CINEMA, Il canto di Paloma di Claudia Llosa, 2009

by Donatella Massara on maggio 26, 2009

 

ll canto di Paloma di Claudia Llosa ha giustamente vinto il primo premio l’Orso d’oro al Festival di Berlino, 2009. E’ importante che un film di una donna con ‘questa’ opera abbia vinto. Non è un lavoro che parte da un soggetto neutro con la pretesa tacita di essere universale è apertamente il film di una donna sulle donne e la guerra con gli uomini che ha nello stupro l’arma terribile di sopraffazione, di violenza, di morte. Parlando attraverso una storia femminile, l’autrice di un film da lei scritto e diretto, parla a tutti. E ci riesce non imponendo agli occhi del mondo una realtà cruenta e documentata, ma una favola che obbliga a farsi delle domande e che ci coinvolge nella sofferenza.

Il canto di Paloma racconta una storia e come tutte le storie dice di qualcosa che potrebbe includerne altre e così all’infinito fino ad arrivare a un fondo oscuro che non sappiamo che cos’è ma sentiamo vuole parlare di noi. Tutt’altro che obbligante nelle identificazioni il film quasi ci costringe a starne fuori con riferimenti, storia e soggetti reali tenuti nella lontananza. Se fino dalla prima scena nello strazio della perdita di una madre veniamo chiamate dentro al film, stiamo attente a non pensare che la storia che le fa da sfondo ci sia lontana, perchè non sono passati molti anni dalle guerre sulla porta di casa nostra in Kossovo, prima in Bosnia e nel mondo dove avvengono fra città e campagna con modalità simili a quelle a cui nel film si allude.

Faustina è figlia di una donna violentata durante la guerra civile che si svolge negli anni ’90 in Perù e l’orrore avvenne mentre la madre era di lei incinta. La ragazza è cresciuta con il latte della paura e come dicono i suoi famigliari non ha più l’anima. Legata alla madre da un amore totale si parlano cantando, esprimendo i loro pensieri in una nenia che cambia ogni volta, inventando parole e liberando l’anima dalla costrizione del dolore. Muore l’anziana donna e lei non riesce a seppellirla come vorrebbe. La sua storia comincia qui e si svolge in gran parte fra due luoghi perchè lei non esce mai di casa da sola, la villa dove va a servizio e il barrio della famiglia di origine dove ogni tanto ritorna. Sul lavoro conosce un giardiniere, l’unico a chiederle che cosa le sia mai capitato se fra tanti fiori bellissimi ha scelto sempre e solo le margherite.

In un linguaggio sommesso e volutamente raffreddato, in un seguire di scene che sono drammatiche e subito dopo recuperate a una quieta normalità, il film si sviluppa parlando solo apparentemente in un tempo che non ha storia, in un clima di realismo magico, come è stato detto nelle recensioni. Il tempo della sessualità femminile, della violenza che ha subito e di quanto lega una madre a una figlia in realtà circoscrive bene il tempo storico.

Questo tempo della storia è quello fra due generazioni. C’è quella della madre che ha vissuto, ha visto e racconta il suo dolore per un mondo di uomini che non ha avuto pietà di lei e del suo compagno ucciso dai violentatori e il cui membro era stato evirato per darglielo in pasto mischiato con la polvere da sparo. Da questo orrore nasce Faustina che ha bevuto per crescere il latte della paura, e che già dal ventre della madre ha visto il terrore. Ma la generazione di Faustina non ha in verità visto niente e neppure vissuto nulla in prima persona, lei ha un’atavica paura che le impedisce di parlare, di raccontare non avendo la materia prima per esprimersi, la vita e l’esperienza, differentemente da sua madre. Questo latte non è una metafora, è un vero alimento di cui parla lo zio al medico che la prende in cura. Perchè Faustina sta male dopo la morte di sua madre perde sangue dal naso. Ma non c’è solo quello, nella visita ginecologica le scoprono una patata infilata nella vagina, una patata germogliata – come succede dopo qualche mese dal raccolto a qualsiasi tubero- che le porta infezioni. Faustina ha una patata dentro al suo corpo <<per essere schifosa>>, perchè questo è l’unico modo a tenere lontani gli uomini che potrebbero assalirla. Il latte della paura la costringe a usare tutte le sue energie a difendersi e farsi invisibile ma per la paura canta e inventa le sue storie di dolore. E quando viene allettata dalla collana di perle che le offre la signora della casa, pianista, riesce a offrirle lo spunto che cercava, perchè a vuoto di ispirazione è con il motivo di Fausta che può di nuovo presentarsi in concerto con una sua composizione.

Faustina per la prima volta sorride al successo ottenuto grazie alla sua creatività ma la signora le ordina di scendere dall’auto che nella notte le riportava a casa sapendo quanto l’altra abbia paura di essere sola per strada. La ragazza si salverà, sarà portata dal giardiniere in ospedale per liberarla dalla patata germogliata e lui le lascerà sulla porta di casa la pianta di patata che ha fatto un fiore non particolarmente bello ma sbocciato. E’ il segno di una rinascita e di una conciliazione, se non delle nozze con il sesso maschile. Ma questa relazione che la libera dalla paura avviene solo dopo avere recuperate le perle che, tenute strette nella mano per tutto il tempo dell’operazione per liberarsi della patata, le hanno consentito di dare alla madre la sepoltura che voleva.

Il film è girato con inquadrature regolari ma anche fermato su particolari e angolazioni o su primissimi piani, come se il nostro occhio vedesse sempre solo una piccola porzione del reale, allo stesso tempo, mescolato a campi lunghissimi che inaspettatamente ci proiettano sullo spazio ampio dei deserti, ci include in una storia che non si è tirata indietro dalle grandi narrazioni e di queste dà un giudizio e una interpretazione. Anche la lunghissima scala senza appoggio che Faustina è obbligata a percorrere per tornare a casa sua e inerpicarsi in cima a un promontorio fa da controcampo alla scala in miniatura su cui salgono e risalgono le coppie di sposi del suo villaggio per farsi fotografare il giorno delle nozze. Ci è restituita con l’immagine la sensazione dolorosa, faticosa e smisurata di Faustina ogni volta che ritorna nel barrio dove è nata e non può confondersi con la sua ampia e variegata comunità che si accoppia con ostinata fissazione e dispiego di veli, addobbi, cortei nunziali, e spreco dei pochi risparmi. E questa coppia di immagini potrebbe essere definita l’immagine-storia del film.

La “teta desustada” (il seno spaventato) è il titolo originale del film (La teta desustada) ed è materia corrente in Perù dove la gente del popolo dice che dalla pancia della madre i feti ascoltano e vedono che cosa sta accadendo intorno a loro e che di questa paura si ciberanno. Nel film – lungi dall’essere raccontata come una nota antropologica e folclorica – l’idea trova uno svolgimento ben più forte, poetico e simbolico come se parlando di Faustina la storia riuscisse a includere tutte e tutti noi e parlasse anche al nostro spavento come alla speranza e alla capacità di sorridere del mondo e dei suoi abitanti.

 

 

Ringrazio le amiche e compagne del Laboratorio Teatrale Antonella, Maurizia, Rita e Simona e Cinzia con cui ho visto il film e per i commenti che abbiamo fatto insieme dei quali questa recensione è debitrice.