Zoya, La
mia storia,
Sperling&Kupfer, 2002
presentazione
nel sito Feltrinelli
Giuliana
Sgrena, A scuola dai taleban, Il Manifesto, 2002
(per la
documentazione, info: DiN Udine, DiN Roma ed intervista a cura
di Mujeres De Negro a Hagar Roublev)
|
Questo
articolo è stato scritto prima della guerra in Afghanistan.
L'autrice ce l'ha gentilmente concesso su richiesta. E' utile,
infatti, per inquadrare la figura di Zoya, che racconta la propria
storia in un libro recentemente
pubblicato in italiano
QUANDO
IL SILENZIO DIVENTA VOCE
di Maria Inversi
Di crudeltà
vive il nostro tempo. Di guerre e di voci di donne che in tutto
il mondo stanno cercando faticosamente di creare una catena
contro tutti i conflitti, tutti gli esodi, tutti i soprusi.
Tra loro, alcune cercano di ricordare chi sono in terre che
le vogliono straniere attraverso leggi che le rendono estranee
ai governi delle città, delle nazioni, ai governi dei
loro figli e degli uomini a cui darebbero la vita, ma che la
vita vedono spezzata sotto i loro occhi. Racconto, con questo
articolo, di alcuni movimenti, di alcune di loro. Dà
voce a voci poco conosciute.
L'Associazione Afghana RAWA
Ho incontrato ad Udine (organizzazione DiN), due giovanissime
rappresentanti dell'associazione RAWA, fondata da Meena nel
1977 ed uccisa dal KGB nel 1987. Dalla sua fondazione, il RAWA
ha partecipato attivamente al movimento della resistenza antisovietica
del popolo afghano. Dopo il rovesciamento del governo fantoccio
nel 1992 e la catastrofica usurpazione del potere da parte dei
fondamentalisti in Afghanistan, il RAWA ha raddoppiato le proprie
attività politiche, culturali, educative, sanitarie e
a favore dei diritti umani" . Le due giovanissime rappresentanti
una delle quali Zoya (figlia di Meena) potrebbe vivere
in America un'agiata vita di studentessa, ma ha deciso di proseguire
l'attività della madre e del padre, ucciso come tanti
altri, tante altre dai talebani. L'altra giovane viaggia con
un bambino di non più di due anni. Ambedue, trasferiscono
da un paese all'altro il materiale stampato sotto il BURKA,
cambiano residenza una volta al mese, rischiano la vita tutti
i giorni. Tra il materiale che ci hanno messo a disposizione,
vi sono alcune canzoni patriote scritte recentemente da donne:
" Se spegni con un soffio le candele nei miei occhi,/se
congeli tutti i baci sulle mie labbra,/se riempi la mia aria
nativa con maledizioni sussurrate,/
..Lotterò.
Ed ancora da alcuni versi scritti da Meena: "Sono la donna
che si è svegliata/Mi sono alzata e sono diventata tempesta
fra la cenere dei mie figli bruciati/
..Non mi guardare
più debole e incapace/ La mia voce si mescola con migliaia
di donne in piedi/
Ho trovato la mia strada e non tornerò
mai indietro.
La donna Afghana è costretta alla non esistenza poiché
non deve far rumore quando cammina, non deve far sentire la
sua risata in pubblico, non deve indossare sotto il burka abiti
vivaci considerati sessualmente attraenti, non deve lavorare
in qualsiasi luogo che non sia la propria casa, non deve uscire
se non accompagnata da padre, marito, fratello, non deve mostrare
le caviglie, ed è obbligata a causa del burka a camminare
a testa bassa. Tutte le frasi che nei libri riportavano la parola
"donna", sono state cambiate, così "il
giardino delle donne" è divenuto "il giardino
della fonte". L'immagine della donna non deve apparire
né sui giornali, né sui libri, né esposta
nelle case e nei negozi. La malattia più diffusa tra
le donne è la depressione a cui segue il suicidio delle
vedove con tutto ciò che ne consegue. Nessuno, uomo o
donna può guardare film, televisione, video. Nessuno
può ascoltare musica o cantare in pubblico. Il RAWA,
nonostante le pochissime risorse, cerca di fornire servizi sanitari
gratuiti alle donne (i talebani vietano le cure mediche alle
donne) ed organizza lezioni di alfabetizzazione e di istruzione
sanitaria alle donne a domicilio.
Abbiamo
mantenuto l'integrità dell'articolo: esso presenta donne
che si sono organizzate contro la guerra. Queste donne continuano
a esistere e a essere attive infatti, e, pure se le condizioni
di vita sono parzialmente mutate in Afghanistan, questo stato
di cose rimane vivo nella nostra memoria e la scrittura ci aiuta
a non dimenticare un passato politico che è ancora molto
vicino.
