Donne e conoscenza storica
         

Immagine-storia

 

A letter without words di Ella e Lisa Lowenz USA, 61',1998

di Donatella Massara

 

Se non avessi la certezza che The letter without words è autentico, sarei contenta comunque di saperlo esistente; pur sapendo che è un falso, un mockumentary, non una testimonianza storica, mi sembrerebbe una straordinaria invenzione.

E' veramente accaduto, però, che una ricca signora ebrea dopo avere ricevuto in regalo, alla fine della prima guerra mondiale, una cinepresa amatoriale non volesse più staccarsene. E come molti e molte che hanno amato il linguaggio delle immagini abbia continuato a usare il mezzo da lei preferito, il super8, con riprese in bianco nero e a colori; fino alla fine della sua vita ha animato una lingua speciale, quella delle immagini, dove le cose vengono percepite anzitutto per il desiderio di trasmetterle nel tempo, conservarle, spingerle oltre sè perchè non ne venga dimenticata la bellezza, la drammaticità, la verità storica.
Ella Lewenz nata Arnhold lascia anche lei i fotogrammi girati pochi giorni prima della sua morte. La nipote Lisa li ha messi alla fine, in chiusura del documentario, richiamandosi al momento in cui la vita ricomincia perchè qualcuno riprende le cose che non abbiamo finito. Sono immagini a colori di bianchi uccelli e uno con le ali spiegate è ripreso mentre si alza in volo.

E' Lisa che ha raccolto l'eredità della nonna. Docente di arti visive, è stata aiuto-regista di Katherine Bigelow, è nota e premiata negli USA. E' questo fino a oggi il suo unico film. Appena esce, nel 1998, vince il Gran premio della Giuria al Sundance Festival. Il film è stato distribuito in centinaia di luoghi, università, televisioni, festival, rassegne, in USA, Germania, Israele e chissà ancora dove. In Italia è pressochè sconosciuto, nonostante sia stato selezionato anni fa per il festival di Cannes. Forse prima di ogni altra considerazione, il film racconta la presenza costante delle donne nella storia del cinema, sceneggiatrici, costumiste, montatrici, truccatrici, scenografe ma anche e fino dall'inzio sono state registe, e, come Ella Arnhold Lewenz, creatrici di cinema indipendente.

Secondo alcune critiche The Letter without words racconterebbe solo la storia di una famiglia. Come esistesse invece una storia, che non è questa, capace di entrare nello spazio di un fotogramma per raccontare la storia collettiva. Affermare una simile stupidaggine è non tenere in alcun conto la caratteristica altamente simbolica delle immagini, della fotografia, del cinema. Non basta avere la pretesa di raccontare la storia di tutti per ottenerla. La storia che ci raccontano nelle scuole ha questa pretesa eppure ha nascosto la storia delle donne oltre a quella di popolazioni intere. Guernica di Picasso noi riconosciamo che racconta la storia di una tragedia collettiva primo perchè è avvenuta, poi perchè l'intenzione dell'artista era di rappresentarla e solo dopo queste anticipazioni vediamo l'arte testimone di fatti storici. The letter without words è un film che parlando di una donna e della sua famiglia attraverso la ripresa cinematografica aggancia, a volte con molta decisione, gli eventi di più di quarantanni di storia. Chi faceva le riprese aveva intenzione di trasmettere una storia, quella di un periodo storico e di mettercisi dentro, insieme al resto della sua famiglia.

Nel film ci sono fatti raccontati con le immagini e commentati, a volte, anche dal diario e dalle lettere di Ella. Lisa Lowenz li ha ritrovato anni dopo avere scoperto i filmini. Tenendo conto che Lisa ha lavorato solo su alcuni materiali anche molto rovinati, e che sono solo una parte di tutti quelli che probabilmente la nonna aveva girato, il risultato è un ottimo lavoro. Già mostrare come lei si muoveva, quali scelte faceva nelle riprese e in alcuni casi quali montaggi avesse organizzato dice molto. Ci sono le riprese sulla Notte dei cristalli, sui roghi delle vetrine dei negozi ebrei, sui fascisti che sono arrivati a Berlino insieme a Mussolini, accolti trionfalmente da Hitler, sui cartelli che dicevano ebrei andatevene, sulla piscina che il padre di Ella, Gerhard Arnhold aveva regalato alla città di Dresda, pagandone pure il mantenimento. Una piscina pubblica nella quale, come in tutte le altre non avrebbero più potuto entrare, in quanto ebrei. Altrettanto descrittive sono le riprese di Ella sul camion, uno dei sei, che porteranno via tutti gli arredi, incamerati dai nazisti, che servivano alla vita nella villa appena fuori Berlino. Vediamo persone che spazzolano tappeti prima di metterli via, Ella li sta riprendendo.

