Leggende
e dialoghi drammatici: un'unica grande opera
L'invidia:
un sentimento autodistruttivo.
Nonostante il miracolo, Fortunato,
roso dall'invidia, appena risorto, non si stupisce tanto di essere di nuovo vivo,
ma del fatto che Drusiana sia viva e che Callimaco, accanto a lei, non deliri
più d'amore. Non solo, ma che venga considerato "un vero discepolo
di Cristo", nonostante si sappia dei suoi disegni infami. In tutto il dialogo
si rivolge alla persona più autorevole, Giovanni, e termina dicendo (1):
" Se Drusiana -lo dici tu- mi ha ridato la vita e Callimaco si è
affidato a Cristo, respingo la vita e scelgo, io spontaneamente, la morte: preferisco
non esistere che percepire in loro tanta grazia e virtù."
Dunque
Rosvita conosce l'atroce forza autodistruttiva dell'invidia, pericolosa soprattutto
per chi la prova.
Piuttosto di riconoscere di dipendere dalle persone che si
invidiano si rifiuta il proprio bene. Neppure si interloquisce con loro, sarebbe
già un modo di riconoscerle, si mettono in dubbio le affermazioni positive
su di loro (-se lo dici tu- afferma Fortunato); neppure, dopo la propria
resurrezione
si guarda dentro di sé, si gioisce, ma ci si volge all'esterno increduli
che ancora siano superiori coloro per la cui rovina si è operato. La scena
finale getta nuova luce sul comportamento di Fortunato: distruggere moralmente
Callimaco giovane e ricco, infamare, persino da morta, la
casta Drusiana. Tanto
può l'invidia che fa agire sempre subdolamente, approfittando delle debolezze
altrui.
Infatti attraverso le parole di Giovanni, che commentano la nuova morte
di Fortunato, Rosvita collega l'invidia alla superbia (2):
"Non c'è
nulla di più orribile dell'invidioso, nulla di più empio del superbo."
(...)
"Questi peccati tormentano sempre, congiuntamente una stessa persona:
non si dà l'uno senza l'altro."(
)
"Perché il
superbo è invidioso e l'invidioso è superbo.
Perché un
animo roso dall'invidia non tollera le lodi rivolte ad altri, e se qualcuno vale
più di lui desidera che venga svilito, e sdegna di sottostare a chi ha
più meriti, e si sforza orgogliosamente di oltrepassare i suoi pari."
(...)
"Così il disgraziato si sentiva ferito nell'animo, non tollerava
di venir stimato meno di persone in cui vedeva risplendere ben più luminosa
la grazia di Dio."
Vinay, che fa un attento confronto con la fonte,
sostiene che non si tratti di invidia, bensì dell'incomprensibilità
dell'esperienza del credente. Egli infatti dice (3): "Fortunato non rifiuta
affatto di vivere per invidia ma perché non vede come un cristiano possa
restituire bene per male(...) Rosvita realizza, rispetto al modello, un colpo
da maestro. Per l'Apocrifo la morte di Fortunato resta una punizione dal di fuori,
per Rosvita è una rinuncia volontaria alla vita per l'incomprensibilità
di un'esperienza: l'autodistruzione dell'incredulo.
Rosvita è definitiva
e gran signora: perché sottilizzare sui peccati quando per noi l'alternativa
è totale? Se non siamo cristiani il cristianesimo è privo di senso,
se vogliamo essere cristiani
dobbiamo esserlo senza residui....".
Io
invece propendo che si tratti proprio dell'analisi dell'invidia, vista dalla parte
di chi deve averla subita, infatti solo così è possibile analizzarla,
descrivere con tanta acutezza i comportamenti che genera e individuare i sentimenti
che li accompagnano. Del resto nelle sue introduzioni spesso Rosvita fa accenni
a critiche da cui si difende con tutta la sua abilità.
(1)
Resuscitatio Drusianae et Calimachi, scena IX, 28, p.149
(2)
Resuscitatio Drusianae et Calimachi, scena IX, 31, 32, p.151
(3)
Gustavo Vinay, "Rosvita: una canonichessa ancora da scoprire?" in Alto
Medioevo latino, Guida, Napoli 1978, p.525