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in Il Manifesto 29,6,2002
I
Signori della guerra contro le donne
Sima Samar è la prima vittima dei fondamentalisti
del nuovo governo Karzai. Il veto all'ex ministra della
condizione femminile dal nuovo capo della Corte suprema,
il leader religioso Abdulhady Shinwary: «E' contro
gli interessi della nazione islamica»
di GIULIANA SGRENA
DI RITORNO DA KABUL
La prima vittima dei fondamentalisti del nuovo governo
afghano di Hamid Karzai è stata Sima Samar. Il
veto contro un nuovo incarico all'ex ministra della condizione
femminile è stato posto dal neonominato capo della
Corte suprema, il maulawi Abdulhady Shinwary, («uomo
religioso e grande conoscitore della sharia», come
l'aveva definito Karzai) perché «ha fatto
delle affermazioni irresponsabili e contro gli interessi
della nazione islamica afghana» per questo «la
Corte suprema dell'Afghanistan ritiene che non può
più ricoprire un incarico ufficiale». Questa
la dichiarazione di Shinwary che non aveva però
specificato il contenuto delle affermazioni incriminate.
Al posto di Sima Samar, intanto, giovedì, con tre
giorni di ritardo rispetto alla nomina di tutti gli altri
ministri, Habiba Sorabi ha ricevuto l'incarico per il
ministero della condizione femminile. Sorabi è
la seconda ministra donna dopo la conferma di Suhaila
Seddiqi, già medico dell'ospedale militare, a capo
della sanità pubblica. Un'altra donna, Mahboba
Hoqooqmal, professoressa universitaria è stata
nominata ministro di stato per la condizione femminile,
senza portafoglio.
Hazara,
medico e militante femminista
Sima
Samar, hazara, medico, militante femminista impegnata
nei campi profughi di Quetta (in Pakistan) dove ha costruito
un ospedale e una scuola per le ragazze, era stata nominata
ministro nel dicembre scorso nella quota riservata al
gruppo di Roma, quella che faceva riferimento all'ex re
Zahir Shah. E' finita nel mirino dei fondamentalisti che
continuano ad occupare la scena politica afghana anche
nel dopo taleban alla vigilia della Loya jirga (la grande
assemblea tribale che ha eletto Karzai a guida del governo
che resterà in carica per 18 mesi fino alle elezioni):
il 10 giugno il giornale della Jamiat-e-islami, il partito
dell'ex presidente Rabbani, aveva pubblicato un'intervista
rilasciata da Sima Samar in dicembre al giornale canadese
Citoyen de Vancouver dove si sarebbe espressa contro la
sharia (la legge coranica). Il testo era stato diffuso
tra i delegati della Loya jirga, alcuni dei quali avevano
aggredito l'ex ministra. Questa campagna denigratoria
non aveva però impedito che Sima Samar fosse eletta
- a scrutinio segreto - vicepresidente dell'assemblea.
I fondamentalisti di Burhanuddin Rabbani, alleato di un
altro capo mujahidin integralista, Abdul Rasul Sayyaf,
tornavano alla carica pubblicando sul Messaggero del mujahed
(il giornale della Jamiat-e-islami) un articolo dal titolo
«Sima Samar, il Salman Rushdie dell'Afghanistan».
Seguiva la lettera di un «lettore» che l'accusava
di «apostasia» e chiedeva la punizione adeguata
(una fatwa con la condanna a morte, come quella di Khomeini
contro Rushdie?). La questione finiva davanti alla Corte
suprema che per il momento ha accettato le spiegazioni
fornite da Samar, la quale sostiene di non aver insultato
l'islam e afferma di essere una credente musulmana. La
Corte ha quindi archiviato il caso riservandosi però
di riaprilo se dovessero emergere nuove prove.
I
signori della guerra ultrafondamentalisti, che continuano
ad avere voce in capitolo nel nuovo governo, non perdonano
a Sima Samar di aver dichiarato davanti all'assemblea:
«Credo che non ci sarà nessun cambiamento
nel paese semplicemente con le parole, dobbiamo cambiare
il nostro modo di pensare, i nostri cuori e il nostro
comportamento» e di aver chiesto ai genitori di
non permettere ai loro figli di giocare ai «mujahidin»,
i combattenti del jihad prima contro i sovietici e poi
tra di loro provocando la distruzione di Kabul. «Non
capisco dove ho sbagliato. Sono una donna, sono franca,
sono hazara (la minoranza sciita particolarmente colpita
dai taleban, ndr). Questo è sufficiente, credo».
Sicuramente è sufficiente per finire nel libro
nero dei vecchi-nuovi padroni di Kabul. Con tutti i rischi
che questo comporta, dopo le minacce all'interno della
Loya jirga ha ricevuto la visita di poliziotti, la maggior
parte dei quali sono uomini di Rabbani, che l'hanno invitata
a lasciare la casa dove viveva, dopo che aveva già
sgombrato gli uffici del ministero. Il paragone con Salman
Rushdie è particolarmente inquietante: «Ho
bisogno di protezione», dice Sima Samar. E sicuramente
non è l'unica in un paese in cui sono i signori
della guerra superarmati a dettare legge.
L'ex
ministra non avrà vita più facile nel ricoprire
il nuovo incarico di presidente della Commissione per
i diritti umani, recentemente creata su indicazione delle
Nazioni unite.