L'associazione AWKA
Le DiN di Roma hanno organizzato un incontro con Orzala Ashraf
presso la libreria Odradek. Non mi dilungherò dunque
se non per dire del suo coraggio, del suo impegno, sostenuto
e incoraggiato da tutti i suoi familiari, nell'organizzare corsi
di alfabetizzazione per donne e bambini. Gli incontri avvengono
per passa parola e in abitazioni private e sono organizzati
in modo che se un talibano dovesse irrompere, l'idea che il
gruppo deve dare è di un casuale incontro per bere del
thè. Ci ha mostrato un video girato di nascosto e dunque
di pessima qualità, ma le cui immagini ha lasciato tutte
(il pubblico era purtroppo solo femminile), incapaci di parlare
e profondamente turbate. Tra le immagini, una delle città
di plastica in cui sono ammassati 70.000 esseri umani ed il
cui maggiore tasso di mortalità è dovuto a cibi
scaduti. Nel video sono visibili le malattie della pelle, i
volti deturpati da bolle purulenti ed avvizziti anzitempo, gli
sguardi persi dei bambini, l' esecuzione di una donna allo stadio.
Orzala ha 26 anni ma ne dimostra di più. Per l'urgenza
ha imparato l'inglese in tre settimane. Lo parla con disinvoltura
e proprietà. Ci dice: che le donne violentate vengono
accusate di adulterio e giustiziate, che sono ormai due le generazioni
di analfabeti, che le donne guadagnano un quarto di dollaro
per costruire un gomitolo che richiede 5 giorni di lavoro. Ci
dice che nella parola, la donna afghana vale "cento rupie
sul cuore" contro "una rupia delle donne occidentali".
Ci dice che pochi giorni prima della distruzione dei Buddha,
furono ammazzati nello stesso luogo 300 civili e che nessuno
ne ha parlato. Le ho domandato: "cosa chiedete al mondo?",
mi ha risposto "Di gettare una bomba che distrugga l'intero
Afghanistan"
Madri
per la pace
Ho incontrato Muyasser Gunes, kurda, presso la libreria Al tempo
ritrovato. L'incontro è stato organizzato dalle DiN di
Roma. Muyasser Gunes è giornalista ed è tra le
rappresentanti del movimento "Le madri per la pace",
nato nel 1996 come evoluzione del già esistente movimento
"Donne di piazza Galatasary", a sua volta nato per
commemorare i desaparecidos kurdi. Il movimento: " Madri
per la pace" è costituito da donne kurde e turche
che inizialmente si incontravano all'ingresso delle carceri
dove erano imprigionati mariti, fratelli, figli. Nel 2000 furono
protagoniste di una marcia per la pace che partì da 20
città kurde e turche e che confluì alle porte
di Ankara dove furono fermate dall'esercito. Il movimento dà
visibilità alle donne e le rende protagoniste nel percorso
di costruzione dei diritti umani e civili. Combattono per rientrare
nei loro villaggi (le aree in cui i kurdi sono stati relegati
sono desertiche), per l'insegnamento della lingua madre, per
l'ottenimento di una cittadinanza costituzionalmente riconosciuta
nella totale libertà culturale e identitaria, per l'amnistia
dei prigionieri politici. Scrivono: "nessuno ha il diritto
di trarre benefico dalle nostre sofferenze". Le loro lotte,
il loro impegno civile e politico è stato pagato spesso
a caro prezzo. Molte di loro sono state torturate, ma il movimento
è andato crescendo tanto che una loro delegazione è
stata ricevuta in parlamento. Muyasser Gunes aveva già
perso un figlio nella guerra di resistenza e, mentre era a Roma
è stato ucciso anche il suo secondo figlio. Muyasser
è una donna che porta su di sé i segni di una
stanchezza a cui non può dare spazio. Ha uno sguardo
dolce e intenso e parla con la saggezza di chi ha visto molto,
ha accolto su di sé il suo dolore e quello delle altre,
degli altri..
Mentre in occidente le donne che valgono solo una rupia dal
1940 ad oggi, sono riuscite se pur in pochi paesi, a salire
ai vertici del potere politico e ad impossessarsi con un immenso
lavoro della parola che segna nuovi percorsi culturali, In Afghanistan,
in Pakistan (e con varie differenze in altre aree del Medio
Oriente), in nome dell'economia globale, di interessi governativi,
di esclusivi interessi privati, le donne hanno perduto identità
e dignità. "Dite voi se questa è donna/dite
voi se questo è uomo", scriveva Primo Levi.
"Noi non abbiamo paura" ci dicono le giovani ragazze
delle associazioni non governative, "la nostra lotta è
votata al sacrificio e alla speranza"
Nei convegni dei Paesi Europei tenutisi a Goeteborg (1998) e
ad Amsterdam (1999), viene individuata nella cultura di genere,
una possibilità di costruzione di un'Europa pacifica.
Diamo spazio alle loro voci. Ascoltiamole.
Le donne
in nero
All'inizio erano otto. Era il 9 gennaio 1988. Si vestirono di
nero e scesero in strada a Gerusalemme Ovest per manifestare
contro l'occupazione israeliana del territorio palestinese.
