Donne e conoscenza storica  

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Donne in movimento

Intervista a Liliana Segre
di Daniela Padoan

L'obiettivo dei nazisti era cancellare dal mondo gli ebrei, uomini o donne che fossero, e tutti, nell'indicibile orrore dello sterminio, seguirono lo stesso percorso di fame, sfruttamento e morte. Tuttavia riflettere sulla peculiarità delle sofferenze e delle sopraffazioni patite da uomini e donne può aiutarci a superare il neutro della testimonianza e a comprendere le differenti traiettorie esistenziali di individui segnati da una diversa educazione, da diversi ruoli sociali, da diversi modi di percepire e affrontare la separazione, l'umiliazione, la perdita. "Nel Lager ho sentito con molta forza il pudore violato, il disprezzo dei nazisti maschi verso donne umiliate. Non credo assolutamente che gli uomini provassero la stessa cosa" dice Liliana Segre, deportata nel Lager femminile di Auschwitz-Birkenau all'età di tredici anni. "Qualunque delinquente comune aveva diritto di vita e di morte su noi donne ebree, generatrici di un popolo odioso. E tuttavia noi di questo, allora, non eravamo consapevoli. Sapevamo la sopraffazione, la vergogna, la brutale umiliazione che ci spogliava della nostra umanità, e con essa anche della nostra femminilità."

Mi ha sempre colpito l'immagine usata da Primo Levi quando paragona le donne di Auschwitz a rane d'inverno.

Sì, il secondo passo del celebre comando con cui Primo Levi si rivolge ai lettori di Se questo è un uomo: "Considerate se questa è una donna/ senza capelli e senza nome/ Senza più forza di ricordare/ Vuoti gli occhi e freddo il grembo/ Come una rana d'inverno." Una rana d'inverno fa pensare a una bestiolina che rabbrividisce nuda.
Mettere nudo un uomo davanti a un altro uomo è senz'altro una cosa umiliante e terribile. L'uno è vestito, magari in divisa, con le armi; l'altro è nudo, inerme, in stato di completa debolezza. Eppure mi pare che la donna nuda davanti all'uomo armato sia sottoposta a un oltraggio ancora maggiore. Ti insegnano a stare sempre composta, a vestire accollata, a provare pudore del corpo. Poi, di colpo, nello stesso giorno in cui ti strappano ai tuoi familiari, nello stesso giorno in cui scendi da un treno della deportazione e arrivi in un posto che non conosci, che non sai nemmeno collocare geograficamente su una cartina, ti ritrovi nuda insieme ad altre disgraziate che, come te, non capiscono niente di quello che sta succedendo. Non c'è nulla, lì attorno, che non faccia paura. Sei terrorizzata, e intanto i soldati passano sghignazzando, oppure si mettono in un angolo discosto a osservare la scena di queste donne che vengono rasate, tatuate, già umiliate, torturate per il solo fatto di essere lì, nude.

Una tortura che continuava nelle continue selezioni.

Quando c'erano le selezioni, le donne sfilavano per essere lasciate in vita o per essere messe a morte, sempre nude, tra i soldati in divisa. Era una persecuzione talmente grave, talmente umiliante, che per me è rimasta indimenticabile tra i milioni di cose che non ho mai dimenticato. Spesso mi capita di raccontare nelle scuole che l'anno prima, quando ero ancora una persona, ero stata operata di appendicite. Alla prima selezione che passai, tra le SS c'era un medico che mi mise un dito sulla pancia, dove avevo la cicatrice. In quel momento il mio cuore si fermò. Pensai che quello mi mandasse a morire. Invece no. Compiaciuto, spiegava ai colleghi che il chirurgo italiano era un cane, perché quella cicatrice sarebbe rimasta visibile per sempre, anche quando fossi stata una donna adulta. Non mi guardavano come una donna, ma come un capo di bestiame di cui andassero esaminati i quarti. Quando facevo la doccia con le mie compagne, all'uscita dal turno nella fabbrica di munizioni Union, dovevamo tenere con un braccio i nostri vestiti perché nessuno li rubasse e con l'altro lavarci sotto uno sgocciolio d'acqua di volta in volta bollente o ghiacciata, con un pezzetto di sapone che non bisognava perdere, altrimenti non ce ne sarebbe più stato dato un altro. Poi uscivamo nel gelo della notte, grondanti, rimettendoci addosso i nostri stracci. Durante tutto quel nostro balletto grottesco sotto la doccia, passavano i soldati. Non c'era un solo momento in cui venisse rispettata anche minimamente la dignità della persona. E credo che questo fosse ancora più doloroso per una donna. Gli uomini normalmente andavano a fare il militare, erano abituati a una certa promiscuità in cui la nudità non era sconvolgente come lo era per noi. Non ho mai sentito che avvenissero stupri o violenze di quel genere, anche se sicuramente ce ne saranno stati: le leggi di Norimberga proibivano agli ariani di accoppiarsi con le donne delle razze cosiddette inferiori. Ma era questo sprezzo a essere intollerabile, questo ridere di noi, questo punire ogni minima disobbedienza facendoci stare inginocchiate nude per delle ore. La nudità è stata una costante e io l'ho vissuta come una grande persecuzione morale, aggiunta a una situazione che era già di per sé terribile.

Alcune superstiti raccontano della vergogna della nudità provata dalle madri davanti alle proprie figlie.

Mi è difficile rispondere a questa domanda, perché una costante della mia prigionia è stata la grande solitudine. Mia madre è morta poco dopo la mia nascita e il rapporto fondamentale che ho avuto è stato quello con mio padre. Ho visto pochi gruppi familiari, nel Lager. Sicuramente i legami familiari, se da un lato potevano costituire un grandissimo conforto, potevano trasformarsi in un dolore insostenibile, qualora all'altra, sorella, madre, o peggio ancora, figlia, succedesse qualcosa di irreparabile. Non dico che fossi contenta di essere sola, perché ho sofferto tantissimo di solitudine, però forse è stato meglio.

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