Donne e conoscenza storica
         

Rassegna Stampa

sta in Il manifesto 13,3, 2004

Le ragazzine iraniane dal futuro irriverente
«Dream of silk», il sogno di seta di Nahid Rezaei. La regista, che vive in Francia, è tornata nella sua ex scuola
Non solo Iran Passa al festival anche «In the dark» di Sergej Dvortesvoj, che racconta la solitaria esistenza di un anziano cieco che fabbrica borse di corda per la spesa, in una Mosca contemporanea chiusa nella morsa dell'indifferenza
C. PI.
PARIGI

 



Qual è la forma possibile del fare documentario? Indagine del mondo, ricognizione personale, forma possibile per raccontare la globalizzazione, il documento contemporaneo - nelle immagini che scorrono sui tre schermi di Cinéma du réel - se da una parte è terreno privilegiato in cui dare forma a una storia del mondo invisibile nell'informazione o nel reportage televisivo, dall'altra soffre dell'ingombrante presenza di un format, la tv appunto, rispetto al quale lasciare libera invece una narrazione emozionale che sperimenti linguaggi. «Non volevo fare un reportage, mi interessava quella storia e quella situazione» è la risposta di Sergej Dvortesvoj a chi gli chiede i motivi di una scelta, nel suo In the Dark - Al buio -, forse tra i film migliori visti al festival (produce col regista l'intuito di Jane Balfour) che segue il presente di un anziano signore, cieco, solo, unico compagno una splendida gatta bianca, che per sentirsi meno inutile fabbrica delle borse di corda per la spesa. Siamo a Mosca, periferia medio-borghese, quelle borse ricordo di altri tempi non le vuole nessuno, ora c'è la plastica e l'anziano signore torna a casa e piange. Ma ricomincia, estate, autunno, inverno coi suoni della strada, le urla dei ragazzini della scuola di fronte che entrano nell'appartamento, povero, pieno di oggetti. Lui e il gatto litigano, il gatto gli ruba i gomitoli, il regista talvolta entra in campo per aiutarlo, l'uomo lo chiama, gli chiede di filmare il gatto, gli chiede se sta filmando... Dvortsevoj nulla ci dice della sua «storia» né perché è cieco, né cosa faceva prima, inquadra una foto di lui che ancora vede insieme a una donna, forse la moglie, non gli chiede di eventuali figli, di raccontare la sua vita. E qui sta l'emozionalità del film, centrato su un quotidiano rituale, ripetitivo nel quale si intuiscono alcune cose, l'indifferenza violenta di Mosca, la frenesia dei soldi, la miseria, la solitudine. Gli altri corrono con le buste di plastica ma forse come qui tra qualche anno quelle vecchie sportine saranno molto fashion, a Parigi le vendono colorate - made in India ma griffe di tendenza - e costano un sacco, chissà se al vecchio signore farebbe piacere saperlo, lui che in strada le regala addirittura. Non ci sono i primi piani col flashback in cui si spiega, un limite diffuso in molti dei film visti questi giorni.

Iran oggi. È il suo paese e dopo vent'anni Nahid Rezaei, documentarista che vive in Francia, torna nella scuola dove è cresciuta. Alle ragazzine, tutte vispe, irriverenti, che siedono nei suoi ex-banchi sempre uguali chiede: «come immagini il tuo futuro?». Qualcuna vuole andarsene, c'è chi sogna di fare l'ingegnere, chi l'astronauta, chi di trovare un marito ricco, chi di essere semplicemente felice che non vuol dire marito, figli, soldi ma forse essere libera di scegliere. Una vuole essere uomo e dice di avere amato una compagna di scuola. Tutte vorrebbero andare all'università. C'è una banda di bad girl che nasconde lo specchietto, i capelli volano dal velo e pian piano, nella confidenza che cresce, le parole di queste ragazzine dirette e taglienti ci dicono di un Iran che preme contro gli integralismi, qualcuna crede in Khatami, altre sono deluse, tutte rifiutano quella società dove gli altri, dio, il padre, i fratelli, il marito, i maschi insomma decidono per loro. E ridono dei professori che le puniscono se trovano gli specchi, che è male guardarsi, che le obbligano a mangiarsi le unghie che devono essere cortissime, che vietano il diario con le foto dei calciatori. «Io rido pure se dicono che ridere è da donnaccia» dice una. Ridono di quella sofferenza che rifiutano, combattono, che non farò mai dei figli se devono subire quello che ho subito io, dice un'altra. E un'altra ancora: «il mio futuro? se penso che potrebbe esserci la guerra, che gli Stati uniti potrebbero bombardarci che futuro posso immaginare?».

L'Iran lo vogliono cambiare così nessuno sul satellite - che tutti guardano - può parlarne più così male. E per loro, naturalmente, per essere libere di vivere come dappertutto. Lei la regista racconta che aveva più utopie, c'era stata appena la rivoluzione, loro di quel momento vorrebbero il vero spirito, un futuro migliore. Tutto questo, lezione Kiarostami, è Dream of Silk, Sogno di seta, una canzone che se in Iran ci fosse sarebbe nel corrispettivo di Sanremo e che le ragazzine sanno a memoria e cantano... Prima della proiezione qualcuno distribuisce l'invito - al festival dei diritti dell'uomo dal 17 - per Iran: resistenza di un popolo oppresso di Jamshid Golmakani, inchiesta sull'assassinio di alcuni intellettuali dissidenti a Tehran nel 1998.

Dream of Silk nella sua leggerezza, senza dichiarazioni d'intenti ci dice moltissimo sull'Iran oggi contro i luoghi comuni, e in presente in movimento che sono quelle ragazzine consapevoli e vitali, forza incredibile che per questo fa paura dentro e fuori come i riformatori, immagine poco commerciabile nei propositi di guerra, che va nascosta e che invece è il solo futuro possibile.