L'iniziativa la prese Hagar Roublev, israeliana, che da allora
e fino alla sua morte, avvenuta l'anno scorso, non si risparmiò
affinché il movimento crescesse in presenze e in consapevolezze.
Nel 1992 organizzò il primo dibattito all'interno del
movimento che dalla sua formazione era cresciuto considerevolmente.
Ne uscì un manifesto, firmato da 1.200 donne, in cui
si chiedeva agli uomini di ritirarsi dall'esercito. Il manifesto
non fu pubblicato perché illegale. Da allora ogni venerdì
tra le 13 e 14 (ora di maggiore circolazione) a Gerusalemme
e a Tel Aviv, le DiN (Donne in Nero) manifestano e la sera,
di ogni venerdì, in 150 case israeliane si discute e
si ascoltano opinioni diverse sul conflitto. Alle molte provocazioni
che le DiN hanno vissuto durante le manifestazioni, la loro
risposta, come scelta di identità che da allora ha caratterizzato
il loro modo di manifestare, è stato il silenzio.
Nell'agosto del 1988, partirono dall'Italia, dirette a Gerusalemme
69 donne. Luisa Morgantini (attualmente europarlamentare) fu
la voce di maggior riferimento del movimento romano. Nacquero
a seguire gruppi di donne in nero in molte città italiane
ed europee, come ad esempio, a Belgrado. La riflessione politica
all'interno dei gruppi e tra i gruppi è stata continua
ed interrotta solo dalla recrudescenza o dallo scoppio di conflitti
(ex Jugoslavia, guerra del Golfo). Il movimento pacifista delle
DiN che esprime in ogni città autonomia di movimento,
di riflessione e differenti modalità organizzative, a
Roma, oggi, attraverso Nadia Cervoni, cerca di definire quale
percorso di convivenza sia possibile costruire tra chi vive
i conflitti; sono divenute la realtà più visibile
della campagna sul disarmo; uno dei punti di riferimento, tra
le associazioni pacifiste romane, per la lotta ai diritti violati
in campo internazionale; creano inoltre reti di informazione
e sensibilizzazione sulle ricadute ambientali e l'inquinamento
bellico.
Elisabetta Donini, scienziata, punto di riferimento delle DiN
di Torino, sottolinea, in una conferenza, che costruire amnistia
vuol dire anche combattere l'amnesia: vuol dire affidare alle
urgenze la costruzione di resoconti onesti del passato affinché
ciascun soggetto sia portatore ed elaboratore di memoria. E'
stata su molti luoghi di conflitto, Elisabetta Donini e, ci
racconta, che molte famiglie palestinesi profughe del 1948,
conservano ancora la chiave della casa da cui sono uscite. Ci
ricorda ancora Elisabetta Donini che uno degli "slogan"
delle DiN i cui governi e movimenti armati sono in lotta è
"ci rifiutiamo di essere nemiche".
Le donne in nero, hanno assunto come valore etico l'impegno
all'ascolto di ogni differenza e in cui le diverse ragioni dell'altra,
le diverse modalità di azione, non divengono mai negazione
ma, semmai, ragione di discussione e ulteriore confronto. Le
donne in nero italiane, manifestano sui luoghi dei conflitti,
ed oltre che in Israele, a Sarajevo, Belgrado, Vecinj (Montenegro);
sono presenti alla conferenza mondiale delle ONG tenutasi a
Pechino nel 1996, sempre autofinanziandosi. Sono intellettuali,
casalinghe, impiegate, libere professioniste, artiste. Ognuna
mette a disposizione ciò che ha, ciò che può.
Ovunque vadano a manifestare indossano abiti neri.
Ma perché il nero? Per Hagar Roublev, nero è il
teatro, nero è la rappresentazione scenica, nera era
la possibilità di essere visualizzate anche da lontano,
nero è il colore del dolore dei morti.
Ma il nero è prima e dopo la morte. Il nero diviene colore
di lutto con l'avvento della cultura "Kurgan", una
cultura neolitica risalente al VII millennio a.C., che emerse
nel bacino del Volga e produsse armi letali. La cultura del
"Kurgan" s'impose sulla "gilania", sistema
sociale diffuso in Europa e in Anatolia e in cui le donne ricoprivano
un ruolo dominante. Il nero in questa cultura pacifista e creativa
era simbolo di rigenerazione, di vita, di fertilità,
di reggitrice di morte. Non già dunque di lutto, come
ci spiega Marija Gimbutas. Nero è dunque simbolo di creazione,
creatività. E consapevolmente o no, le DiN, usano il
nero proprio nel suo valore simbolico più arcaico. Probabilmente
da un punto di vista antropologico, potremmo dire che il nero
è fortemente ascritto nella memoria genetica di ogni
donna, con tute le variabili che le culture d'ogni tempo hanno
ad esso assegnato.
|