANDARE VIA.  È qui, quando Michela chiude il suo libro sulla testimonianza di Wahda, la più emozionante di tutto il libro, che questa parola appare. Andare via è una parola nata dal lato più oscuro della condizione delle donne saudite  che rivela la violenza domestica. E’ una realtà coperta e sepolta, che non può venire denunciata né punita, non essendoci gli strumenti giuridici e politici per farlo, che viene tenuta nascosta, per proiettare all’esterno il decoro di una nazione compiaciuta e vittoriosa della sua moralità severa. L’Arabia saudita non è il paese delle mille e una notte, il sistema di segregazione e protezione delle donne invita a farne delle schiave, soggette all’ignoranza affettiva, se così può essere chiamata la mancanza di amore per chi ci sta a fianco se non all’aggressività di chi ha in odio le donne.  Ecco allora che  Wadha picchiata dal fratello e dal padre, una laureata con un buon lavoro, in cura psichiatrica, ha un desiderio preciso: fuggire da questo paese, chiedere asilo politico portando le prove degli abusi che subisce nella famiglia. Il libro si conclude con la notizia che Wadha dopo uscite e rientri drammatici e anche due tentativi di suicidio ce l’ha fatta a scappare, si è rifugiata in un paese che l’ha accolta e lavora come cassiera.

 

Donne di parola: “Alla ricerca di Camille Claudel”

pubblicato da Donatella Massara il 15 ottobre, 2018

Donne di parola presenta “Alla ricerca di Camille Claudel”  con Domitilla Colombo, Annamaria Indinimeo, Donatella Massara, Laura Modini  – ricerca immagini e elaborazione di Carla Cella e Donatella Massara – costumi di Carla Massara – supervisione di Milli Toja con l’associazione Amici della Casa della Carità a
Villa Pallavicini Milano via Meucci 3

24-10-2018
ore 20,30

video di “Alla ricerca di Camille Claudel” 1.3 a Villa Pallavicini

Su You tube II sentiero dei draghi

pubblicato da Donatella Massara il 16 settembre, 2018

 

IL SENTIERO DEI DRAGHI: UN FILM

 

Un film è un’esperienza artistica e nello spazio di due ore ci fa partecipi di un punto di vista che prima non c’era. Da questa radicalità di esperienza non è possibile tornare indietro, anche se il film lo dimenticheremo. Un film non rilascia dichiarazioni roboanti, non sistema il giudizioso sapere per spiegare il mondo in cui viviamo. Mostra invece una comunicazione di immagini, di parole e di senso che prende esistenza nel momento in cui la percepiamo. Il significato è aperto.

“Il sentiero dei draghi” di Milli Toja, uscito in questo 2018, come gli altri della sua serie fantasy è un’opera delicata, poetica, tenera e comica. Una comunità femminile parla di sé ma facendo un passo laterale, invece di affrontarsi direttamente davanti a uno specchio, ricostruisce se stessa attraverso una sovrimpressione di due realtà. Sono questi livelli spareggiati che mettono in moto i legami più invisibili. La favola nomina esplicitamente quello che non vediamo. Lia, la Madre della Comunità delle donne, che vivono nei boschi, e Elinor, la Regina delle Elfe, che domina beatamente in un’altra dimensione, esprimono la forza dell’eros delle donne come esempi attivi dell’autorità femminile. Siamo di fronte all’autorità femminile, quell’oscuro oggetto del desiderio delle donne, che c’è ma fatica a dirsi in prima persona. Il film autorizza a pensarsi fuori dal tessuto connettivo che appartiene alla logica della quotidianità, e l’autorità femminile che esiste nel mondo ha qui un’autocoscienza che stiamo ancora aspettando che ci venga raccontata dalle sue interpreti nel mondo reale. L’autrice invece gli dà rappresentazione, è una figura dell’amore. Infatti quel qualcosa che tiene insieme le storie che Milli racconta è la traccia dell’amore fra donne, dell’eros, del “costant craving”, la brama costante, come canta KD Lang nella sua canzone.

