Donne e conoscenza storica

Libri

Nel sito:

La tomba di Antigone spettacolo di
Maria Inversi
su testo di Maria Zambrano

Vivere vivere vivere
di Maria Inversi

Bibliografia

Zoya, La mia storia,
Sperling&Kupfer, 2002
presentazione nel sito Feltrinelli

Giuliana Sgrena, A scuola dai taleban, Il Manifesto, 2002

(per la documentazione, info: DiN Udine, DiN Roma ed intervista a cura di Mujeres De Negro a Hagar Roublev)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Questo articolo è stato scritto prima della guerra in Afghanistan. L'autrice ce l'ha gentilmente concesso su richiesta. E' utile, infatti, per inquadrare la figura di Zoya, che racconta la propria storia in un libro recentemente pubblicato in italiano

QUANDO IL SILENZIO DIVENTA VOCE
di Maria Inversi

Di crudeltà vive il nostro tempo. Di guerre e di voci di donne che in tutto il mondo stanno cercando faticosamente di creare una catena contro tutti i conflitti, tutti gli esodi, tutti i soprusi. Tra loro, alcune cercano di ricordare chi sono in terre che le vogliono straniere attraverso leggi che le rendono estranee ai governi delle città, delle nazioni, ai governi dei loro figli e degli uomini a cui darebbero la vita, ma che la vita vedono spezzata sotto i loro occhi. Racconto, con questo articolo, di alcuni movimenti, di alcune di loro. Dà voce a voci poco conosciute.

L'Associazione Afghana RAWA
Ho incontrato ad Udine (organizzazione DiN), due giovanissime rappresentanti dell'associazione RAWA, fondata da Meena nel 1977 ed uccisa dal KGB nel 1987. Dalla sua fondazione, il RAWA ha partecipato attivamente al movimento della resistenza antisovietica del popolo afghano. Dopo il rovesciamento del governo fantoccio nel 1992 e la catastrofica usurpazione del potere da parte dei fondamentalisti in Afghanistan, il RAWA ha raddoppiato le proprie attività politiche, culturali, educative, sanitarie e a favore dei diritti umani" . Le due giovanissime rappresentanti una delle quali Zoya (figlia di Meena) potrebbe vivere in America un'agiata vita di studentessa, ma ha deciso di proseguire l'attività della madre e del padre, ucciso come tanti altri, tante altre dai talebani. L'altra giovane viaggia con un bambino di non più di due anni. Ambedue, trasferiscono da un paese all'altro il materiale stampato sotto il BURKA, cambiano residenza una volta al mese, rischiano la vita tutti i giorni. Tra il materiale che ci hanno messo a disposizione, vi sono alcune canzoni patriote scritte recentemente da donne: " Se spegni con un soffio le candele nei miei occhi,/se congeli tutti i baci sulle mie labbra,/se riempi la mia aria nativa con maledizioni sussurrate,/……..Lotterò. Ed ancora da alcuni versi scritti da Meena: "Sono la donna che si è svegliata/Mi sono alzata e sono diventata tempesta fra la cenere dei mie figli bruciati/…..Non mi guardare più debole e incapace/ La mia voce si mescola con migliaia di donne in piedi/…Ho trovato la mia strada e non tornerò mai indietro.
La donna Afghana è costretta alla non esistenza poiché non deve far rumore quando cammina, non deve far sentire la sua risata in pubblico, non deve indossare sotto il burka abiti vivaci considerati sessualmente attraenti, non deve lavorare in qualsiasi luogo che non sia la propria casa, non deve uscire se non accompagnata da padre, marito, fratello, non deve mostrare le caviglie, ed è obbligata a causa del burka a camminare a testa bassa. Tutte le frasi che nei libri riportavano la parola "donna", sono state cambiate, così "il giardino delle donne" è divenuto "il giardino della fonte". L'immagine della donna non deve apparire né sui giornali, né sui libri, né esposta nelle case e nei negozi. La malattia più diffusa tra le donne è la depressione a cui segue il suicidio delle vedove con tutto ciò che ne consegue. Nessuno, uomo o donna può guardare film, televisione, video. Nessuno può ascoltare musica o cantare in pubblico. Il RAWA, nonostante le pochissime risorse, cerca di fornire servizi sanitari gratuiti alle donne (i talebani vietano le cure mediche alle donne) ed organizza lezioni di alfabetizzazione e di istruzione sanitaria alle donne a domicilio.

Abbiamo mantenuto l'integrità dell'articolo: esso presenta donne che si sono organizzate contro la guerra. Queste donne continuano a esistere e a essere attive infatti, e, pure se le condizioni di vita sono parzialmente mutate in Afghanistan, questo stato di cose rimane vivo nella nostra memoria e la scrittura ci aiuta a non dimenticare un passato politico che è ancora molto vicino.


