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IL MANIFESTO del 27/12/2001
Il secolo delle artiste
Un percorso tra saggi e monografie di case editrici italiane
e straniere sull'arte novecentesca delle donne. Una inedita
mappatura che rintraccia nomi e protagoniste, continuità
e rotture, e che riserva non poche sorprese
ELENA DEL DRAGO
Tra le novità
liete che il 2001 ci ha riservato, dobbiamo registrare la notevole
attenzione dedicata da diverse case editrici italiane e straniere,
a quegli studi volti a riscoprire e valorizzare la storia dell'arte
moderna e contemporanea al femminile. La conferma di una consolidata
tradizione nei paesi di lingua anglosassone sul solco dei Women's
Studies centrati attorno alla nozione di gender, una novità
più recente per l'Italia sull'onda, probabilmente, di
un'accresciuta presenza di donne artiste nel panorama contemporaneo.
In questo lavoro di ricostruzione geneologica si è resa
necessaria una doppia "decostruzione" per poter legittimare
l'operato delle moltissime artiste dimenticate: la prima riguarda
il metodo narrativo, la seconda l'immagine dell'autore-donna.
Quindi, con altrettanta urgenza, si sta affrontando una ricostruzione
d'archivio, ricca di molte sorprese: infinitamente alto è
infatti il numero di artiste registrate, rispetto a quelle di
cui si conserva notizia. Qualche esempio: nella Parigi impressionista,
dei tremila pittori operanti, mille erano donne, quindi il 25%,
una percentuale straordinariamente elevata.
Tra le pioniere di una storia dell'arte femminista, Griselda
Pollock è riuscita a rileggere la storia modernista alla
luce di un nuovo ruolo autoriale femminile, ricostruendo quello
che viene chiamato il campo sociale dell'arte. Analizzando per
esempio le opere delle uniche impressioniste note, Mary Cassatt
e Berthe Morisot, la studiosa inglese ha notato la netta prevalenza
di alcuni temi trattati rispetto ai lavori dei loro colleghi
maschi. Salotti, camere da pranzo, balconi e terrazze, ovvero
luoghi del privato accanto a quelli dell'identificazione pubblica
borghese: palchi a teatro, gite in barca, passeggiate a cavallo.
Quella che manca è, a ben vedere, una delle costanti
della storia artistica maschile, la sessualità: non a
caso una delle opere basilari del Novecento, "Les demoiselles
d'Avignon" di Picasso, nasce in un bordello situato nella
via che diede nome al quadro. Spazi delimitati e ruoli stabiliti
comportano quindi, inevitabilmente, una visione differente:
"c'è poco spazio estraneo per distrarre l'osservatore/trice
dall'incontro inter-soggettivo o per ridurre le figure ad accessori
o ad oggetti di sguardi voyeristico. All'occhio non è
concessa la sua solitaria libertà", scrive Pollock
nell'unica traduzione italiana esistente del suo lavoro, pubblicata
nel libro curato da M. Antonietta Trasforini Arte a parte (Franco
Angeli, pp. 182, 17,56 euro). Un libro questo, nato proprio
dall'esigenza di colmare la lacuna italiana rispetto a quanto
hanno prodotto all'estero trenta anni di studi specifici. Ecco
dunque succedersi analisi che dall'impressionismo passano al
gruppo post-automatiste del Quebec nello scritto di Rose Marie
Arbour o alle creatrici di moda d'avanguardia (Coco, Chanel,
Elsa Schiapparelli, Vivienne Westwood..) raccontate da Diana
Crane, per finire nello spazio virtuale cyberfemminista esaminato
da Victoria Vesna.
Particolarmente interessante lo scritto della curatrice dedicato
alle artiste nell'Italia degli anni '70, una generazione "non
troppo studiata", scrive Trasforini "data la sua collocazione
tra le altre due di tono maggiore: da un lato quella della guerra
(e in Italia della Resistenza), che la precede, dall'altro quella
degli anni Settanta e della contestazione che viene dopo."
Una generazione di "decostruzioniste ante litteram",
avvezze cioè a un metodo lavorativo abbondantemente utilizzato
in epoca post moderna. Lucia Marcucci, Mirella Bentivoglio,
Ketty La Rocca, Marilla Battilana, utilizzarono infatti nell'Italia
degli anni '70, quando si andava affermando anche da noi il
sistema di informazione di massa che negli Usa aveva influenzato
una vasta produzione artistica, modi di decostruzione successivamente,
e con ben altro riscontro mediatico e mercantile, portati in
auge dal lavoro di artiste come Cindy Sherman e Barbara Kruger.
Il linguaggio in questione viene smontato per svelare i diversi
ruoli dell'autore e dello spettatore, per evidenziare il proprio
messaggio: Mirella Bentivoglio, artista e critica, utilizza
in una serigrafia del 1975, solo tre lettere del logo per antonomasia,
quello della coca cola, e lo racchiude in un cuore. Il risultato
è un "oca" evidenziato e intitolato Il cuore
della consumatrice obbediente.