Ho scritto un saggio “Non solo Lword. La comunità femminile fra immaginario e realtà nel cinema, nel teatro e nella letteratura delle donne” (in “Riflessioni critiche sul femminismo contemporaneo” a cura di Rossella Pisconti, Limina Mentis, 2014) per spiegare anzitutto a me stessa come fosse rappresentata la comunità femminile. Ma sento il bisogno di tornare a pensare alle opere di Milli, mia amica, mia regista, donna che sostengo e stimo perché voglio dire che è l’amore il motivo più interessante dei suoi film, la dismisura del coinvolgimento amoroso fra le donne, le “cattedrali di luce nel cuore” (B.Lauzi) che smobilitano le oggettivazioni scontate. “Ma esiste poi un amore aggettivabile? Filiale, sororale, amicale, coniugale, passionale-ogni aggettivo sembra togliere qualcosa alla misteriosa complessità dell’amore” (Margherita Giacobino, “Ritratto di famiglia con bambina grassa”, 2015 e book pos. 2868). L’amore ha le sue congiunzioni astrali fatte a volte di amicizia, altre di sensualità, di autorità e rispetto, ma sempre sono ostinatamente rivolte a riprodursi.

Le storie di Milli sono ben girate, ben raccontate, ben montate. Tutto questo non basterebbe a estrarle dal filone in cui modestamente vanno a mettersi: il fantasy. Non per deprezzarlo, ma per non ripiegare queste storie dentro a un genere, collocazione che può essere anche fuorviante, penso che siano assai di più e stiano oltre i generi. Nonostante sia proprio in questa costruzione fantastica che Milli prende l’ispirazione per scrivere e poi per girare e dirigere un notevole cast con la sua troupe. È una scelta che anzitutto va rispettata. Il fantasy è un genere pregevolissimo come abbiamo visto nella saga del “Signore degli anelli”, però non lo capiscono in molte e molti che pensano non li riguardi, perché sono adulti e prima ancora di vederlo sono convinti di annoiarsi. Mi capita che due amiche che non frequento mi dicano che le relazioni fra donne le annoino. Tacitamente questa affermazione vuole dire: mi diverto più con gli uomini. Nella mia esperienza c’è una narrazione della vita che ho ricevuto da mia madre, le mie nonne, dalle scrittrici della mia infanzia con cui ho sempre fatto i conti, accettandola o rifiutandola magari distanziandomene. Poi nel movimento delle donne ho trovato la grande scommessa di darci le parole dell’esperienza nel momento in cui la stavamo vivendo. Ho capito che cosa c’è “fra la pelle e l’anima” (Paola Molgora “Drago alato”). E abbiamo costruito un pensiero, indipendente. Infatti con quel discorso pensato abbiamo criticato la scienza, la letteratura, l’arte, la storia, rigenerandole, non solo per noi donne.  Non abbiamo certamente avuto il tempo di annoiarci. Nei film di Milli c’è questa relazionalità di donne che non si annoiano perché corre fra di loro la tensione dell’amore per le altre, per il progetto di comunità, per la politica, per una donna. È la dismisura di quest’amore che chiede di essere raccontata alterando il principio di realtà, armando la fantasia che attraversa il reale non per nasconderlo ma per dargli una visibilità inedita.

Alcuni film buoni o meno buoni hanno uno sguardo romantico che li conduce alla storia d’amore dove la relazione fra donne ha una traccia che, a volte, è quasi insostenibile: è la copia della coppia eterosessuale. Lo sguardo ironico di Milli non si è mai adeguato a questa rappresentazione, nei suoi film ogni scena d’amore è sempre assolutamente comica. Però c’è e non si può non farci i conti. Non è possibile non vedere l’eros, non sentirsi coinvolte e pensare anche solo per un attimo, mentre ridiamo di cuore, che non è mai troppo tardi per dire: in questo racconto “voglio esserci anch’io”.

Mi dispiace che queste pellicole, alle quali partecipo dal 2010, ma che Milli sta girando da decenni, non abbiano un corso riconosciuto nei festival. Qualcosa fa ostacolo. Certamente c’è della incompetenza da parte di chi li organizza, una mancanza di autonomia, uno sguardo non abituato a vedere se non attraverso immagini diciamo di ‘repertorio’. Non aveva questi pregiudizi Luki Massa, precocemente scomparsa, che aveva proiettato l’opera di Milli nel festival da lei fondato “Some prefer cakes”. Ci è stato detto che questi festival privilegiano le pellicole straniere. E mi è anche stato detto che questo avviene perché in Italia di donne che fanno cinema -dove si parli delle relazioni fra donne- non ce ne sono. Ho parlato dei film che facciamo con Milli, già proiettati negli anni passati, appunto. Ma non ho più ricevuto parola. Mi auguro che qualcosa cambi.

