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Il manifesto - 8 Marzo 2003

Gerusalemme, checkpoint e viceversa
Presidi ai posti di blocco per limitare gli abusi e i maltrattamenti contro i palestinesi. Così le donne israeliane di «Machsom Watch», un gruppo aderente alla rete «Coalition of Women for Peace», esprimono la loro protesta contro l'occupazione e si schierano in difesa dei diritti umani. A cominciare da quelli del popolo iracheno. Parla Daniela Yoel
IAIA VANTAGGIATO

Si chiama «Coalition of Women for Peace» la rete israeliana intorno alla quale si raccolgono numerosi gruppi di donne impegnate contro l'occupazione. Della rete fa parte anche «Machsom Watch», un gruppo nato a pochi mesi dall'inizio della II Intifada e della durissima risposta israeliana: assedio della Cisgiordania, violazione dei diritti dei palestinesi, abusi e maltrattamenti ai checkpoint. A prendere l'iniziativa, nel gennaio del 2001, sono solo in tre: Ronnee Jaeger, una attivista con esperienza di difesa dei diritti umani in Guatemala e Messico, la docente femminista Adi Kunnstaman e una ebrea ortodossa, Yehudit Keshet. Oggi le donne di «MW» sono già un centinaio, lavorano per lo più nella zona di Gerusalemme ma nuovi gruppi si stanno formando nel resto del paese. Medesimi gli obiettivi: monitorare i comportamenti di militari e polizia ai checkpoint, diffonderne i risultati e cercare - dove possibile - di assicurare il rispetto dei diritti dei palestinesi. A «Machsom Watch» ha aderito Daniela Yoel, «israeliana, sionista, religiosa e patriota», come lei stessa si definisce.

Lei vive in una condizione di guerra quotidiana. Come vede l'avvicinarsi del conflitto in Iraq?

Non mi fido né di Bush né di Sharon. Non mi fido perché non credo che le ragioni dell'attacco all'Iraq siano quelle da loro sbandierate: la democrazia, la sconfitta del terrorismo. Da noi c'è il sospetto che Sharon voglia servirsi di questa guerra per allontanare il numero maggiore possibile di palestinesi da Israele.

Pur avendo sempre militato in gruppi religiosi di sinistra, due anni fa, ha deciso di entrare in «Machsom Watch». Come mai?

Negli ultimi tempi - proprio i più difficili - quei gruppi non mi sembravano più veramente radicali. Dopo l'inizio della II Intifada - come molte altre donne in Israele - mi sentivo profondamente frustratata e impotente. La passeggiata di Sharon sulla Spianata delle Moschee mi aveva riempita di rabbia come pure le bugie di Barak che continuava a ripetere di aver offerto ai palestinesi tutto il possibile.

Ma c'è chi sostiene che «i palestinesi non abbiamo perso occasione di perdere occasione».

Anche i palestinesi hanno la loro parte di colpa ma noi continuiamo a essere più forti, siamo occupanti a tutti gli effetti e ciò significa che la responsabilità maggiore è ancora la nostra.

E così ha deciso di «presidiare» i checkpoint.

Dietro la mia scelta ci sono soprattutto ragioni personali. Mia madre e gran parte della mia famiglia sono stati sterminati a Treblinka, degli altri non ho mai saputo più niente. Ho sempre ripensato a quella loro sofferenza anonima, una sofferenza che nessuno ha mai guardato. E ho capito che anche se ti trovi nella situazione di non poter veramente aiutare qualcuno, puoi sempre guardare, vederne la sofferenza. Non voglio dire che ciò che è accaduto durante la Shoà sia uguale a ciò che accade ai checkpoint. Ma la sofferenza è la stessa. Dare gli occhi, lo sguardo: questo mi ha insegnato la Shoà.

E' stata, dunque, la memoria della Shoà a farla schierare in difesa dei diritti umani?

C'è anche altro. Sei anni fa, una donna palestinese che dopo nove anni di cure contro la sterilità era rimasta incinta di due gemelli e stava per partorire, venne bloccata dai militari israeliani a un checkpoint. Partorì lì, ma i bambini non ce la fecero. In quelle stesse ore la moglie di mio figlio metteva al mondo due gemelli. Capisce? Io ho due nipoti che oggi hanno sei anni e non posso non pensare a quella donna. Se fossi stata lì avrei forse li avrei potuti salvare.

Non crede che i checkpoint possano costituire una difesa contro gli attacchi kamikaze?

Lei crede che i kamikaze facciano la fila ai checkpoint? Quei posti di blocco non servono affatto a garantire la sicurezza ma solo a metterla in pericolo perché attizzano odio e rancore. Impedire alla popolazione civile la libera circolazione è solo un abuso. Ma ai militari hanno fatto il lavaggio del cervello: loro credono che i tutti i palestinesi siano assassini. Si tratterebbe, per l'esattezza, di tre milioni e mezzo di assassini. Vede, io sono israeliana, sionista, religiosa e patriota. Il mio paese è qui e qui voglio vivere. Ma una cosa è difendere l'autonomia di Israele che ha tutto il diritto alla legittima difesa, altro è difendere le usurpazioni di cui Israele è colpevole. Questa guerra non serve a difendere la nostra casa ma solo i coloni.

Cosa accade, esattamente, ai posti di blocco?