L'associazione AWKA
Le DiN di Roma hanno organizzato un incontro con Orzala Ashraf presso la libreria Odradek. Non mi dilungherò dunque se non per dire del suo coraggio, del suo impegno, sostenuto e incoraggiato da tutti i suoi familiari, nell'organizzare corsi di alfabetizzazione per donne e bambini. Gli incontri avvengono per passa parola e in abitazioni private e sono organizzati in modo che se un talibano dovesse irrompere, l'idea che il gruppo deve dare è di un casuale incontro per bere del thè. Ci ha mostrato un video girato di nascosto e dunque di pessima qualità, ma le cui immagini ha lasciato tutte (il pubblico era purtroppo solo femminile), incapaci di parlare e profondamente turbate. Tra le immagini, una delle città di plastica in cui sono ammassati 70.000 esseri umani ed il cui maggiore tasso di mortalità è dovuto a cibi scaduti. Nel video sono visibili le malattie della pelle, i volti deturpati da bolle purulenti ed avvizziti anzitempo, gli sguardi persi dei bambini, l' esecuzione di una donna allo stadio. Orzala ha 26 anni ma ne dimostra di più. Per l'urgenza ha imparato l'inglese in tre settimane. Lo parla con disinvoltura e proprietà. Ci dice: che le donne violentate vengono accusate di adulterio e giustiziate, che sono ormai due le generazioni di analfabeti, che le donne guadagnano un quarto di dollaro per costruire un gomitolo che richiede 5 giorni di lavoro. Ci dice che nella parola, la donna afghana vale "cento rupie sul cuore" contro "una rupia delle donne occidentali". Ci dice che pochi giorni prima della distruzione dei Buddha, furono ammazzati nello stesso luogo 300 civili e che nessuno ne ha parlato. Le ho domandato: "cosa chiedete al mondo?", mi ha risposto "Di gettare una bomba che distrugga l'intero Afghanistan"

Madri per la pace
Ho incontrato Muyasser Gunes, kurda, presso la libreria Al tempo ritrovato. L'incontro è stato organizzato dalle DiN di Roma. Muyasser Gunes è giornalista ed è tra le rappresentanti del movimento "Le madri per la pace", nato nel 1996 come evoluzione del già esistente movimento "Donne di piazza Galatasary", a sua volta nato per commemorare i desaparecidos kurdi. Il movimento: " Madri per la pace" è costituito da donne kurde e turche che inizialmente si incontravano all'ingresso delle carceri dove erano imprigionati mariti, fratelli, figli. Nel 2000 furono protagoniste di una marcia per la pace che partì da 20 città kurde e turche e che confluì alle porte di Ankara dove furono fermate dall'esercito. Il movimento dà visibilità alle donne e le rende protagoniste nel percorso di costruzione dei diritti umani e civili. Combattono per rientrare nei loro villaggi (le aree in cui i kurdi sono stati relegati sono desertiche), per l'insegnamento della lingua madre, per l'ottenimento di una cittadinanza costituzionalmente riconosciuta nella totale libertà culturale e identitaria, per l'amnistia dei prigionieri politici. Scrivono: "nessuno ha il diritto di trarre benefico dalle nostre sofferenze". Le loro lotte, il loro impegno civile e politico è stato pagato spesso a caro prezzo. Molte di loro sono state torturate, ma il movimento è andato crescendo tanto che una loro delegazione è stata ricevuta in parlamento. Muyasser Gunes aveva già perso un figlio nella guerra di resistenza e, mentre era a Roma è stato ucciso anche il suo secondo figlio. Muyasser è una donna che porta su di sé i segni di una stanchezza a cui non può dare spazio. Ha uno sguardo dolce e intenso e parla con la saggezza di chi ha visto molto, ha accolto su di sé il suo dolore e quello delle altre, degli altri..
Mentre in occidente le donne che valgono solo una rupia dal 1940 ad oggi, sono riuscite se pur in pochi paesi, a salire ai vertici del potere politico e ad impossessarsi con un immenso lavoro della parola che segna nuovi percorsi culturali, In Afghanistan, in Pakistan (e con varie differenze in altre aree del Medio Oriente), in nome dell'economia globale, di interessi governativi, di esclusivi interessi privati, le donne hanno perduto identità e dignità. "Dite voi se questa è donna/dite voi se questo è uomo", scriveva Primo Levi.
"Noi non abbiamo paura" ci dicono le giovani ragazze delle associazioni non governative, "la nostra lotta è votata al sacrificio e alla speranza"
Nei convegni dei Paesi Europei tenutisi a Goeteborg (1998) e ad Amsterdam (1999), viene individuata nella cultura di genere, una possibilità di costruzione di un'Europa pacifica. Diamo spazio alle loro voci. Ascoltiamole.