L’opera di Milli non ha certo bisogno di una mia difesa. Voglio dire però che questo punto di vista sui titoli stranieri preferiti nei festival italiani mi ha richiamato la mia adolescenza. Quando facevo le medie, eravamo tutte donne, e ascoltavamo la musica italiana. Poi sono andata al liceo e è esploso il fenomeno beat. Sono arrivati i Beatles e con le amichette, accompagnate da mio padre, andammo al concerto dei Rolling Stones, allora poco più che ventenni, al Palalido. La musica italiana non esisteva più. Ignoravo allora i bravissimi musicisti italiani, penso alla Scuola dei cantautori genovesi, di quelli, fra noi adolescenti, si salvava Fabrizio De Andrè. A stento riconoscevamo ma con diffidenza una grande Caterina Caselli, ci piaceva Nada ma non avremmo mai comprato un suo disco, era impossibile sottrarsi al fascino di Patti Pravo, ma nessuna lo diceva.  Forse non c’entra molto, anzi non mi piace paragonare i film di Milli a “Il cielo in una stanza” di Gino Paoli, quando lei stessa da vecchia hippy adora la musica pop dai Deep Purple a Kate Bush, però ho il sospetto che nelle giurie dei festival delle donne ci sia, fra gli altri, anche un atteggiamento esterofilo. Guardare all’estero non è solamente un sano sguardo aperto oltre casa propria è, anche, accettare un fenomeno di mercato. Il circuito dei festival si palleggia i titoli, accettandone alcuni e ostentandoli mentre ignora molti altri. Purtroppo in questo modo ci troviamo di fronte una tappa bruciata che viceversa darebbe una visibilità più ampia, una recettività critica, un’apertura di dialogo che sollecitando la creatività di altre produrrebbe nuove opere. Le idee quando ci sono vanno discusse, fatte girare, messe in parola e immagini.

“Il sentiero dei draghi” il film di Milli Toja presentato in prima visione nel 2018 è ora disponibile sulla rete. Su You Tube trovate l’intero film in 12 episodi di 10’ https://www.youtube.com/playlist?list=PLTMwSJbQkNDp8OhKgzQA7KBYed7aSgSaT

L’intero film è su Vimeo https://vimeo.com/253386273segnalato, come tutti gli altri film di questa regista, sul sito della Galleria delle donne Sofonisba Anguissola http://www.galleriadelledonne.org

 

Cinema, Immagine storia: Su “A quiet passion” di T. Davies: oscuramenti di non poca importanza in un grande film

pubblicato da Donatella Massara il 24 giugno, 2018

A proposito del film “A quiet passion” di Terence Davies, 2018 su Emily Dickinson un grande film con oscuramenti di non poca importanza.
Ieri l’ho visto non riesco a credere che sia riuscito a fare quasi del tutto sparire la relazione fra Emily e Susan la cognata. Addirittura il regista ha inventato che fanno conoscenza dopo il matrimonio con Austin il fratello di Emily!!! Invece probabilmente si erano conosciute ai tempi della scuola e avevano un’amicizia che fa pensare a un intreccio amoroso. Poiché Susan era povera inventano questo matrimonio per stare vicine. Poi Austin la porta via e ritorneranno con un figlio. Tutto troppo difficile per Terence Davies che scrive la sceneggiatura e riduce a quello che vedrete. Mi affido per questa lettura a Milagros Garretas Rivera grande storica femminista spagnola fondatrice di Duhoda all’univ di Barcellona che ha tradotto in spagnolo tutte le poesie di Emily. E ha visto molti aspetti taciuti o ignorati in biografie della Dickinson. Fra cui anche la relazione quasi forse chissà incestuosa con Il fratello. Il riferimento bibliografico è E.D. Poemas v.1,2,3 edicion bilingue, Sabina editorial, 2012 sgg. Detto questo il film ha una Stupenda fotografia e regia che da’ il ritmo di un’altra epoca precisissimo di dettagli d’epoca e anche semplice allo stesso tempo molto serio con molte citazioni delle sue poesie girato quasi sempre con primi piani o campi medi con qualche lento spostamento di macchina e piani sequenza che arrivano al momento giusto molto bravi gli interpreti Davies non smentisce di essere un grande regista però vorrei che le donne ci avessero lavorato e ne avessero avuto la voglia e la forza!!

Articolo sull’origine del personaggio di Wonder Woman di Ileano Bonfà

pubblicato da Donatella Massara il 8 giugno, 2018

https://doi.org/10.5281/zenodo.1254050

 

Ricevo la segnalazione e volentieri pubblico


“Nell’articolo viene descritta la creazione del personaggio dei fumetti Wonder Woman da parte dello psicologo William Moulton Marston negli anni ’40 del ‘900. Le radici ideali del personaggio Wonder Woman si possono rintracciare nel femminismo americano degli anni dieci-venti del ‘900.”