E' giusto però chiedersi che cosa ha a che vedere con la storia della Shoah, un film che non racconta la prigionia, l'orrore, e non suscita in noi la sconfinata e assoluta tristezza dei campi di sterminio. Il film è una rappresentazione della storia ebraica. Non facendo vedere il peggio, non lo copre, lo evoca, con una drammaticità che è altrettanto forte, forse più incisiva delle immagini nude e crude. Non mostra l'orrore, ci obbliga a ricordarci che c'è stato. E' come il lato di una effige che non puoi vedere senza voltarla. Descrive un gruppo di famiglia che a distanza di sessantanni può dire: noi, in realtà, non volevamo sapere quello che stava accadendo, non ne parlavamo, forse ce ne vergognavamo, speravamo, con tutto quello che avevamo fatto per la Germania, che ci saremmo salvati. E' triste anche accorgersi di questa indifferenza che esplode, diventando rabbia impotente e obbligo a andarsene per potersi salvare. Una delle preminenti famiglie della Germania del Reich millenario nel 1938 abbandona tutto quello che possiede. Dopo avere perso la cittadinanza, l'accesso a scuole e università tedesche, il diritto a esercitare le professioni, paga l'espatrio con tutto quello che le è rimasto elargito in mance e tasse. Erano stati banchieri dal tempo di Bismarck, industriali dei telefoni - una tecnologia allora di avanguardia ! -, e pacifisti. Ella era oltre che madre di sei figli una colta collezionista d'arte, studiosa dell'esperanto, poi proprietaria, fra le altre, di una splendida casa appena fuori Berlino e che adesso viene usata dal Municipio per celebrare i matrimoni e conservare l'anagrafe. Tutto ciò sparisce con la salita al potere di Hitler. Delle sue scelte e di quelle dei suoi famigliari non rimane più altro che l'identità razziale. E' anche contro questo azzeramento che si batte il film di Lisa. Vedendo le immagini di queste donne che sono state giovani, ricche, belle e felici, abbiamo piacere di ritrovarle vecchie a raccontare la loro storia.

C'è però di più e se per noi che seguiamo la politica della differenza è normale accogliere la genealogia femminile, è molto interessante trovarsi improvvisamente davanti a questo approccio. Fa pensare che viva nel mondo della cultura femminile il desiderio di rileggere la storia dal punto di vista delle donne, facendo e rifacendo quella che proprio le americane, hanno definito, anni fa, herstory, la storia di lei. Ella e Lisa diventano l'una per l'altra compagne di questa ricerca. Lisa dice: <<senza che abbia mai conosciuto la sua voce lei mi ha accompagnata dentro a una storia che non avrei mai immaginato, come una partner silenziosa ha lavorato al mio fianco>>. C'è quindi nella regista lo sguardo sulla nonna a cui ritorna, dopo ogni divagazione extra. E' lei che costruisce tutto il suo racconto. La regista afferma -alla fine- che il progetto di conoscere chi era Ella è fallito, <<lei rimane una presenza elusiva>>, <<lo specchio di me stessa>>. Ella e Lisa sono l'una per l'altra quasi la stessa persona, però la ricerca c'è stata e appassionata e noi la possiamo vedere nel suo film..

L'immagine- storia ci arriva attraverso le immagini che Ella ha lasciato in eredità. Testimoniano di un'epoca con il suo lascito del Male e chiedono di essere rielaborate, non rimosse. Vediamo cartelli affissi all'ingresso dei parchi dove l'amministrazione pubblica ordinava parallelamente: "di tenere al guinzaglio i cani e a chi appartenente alla razza ebraica di sedersi sulle panchine contrassegnate con la "J" (Jude)". Ci sono poi le immagini dell'America, il mare durante il viaggio in nave, nel 1946 anche Ella diventerà cittadina americana, c'è il sole; ci sono le spiaggie, i palazzi moderni e le scene di un carnevale molto diverso da quello delle riprese europee di anni e anni prima in Germania. Ci sono però anche le immagini di queste donne giovani, con i loro gesti inaspettati, la loro dolcezza, le risate, la loro spigliata decisione e fra loro c'è anche l'amica tedesca, che aveva mandato le rose alla figlia di Ella quando era stata espulsa da scuola. Una delle poche tedesche che avesse osato parlare a voce alta.

Appartenenti al presente ci sono le testimonianze dei parenti della regista. Figlie e nipoti di Ella raccontano che cosa ricordano di quegli anni e come vivono la loro storia ebraica mai praticata nella religione. Dorotea, la più giovane è l'unica rimasta di religione ebraica; le altre e gli altri, come Wolfgang, il padre di Lisa, hanno giudicato meglio rinunciare a identificarsi in una religione e a trasmetterla a chi viene dopo di loro. Ma Lisa Lewenz non è d'accordo. Conclude il film dichiarando che infine ha capito che è questa la sua storia e sentiamo che rimpiange di non avere avuto, fino dall'inizio della sua esistenza, anche lei la sua parte.