AGOSTO
L'INVIDIA
Alcune di quelle che vengono comunemente chiamate passioni, come l'invidia,
distruggono l'essere che le patisce e che, allo stesso tempo, riceve
vigore da esse. Chi è roso dall'invidia trova in essa il suo
alimento. Una distruzione che alimenta se stessa; tale sembra essere
la prima, originaria definizione dell'invidia. [
]
La maniera più
benevola di indicare l'invidia potrebbe essere avidità "dell'altro".
L'attenzione, prima che dall'avidità, che è il sostantivo,
il soggetto, è attirata dal termine "l'altro". È
il riferimento all'altro quello che risalta e assume speciale valore
sostantivale. [
] Colui che è posseduto dall'invidia non
può rinunciare a questo altro. Senza dubbio, nel più
intimo della sua vita, avviene qualcosa che lo mantiene legato a quell'altro,
estraneo e più io del suo stesso io.[
] L'invidioso, che
sembra vivere fuori di sé, è un individuo immerso nel
proprio intimo: invidere, già nella sua composizione, dichiara
il dentro che c'è in quel guardare l'altro. Guardare e vedere
un altro non fuori, non lì dove l'altro sta realmente, ma in
un dentro abissale, un dentro allucinato che si confonde con la solitudine,
dove non trova il segreto che ci fa sentire noi stessi.[
] La
mia realtà dipende dall'altro. E questo vincolo tragico genera,
allo stesso tempo, amore e invidia. [
]
L'invidia, sguardo
obliquo, è la visione in uno specchio che non ci restituisce
l'immagine di cui la nostra vita ha bisogno. Da ciò, l'ambiguità
dell'invidia e quella specie di vincolo che si stabilisce tra colui
che invidia e l'invidiato. Vincolo che rasenta la complicità,
perché inevitabilmente si sente che se l'invidiato - specchio
- inviasse al posseduto dall'invidia l'immagine che si aspetta e di
cui ha bisogno, la riscatterebbe dall'inferno in cui giace. E forse
l'invidia proviene dalla torbidezza dell'invidiato, che non mantiene
trasparente il suo intimo, ma, offuscato da qualche passione che non
riesce a discernere, non la riflette come dovrebbe.
María
Zambrano, L'uomo e il divino, intr. di Vincenzo Vitiello, trad.
di Giovanni Ferraro, Edizioni Lavoro, Roma, 2001, p. 256 - 259 e 262
- 263.
(El ombre y el divino, Siruela, Madrid, 1991, p.262- 265 e
268 - 271)