I palestinesi, per passare, devono avere una cartà di identità che - se israeliana - a volte funziona ma che non ha valore se è palestienese. In quel caso c'è bisogno di un'ulteriore carta che va rinnovata mensilmente. I soldati la vedono, la prendono e la conservano per ore. E i palestinesi aspettano per ore. «Ne esaminiamo quante ne vogliamo», ci hanno risposto i militari una volta che abbiamo chiesto di accellerare i tempi. Ma il tempo dei palestinesi - per i militari - è diverso dal nostro. Al checkpoint si può morire, avere un infarto ed essere lasciati per terra, aspettare per ore sotto la pioggia il trasbordo obbligatorio da un'ambulanza all'altra. Era una donna anziana e me la ricordo ancora. Cosa c'entra tutto questo con la sicurezza?

Quanto serve veramente la vostra presenza?

I palestinesi dicono che quando ci siamo noi c'è meno brutalità e questo è già abbastanza. Inoltre, quando siamo lì, raccogliamo documentazione, ascoltiamo le loro storie, a volte riusciamo persino ad aiutare qualcuno.

Deve trattarsi di una esperienza particolarmente intensa dal punto di vista emotivo...

Andare al checkpoint è estremamente faticoso. A volte torno a casa e la notte non riesco a dormire. Come si fa? Durante il giorno hai visto solo arbitrio e cattiveria superflua. Un giorno una giovane palestinese mi disse: «Guarda questo soldato, pensi che stasera sarà capace di accarezzare sua moglie?». Noi non stiamo solo facendo male ai palestinesi, stiamo rovinando i nostri figli, le loro famiglie. Altre donne. Nessuno potrà più vivere in modo normale.

Come siete organizzate?

Ognuna di noi ha il «suo» checkpoint. Io sono a Gerusalemme ma tutte sappiamo bene che nei Territori il livello di brutalità è più elevato.

L'opposizione a Sharon, in Israele, è molto forte, assai più di quanto non appaia all'esterno. Eppure le forme di protesta scelte dagli uomini sono assai diverse dalle vostre. Come lo spiega?

Noi siamo tutte donne, ma se ci fossero anche uomini disposti a venire ai checkpoint ne saremmo ben contente perché il nostro scopo è di di far sapere a tutti quello che succede. Ma il fatto che siamo donne allenta di molto le tensioni. E non perché siamo donne ma perché non siamo uomini. Quando due gruppi di uomini si fronteggiano non è più il cervello a guidarli. Certo, neanche noi veniamo trattate con particolare riguardo. Mi raccontava ieri una donna del nostro gruppo che al loro arrivo al checkpoint di Kalandia sono state accolte con particolare ferocia. «Puttane, puttane, puttane», per tre volte l'hanno ripetuto. E mi fa male pensare che non erano soldati ma soldatesse.

A lei non era mai successo?

La maggior parte di noi sono donne mature. Tuttalpiù ci urlano «sono arrivate le nonne, sono arrivate le zie». Hanno ragione, ma quell'espressione è gratificante: durante la guerra del Libano fu il movimento delle «Quattro madri» che riuscì a far evacuare l'esercito israeliano.

L'appartenenza politica pluralista caratterizza «MW» come pure l'eterogeneità delle biografie...

Sì, tra di noi ci sono donne della sinistra estrema come pure del centro. Ma tutte, allo stesso modo, ritieniamo inaccettabile questa situazione. A prescindere dalle nostre differenze, noi siamo la «società», questa società. E vogliamo vedere ciò che ci dicono viene fatto anche in nostro nome e in difesa dei diritti. Non certo i checkpoint, allora, che di quei diritti sono la negazione più assoluta. Per me «MW» ha rappresentato l'opportunità di conoscere donne coraggiose e intelligenti, anche se diverse da me.

Qual è la sua storia?

Sono nata e cresciuta con quelli che oggi sono i capi dei coloni: questa è la mia tragedia più grande. Le mie amiche e miei amici di sempre sono di destra e giustificano la politica di Sharon che io - come religiosa - considero un crimine inaccettabile. Così vivo una vera crisi: da un lato non vorrei rinunciare alle mie amicizie ma dall'altro - quando non si condividono gli stessi valori - di che amicizia si può parlare?

Parla mai di politica con loro?

La politica è bandita dalle nostre conversazioni ma poiché, in Israele, tutto è politica ad essere bandite sono le conversazioni stesse. Forse, raggiunta la pace sarà diverso. Eppure è strano: politicamente sono schierata e lavoro con le donne di sinistra ma la mia biografia è tutta legata a quella di gruppi religiosi. Sa che vuol dire? Che poiché mangio kosher, con le persone con cui parlo non posso mangiare e con quelle con cui mangio non posso parlare.

Nessuno - tra i suoi amici coloni - le chiede della sua esperienza?

Nessuno di loro vuole sapere ma, del resto, questo è un problema tipico della società israeliana che ancora non sa quante persone innocenti sono state uccise a Gaza. Fa impressione: c'era un altro popolo e un altro Paese che non voleva conoscere la realtà che lo circondava.

E' un richiamo al valore della testimonianza?

E' un richiamo a un dovere che sento verso me stessa. Diciamo pure che lo faccio per me, per non dover restare senza parole quando i miei nipoti mi chiederanno «Nonna, dov'eri?», per poter dire che c'ero e che c'ero contro tutto quello che qui accadeva. Ma anche per dire ai palestinesi che esistno israeliani che vogliono pace e convivenza. E che rifiutano la brutalità.