La
violazione dei diritti umani è all'ordine e non
solo da parte dei padroni locali ma anche dei fautori
della campagna antiterrorismo, Stati uniti in testa. Fosse
comuni, torture e maltrattamento dei prigionieri - fino
a farli soffocare nei container - al nord, bombardamenti
di civili al sud, senza parlare degli effetti delle bombe
sulla popolazione. Chi si occupa di diritti umani come
i militanti del Cooperation center for Afghanistan (Cca)
teme per la propria vita ora come ai tempi dei taleban,
quando hanno avuto cinque funzionari assassinati. Il clima
non è come si vuol far credere da riconciliazione
nazionale. «Non si può ottenere una riconciliazione
nazionale dimenticando il passato», sostiene Safora
Walid della Revolutionary association of women of Afghanistan
(Rawa), che ha partecipato ai primi incontri per la formazione
della commissione per i diritti umani ma poi ha rinunciato
a farvi parte perché la maggioranza dei partecipanti
non ha voluto accettare di mettere in agenda la condanna
dei crimini commessi dal 1992 in poi. «Solo tre
partecipanti erano d'accordo con noi, dice Safora, quindi
è passata l'impunità». Come è
successo in altri paesi (dall'Argentina all'Algeria),
dove peraltro si è visto che l'impunità
non favorisce la riconciliazione perché penalizza
le vittime e alimenta la violenza dei carnefici.
Verso
una rigida sharia
Se,
come tutto lascia prevedere, l'Afghanistan del dopo taleban
si avvia verso una applicazione rigida della sharia -
l'imam della moschea Pul-i-Khishti di Kabul, Qari Ubaidurahman
Qarizada, nominato da Karzai, ci ha detto chiaramente
di essere a favore della lapidazione per l'adulterio e
l'amputazione per i furti - quello della difesa dei diritti
umani diventa un compito estremamente arduo. E Rawa è
stata recentemente messa sotto accusa per non aver impedito
l'esecuzione, in Pakistan, dei responsabili dell'assassinio
di Meena, la fondatrice dell'associazione. «Rawa
era contro l'esecuzione, abbiamo mandato una lettera alla
corte suprema pakistana perché trasformasse la
condanna in ergastolo, ma l'ultima parola spettava ai
familiari di Meena e delle altre due vittime assassinate
insieme a lei e loro sono stati irremovibili, non siamo
riuscite a convincerli a cambiare opinione», sostiene
Safora Walid.
Rawa
non nega che si siano stati dei cambiamenti in Afghanistan
ma continua ad essere pessimista sull'evoluzione della
situazione «se i fondamentalisti dell'Alleanza del
nord continuano ad occupare i posti di potere».
E la presenza delle donne nella Loya jirga? «Positiva
ma non sufficiente», sostiene Safora Walid che denuncia
anche le pressioni e le minacce fatte ai delegati. Quel
che è certo è che quel gruppo di donne -
solo 200 su 1.600 delegati - molto combattive, che hanno
protestato perché penalizzate dalle riprese televisive,
ha avuto un impatto sull'opinione pubblica che seguiva
la Loya jirga attraverso gli schermi. Massuda Jalal, una
pediatra che durante il regime dei taleban ha lavorato
per il World food program, ha anche osato sfidare l'establishment
religioso conservatore candidandosi alla presidenza e
piazzandosi seconda dopo Karzai. Altre delegate nelle
loro province sono state elette con un numero maggiore
di voti dei vari leader politici. La strada è ancora
lunga, non se lo nasconde Sima Samar e nemmeno tutte le
altre. Che però contribuiscono ad alimentare un
fermento politico al femminile non trascurabile. E' stata
Jamila Mujahed ad annunciare attraverso radio Kabul la
fine del regime dei taleban - «non ci credevo nemmeno
io» confessa. E' una delle due speaker donne del
telegiornale e del giornale radio, tornata al suo lavoro
dopo cinque anni. Per ora le trasmissioni tv sono limitate,
aperte dal telegiornale alle sei di sera. Così
Jamila si può permettere anche un altro lavoro:
dirige Malalai (il nome di una donna combattente), una
rivista sociale e culturale per le donne. Il primo numero
è uscito a giugno, in quattro lingue: dari, pashtun,
inglese e francese. Abbiamo incontrato Jamila nella sede
della rivista, due stanze all'interno del complesso che
ospita l'Afghan media & culture center, sostenuto
dall'Unesco, dal governo francese e dalla tedesca Heinrich
Bohl Foundation. Anche per Jamila la situazione è
migliorata ma resta precaria. La direttrice di Malalai
pone come prorità per le donne quella della sicurezza.
Un giudizio sui taleban? «Non erano musulmani, hanno
strumentalizzato la religione. L'islam non nega i diritti
delle donne», dice Jamila Mujahed, favorevole allo
stato islamico ma non ai gruppi islamici, come definisce
gli islamisti radicali. Quel che conta per Jamila, come
si legge su Malalai, è aiutare «le donne
che ancora soffrono a ottenere i loro diritti civili e
la loro dignità». E il mondo delle donne
a Kabul si arricchisce ogni giorno di nuove inziative,
nonostante il potere resti nelle mani dei fondamentalisti.