Specificatamente dedicato all'analisi storica di artiste e critiche
italiane è invece il libro appena edito da Meltemi, L'arte
delle donne nell'Italia del Novecento (a cura di Laura Iamurri
e Sabrina Spinazzè, pp. 287, 18,59 euro). Si parte dalle
futuriste che, come scrive Franca Zoccoli, "sono un tipico
esempio di esclusione del canone, un caso di ordinaria obliterazione:
pochi sanno che parecchie donne operarono all'interno del futurismo.
Eppure al loro tempo avevano raggiunto un'indiscussa notorietà,
erano rispettate e apprezzate per le loro opere, partecipavano
alle rassegne più importanti in Italia e all'estero,
ricevevano premi, venivano recensite dai massimi critici del
tempo."
Nonostante la nota misoginia del fondatore del Futurismo infatti,
le donne aderirono numerose a questo movimento, convinte che
la sfida entusiastica lanciata alle convenzioni borghesi avrebbe
finito per smantellare anche i ruoli femminili consolidati,
allargando l'esperienza estetica fino a comprendere la quotidianità.
Alma Fidora, Rougena Zatkova, Rosa Rosà, Benedetta, (nota
soprattutto perché moglie di Marinetti) e Marisa Mori
sono tra le artiste che hanno operato in ambito pittorico, individualmente,
(al contrario dei colleghi maschi non hanno mai lavorato in
gruppo), unendo ricerche stilistiche in qualche caso innovative,
ad un audacia morale, quasi fisica, sorprendente.
Quindi con il saggio di Sabrina Spinazzè, dedicato alle
artiste durante il ventennio fascista, si scopre che ben 693
erano le artiste professioniste registrate ufficialmente in
quel periodo, secondo un censimento del 1941. Scopriamo inoltre
che, parallelamente alla promulgazione di numerose leggi discriminatorie
verso le donne, (un decreto del 1938 metteva un limite del 10%
all'impiego pubblico femminile), poiché necessitava di
una mobilitazione di massa, il regime non sdegnò di riunire
anche queste ultime in una miriade di associazioni di partito,
tra le quali quella dedicata all'arte. In questa nazionalizzazione
forzata, lo stile pittorico delle artiste fu in qualche modo
costretto a modularsi su temi, tecniche e stili considerati
tradizionalmente maschili come lo sport, oppure come l'affresco
di grandi pareti celebrative, anche per riuscire ad ottenere
l'attenzione dei critici che per dispensare il massimo riconoscimento
possibile utilizzavano l'aggettivo "virile". Si arriva
quindi alla contemporaneità, quando ormai l'arte al femminile
è un fenomeno diffuso, piuttosto in voga, definitivamente
uscito da qualsivoglia lotta per il diritto all'esistenza. Anche
in questo caso l'Italia costituisce però un'eccezione,
attribuibile proprio, almeno in parte, alla scarsezza di apporti
istituzionali e accademici. Soltanto dagli inizi degli anni
'90 infatti, viene data attenzione a un'arte femminile completamente
rinnovata. Come scrive Emanuela de Cecco (già autrice
con Gianni Romano di Contemporanee, Costa & Nolan editori
Associati, Ancona-Milano, pp. 390, 21,69 euro): "Negli
anni Novanta il panorama dell'arte cambia radicalmente, ovviamente
in relazione con il mutato clima culturale, sociale, politico.
Il rinnovato interesse per le microstorie, per il quotidiano,
per ciò che è immediatamente vicino, la riscoperta
della dimensione intima e la necessità di tenerne conto
parlando del sociale, sono alcuni degli atteggiamenti che, in
questi anni, riemergono diffusamente."
Si sente insomma il desiderio di lavorare sulla realtà,
e di farlo con strumenti considerati tradizionalmente secondari:
fotografia, video e performance, ma anche attività più
prettamente artigianali come il ricamo, che hanno indubbiamente
un portato storico inferiore alla pittura o la scultura.
Eva Marisaldi, Grazia Toderi, Luisa Lambri, Bruna Esposito e
Liliana Moro prima, Elisabetta Benassi, Paola Pivi, Ottonella
Mocellin, Sabrina Mezzaqui, Letizia Cariello o Alessandra Tesi
più recentemente, hanno per esempio ottenuto riconoscimenti
anche internazionali, seppur correndo il rischio di essere accorpate
aldilà delle profonde differenze che distinguono il loro
operare artistico, in virtù di una stessa appartenenza
generazionale e di sesso.
Un rischio particolarmente evidente in un volume recentemente
edito dalla Taschen e ad aprile disponibile anche in italiano,
Women artists. (Uta Grosenick, pp. 572, 32 euro). Forte dell'esperienza
di Art at the turn of the millenium, guida attraverso il successo
artistico internazionale, diventato un vero e proprio must,
e riproposto come bloc-notes o calendario, la casa editrice
tedesca tenta la stessa operazione proprio affidandosi ai talenti
femminili. Nello stesso calderone finiscono così, unite
soltanto dal riconoscimento di critica e di mercato, espressioni
tanto differenti come le fotografie frontali di Rineke Dijkstra,
le pitture di Elke Krystufek o le pratiche ironiche e femministe
delle Guerilla Girls.
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