Le donne in nero
All'inizio erano otto. Era il 9 gennaio 1988. Si vestirono di nero e scesero in strada a Gerusalemme Ovest per manifestare contro l'occupazione israeliana del territorio palestinese. L'iniziativa la prese Hagar Roublev, israeliana, che da allora e fino alla sua morte, avvenuta l'anno scorso, non si risparmiò affinché il movimento crescesse in presenze e in consapevolezze. Nel 1992 organizzò il primo dibattito all'interno del movimento che dalla sua formazione era cresciuto considerevolmente. Ne uscì un manifesto, firmato da 1.200 donne, in cui si chiedeva agli uomini di ritirarsi dall'esercito. Il manifesto non fu pubblicato perché illegale. Da allora ogni venerdì tra le 13 e 14 (ora di maggiore circolazione) a Gerusalemme e a Tel Aviv, le DiN (Donne in Nero) manifestano e la sera, di ogni venerdì, in 150 case israeliane si discute e si ascoltano opinioni diverse sul conflitto. Alle molte provocazioni che le DiN hanno vissuto durante le manifestazioni, la loro risposta, come scelta di identità che da allora ha caratterizzato il loro modo di manifestare, è stato il silenzio.
Nell'agosto del 1988, partirono dall'Italia, dirette a Gerusalemme 69 donne. Luisa Morgantini (attualmente europarlamentare) fu la voce di maggior riferimento del movimento romano. Nacquero a seguire gruppi di donne in nero in molte città italiane ed europee, come ad esempio, a Belgrado. La riflessione politica all'interno dei gruppi e tra i gruppi è stata continua ed interrotta solo dalla recrudescenza o dallo scoppio di conflitti (ex Jugoslavia, guerra del Golfo). Il movimento pacifista delle DiN che esprime in ogni città autonomia di movimento, di riflessione e differenti modalità organizzative, a Roma, oggi, attraverso Nadia Cervoni, cerca di definire quale percorso di convivenza sia possibile costruire tra chi vive i conflitti; sono divenute la realtà più visibile della campagna sul disarmo; uno dei punti di riferimento, tra le associazioni pacifiste romane, per la lotta ai diritti violati in campo internazionale; creano inoltre reti di informazione e sensibilizzazione sulle ricadute ambientali e l'inquinamento bellico.
Elisabetta Donini, scienziata, punto di riferimento delle DiN di Torino, sottolinea, in una conferenza, che costruire amnistia vuol dire anche combattere l'amnesia: vuol dire affidare alle urgenze la costruzione di resoconti onesti del passato affinché ciascun soggetto sia portatore ed elaboratore di memoria. E' stata su molti luoghi di conflitto, Elisabetta Donini e, ci racconta, che molte famiglie palestinesi profughe del 1948, conservano ancora la chiave della casa da cui sono uscite. Ci ricorda ancora Elisabetta Donini che uno degli "slogan" delle DiN i cui governi e movimenti armati sono in lotta è "ci rifiutiamo di essere nemiche".
Le donne in nero, hanno assunto come valore etico l'impegno all'ascolto di ogni differenza e in cui le diverse ragioni dell'altra, le diverse modalità di azione, non divengono mai negazione ma, semmai, ragione di discussione e ulteriore confronto. Le donne in nero italiane, manifestano sui luoghi dei conflitti, ed oltre che in Israele, a Sarajevo, Belgrado, Vecinj (Montenegro); sono presenti alla conferenza mondiale delle ONG tenutasi a Pechino nel 1996, sempre autofinanziandosi. Sono intellettuali, casalinghe, impiegate, libere professioniste, artiste. Ognuna mette a disposizione ciò che ha, ciò che può. Ovunque vadano a manifestare indossano abiti neri.
Ma perché il nero? Per Hagar Roublev, nero è il teatro, nero è la rappresentazione scenica, nera era la possibilità di essere visualizzate anche da lontano, nero è il colore del dolore dei morti.
Ma il nero è prima e dopo la morte. Il nero diviene colore di lutto con l'avvento della cultura "Kurgan", una cultura neolitica risalente al VII millennio a.C., che emerse nel bacino del Volga e produsse armi letali. La cultura del "Kurgan" s'impose sulla "gilania", sistema sociale diffuso in Europa e in Anatolia e in cui le donne ricoprivano un ruolo dominante. Il nero in questa cultura pacifista e creativa era simbolo di rigenerazione, di vita, di fertilità, di reggitrice di morte. Non già dunque di lutto, come ci spiega Marija Gimbutas. Nero è dunque simbolo di creazione, creatività. E consapevolmente o no, le DiN, usano il nero proprio nel suo valore simbolico più arcaico. Probabilmente da un punto di vista antropologico, potremmo dire che il nero è fortemente ascritto nella memoria genetica di ogni donna, con tute le variabili che le culture d'ogni tempo hanno ad esso assegnato.