LIBRI, Recensioni: Pinella Leocata legge Luciana Tavernini, Marina Santini, “Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua”, Il Poligrafo, 2016

pubblicato da Donatella Massara il 12 maggio, 2018

Mia madre femminista. Una storia del femminismo italiano

di Pinella Leocata

Una storia del femminismo italiano scritta da due donne che hanno trasformato in metodo storiografico le pratiche del femminismo. “Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua” (Il Poligrafo) è un testo insolito che cattura ed emoziona perché è un libro di storia, ma allo stesso tempo è un racconto di vita e di vite, a partire da quella delle due autrici. Marina Santini e Luciana Tavernini – docenti, da sempre impegnate nelle attività della Libreria delle donne di Milano e della Comunità di storia vivente – narrano la nascita e il procedere del femminismo seguendone le tappe storiche, ma lo fanno a partire da sé, con una cronologia al femminile e con una scrittura soggettiva che usa il linguaggio parlato e sessuato.
Un testo importante per le più adulte, per ripercorrere la propria storia, e soprattutto per le più giovani che potranno partecipare dello spirito del tempo e trarne spunto per nuovi sviluppi.
Il testo segue due percorsi che s’intrecciano. C’è la storia del femminismo che si sviluppa nel tempo e per argomenti – le parole per dire la novità della nuova coscienza delle donne, il corpo, i luoghi fisici e culturali di crescita, il lavoro – e ci sono le storie di donne in carne e ossa, ognuna delle quali racconta il momento in cui ha avuto inizio il proprio percorso di consapevolezza e di cambiamento.
Una storia corale, dunque, una storia di donne, al plurale, per ribadire che “non c’è un modo di essere donna e uomo, ma il senso libero della differenza, a partire da sé e dal dialogo tra le donne”. Questa è stata ed è l’autocoscienza, “il trasformare il parlare tra donne, il chiacchierare tra noi che c’è sempre stato, in atto pubblico e dunque politico”. Come ad esempio sta avvenendo oggi con la campagna #meetoo contro le molestie e il ricatto sessuale sul lavoro. “Un movimento rivoluzionario perché problematizza la questione facendo diventare le denunce azione politica. Ed è una presa di coscienza del fatto che il danno è grave, inammissibile, e richiede tempo per essere elaborato e denunciato”.
“Mia madre femminista” narra – nella forma di uno scambio epistolare tra una madre e una figlia che ha sofferto delle sue assenze per l’impegno politico – la storia delle tante conquiste delle donne, conquiste che hanno trasformato la nostra società sul fronte della legge e dei diritti civili (divorzio, aborto, stalking, stupro, finalmente reato contro la persona e non contro la morale), ma anche su quello delle pratiche e della cultura, dalla costituzione dei consultori e degli asili autogestiti, ai primi centri antiviolenza, alla rete di case protette, ai luoghi delle donne, alle librerie, alle riviste, ai festival cinematografici e teatrali… Processi di un cambiamento culturale di lungo periodo basati sull’ascolto di sé in dialogo politico con altre donne in relazione, nell’autocoscienza, a partire dal riconoscimento di essere parte di una genealogia femminile, e dunque della centralità del rapporto con la madre.
Nel corso di un incontro tenutosi a Catania, alla libreria La Fenice, promosso da La Città Felice le autrici hanno sottolineato come “La nostra origine è duale. Nasciamo tutti da una donna, e la forza del femminismo è nella relazione duale”. Di qui l’importanza del rapporto di sorellanza e soprattutto – dopo avere “sperimentato negli anni come questo può appiattire, e rischia di diventare disgregativo” – del rapporto di affidamento. “Abbiamo capito che bisogna ripartire dall’autorità, dall’affidarsi di ognuna ad un’altra donna grazie alla cui autorità crescere. Autorità non significa potere, ne è il contrario positivo, tanto che il nostro motto è ‘il massimo di autorità con il minimo di potere’. Sono io che scelgo una donna come punto di riferimento e lo rendo pubblico perché l’autorità necessita e presuppone un riconoscimento pubblico”. Un approccio lontano dalle politiche volte a rivendicare l’uguaglianza cui, invece, viene opposta la cultura della differenza considerata come il cuore della generatività fisica e culturale. “Per generare occorre una differenza, un’alterità. Quando le donne vogliono essere eguali agli uomini peggiora la vita di tutti, mentre bisognerebbe partire da sé, dalle differenze, anche per ottenere condizioni più rispettose dei bisogni collettivi”.