CINEMA, Testi: Il corpo delle donne e un libro che suggerisce come non accontentarsi di ‘fare’ l’attrice

by Donatella Massara on maggio 5, 2010

Da Konstantin Stanislavskij a … Marlon Brando. Indicazioni e suggerimenti per chi non si accontenta di fare l’attore ma vuole essere attore, Editoria & Spettacolo, Roma, 2006, autrice Ombretta De Biase, ha il merito di essere divertente, competente e utile. Suffragato da una solida bibliografia il libro è il racconto di esperienze vissute dall’autrice in prima persona, mediate dalle teorie. Il libro illustra sì, come in un manuale, teorie, esperienze, tipi di teatro e esercizi adatti alla costruzione dell’attore ma sempre passando per la presenza viva dell’autrice che si espone, mette in gioco, partecipa per dire il suo pensiero senza il quale è forse impossibile capire profondamente la materia di cui parla. A questo proposito serve sapere che, se è vero che oggi le maestre di teatro sono tante e molte di fama internazionale è altrettanto vero che i testi di teatro sul lavoro dell’attore sono, nella stragrande maggioranza, scritti da uomini/pedagoghi illustri.  Oggi i testi scritti dalle donne di teatro sull’argomento si possono contare sulle dita di una mano e non tutti sono tradotti da noi (fra i tradotti c’è La via dell’artista di Julia Cameron). Il libro di Ombretta De Biase si differenzia dai testi maschili e a questo deve il suo grande successo. E’ lei stessa a spiegarcelo << Io so che, scrivendolo, ho  realizzato semplicemente il  desiderio di essere utile, volevo praticare una sorta di maternage verso quelle/quei tante/i giovani che vorrebbero cimentarsi in un lavoro così impegnativo e pieno di insidie  come quello dell’attore. Volevo, in sostanza, mettermi in relazione diretta con loro dicendo “cosa e come” nel modo più semplice e diretto possibile, senza cadere nella solita trappola dell’auto-referenzialità o delle pure teorie, e questo, io credo, dipenda soprattutto dal mio essere donna.>>

Uno dei punti caldi del libro è la critica a attori e attrici italiani. <<A parte i pochi che, sacco in spalla o denaro di mammà, decidono di andare a studiare in America, in Svezia, in Francia o, meglio, in Inghilterra, gli altri restano qui e devono scegliere in base a ciò che passa il convento. E qui viene il bello. L’Italia, paese delle cento meraviglie, non si smentisce neanche in questo campo […] non possiede nella propria memoria storica la nozione e quindi la tradizione culturale di scuola di recitazione mentre ha vantato e ancora vanta grandi attori che possono però servire solo come modelli. L’unico riferimento storico di scuola italiana di recitazione è la poco accessibile, per via del limitato numero dei posti, Accademia Nazionale d’Arte Drammatica.>> Esistono i modelli, dunque, che da noi sono spesso gli attori “fai da te”, molto più diffusi di quanto si pensi. Un processo di formazione di tutto rispetto, che avvertiamo, in chi dice: <<La mia scuola è stata il palcoscenico>> e che ci ha dato una <<stirpe regale>> di attori: Totò, Eduardo, Gino Cervi, Turi Ferro, Salvo Randone, Evi Maltagliati, Gilberto Govi, Rina Morelli, Paolo Stoppa, Sarah Ferrati, Tina e Peppino De Filippo, Aldo Fabrizi, Marcello Mastroianni, Gianrico Tedeschi e altre e altri ancora. Un altro esempio di “attore di Metodo”, senza averlo mai studiato, Gian Maria Volontè, a cui il libro dedica un capitolo, <<definito da Orson Welles e Ingmar Bergman uno dei più grandi attori del mondo>> .
 
Sono un’ammiratrice di Volontè, un’altra attrice che ammiro è Anna Magnani.  Figlia senza padre, a sedici anni, per recitare e studiare all’Accademia, lasciava la nonna che l’aveva allevata, perchè la madre viveva in Egitto con il marito. Non si adattò mai a interpretare ruoli che sminuissero la sua identità di donna forte che fa valere la differenza sessuale, nella sua complessità di natura, intelligenza, pietas. E questa fedeltà, più che a sé, a un’idea non asservita di donna, è già visibile dai primi film, dove interpreta ruoli secondari ma significativi: Tempo massimo, La Cieca di Sorrento, del 1934 e Quei due del 1935. Nannarella aveva una vena drammatica che esprimeva con tutto il corpo. In epoche in cui era ancora semisconosciuta, la sua presenza scenica faceva già saltare ogni stereotipo. Questa capacità originale, non sempre valorizzata dai registi, è in azione in tutti i suoi personaggi e la spinge sempre oltre la quotidianità, dalla Rosa tatuata, con cui vinse l’Oscar, nel 1955, ai classici della storia del cinema Roma città aperta (1945) e Bellissima (1951). Meno noto ma straordinario, Nella città l’inferno (1959), tratto da un romanzo di Isa Mari, sceneggiato da Suso Cecchi d’Amico, con un cast quasi tutto femminile, dove l’attrice è al centro di una rete di relazioni fra donne che la sua presenza valorizza più che mettere in sordina. E così potrei proseguire per i suoi 51 film. Anna Magnani agiva la recitazione come tecnica, come presenza e come istinto dell’attore, un mistero, che risale ai primordi dell’umanità, rintracciabile nei riti ancestrali e di cui ci avverte Ombretta De Biase. Una personalità artistica come quella di Anna imponeva ruoli diversi a ogni film, pur restando definita dalla sua immagine: con i capelli spettinati, il trucco che le risaltava gli occhi scurissimi e le occhiaie (<<non toglietemi le rughe ci ho messo tanti anni per averle>> – aveva detto), la movenza delle mani, la risata, la carica di passione verso l’ oggetto di desiderio.
 
Però, nonostante i modelli, invece dice Ombretta De Biase, in Italia fioriscono le veline e i velini promossi dagli spettacoli di varietà, dai talk show, dai grandi fratelli e nelle fiction televisive, o al cinema. Sono quelli che per recitare si infilano nel registro della quotidianità. L’attore entra in scena come se fosse uscito fresco da casa sua, ignorando la concentrazione, lo spazio e il sé “magico”, i momenti che gli aprono la strada per entrare nel personaggio, si accontenta di una recitazione superficiale, ‘naturale’, ma senza la ricerca archetipa, profonda, rituale che accompagna il grande teatro. Quanto detto mi ha fatto venire in mente una bella caricatura di questo tipo di attore fatta nel film Il camaleonte da Michele Placido.
 
Al centro del discorso di Ombretta De Biase c’è il rinnovamento del teatro del diciannovesimo secolo, quando il naturalismo dettava legge. <<Per l’attore che avrebbe dovuto impersonare un imperatore romano era implicito mettersi la corona d’alloro in testa, senza quella che imperatore avrebbe mai potuto interpretare?…>> Nel Novecento tre sono state le linee pedagogiche innovative più note e divergenti fra loro: lo straniamento di Bertolt Brecht, il teatro, il rito e l’attore magico per Alessandro Fersen, il Metodo di Lee Strasberg. Da questi maestri del Novecento procedono altre esperienze come quelle che ci racconta l’autrice sul teatro del Sud del mondo, la grande e nostalgica esperienza dell’esilio nelle sue varie espressioni, in lingua spagnola e portoghese. E che ritroviamo ricreate nel teatro di Renzo Casali e di Coco Martinez, intervistato da Ombretta De Biase nel 1994.
 
Il leggendario piano pedagogico del Metodo, che insegna a servirsi di qualsiasi esperienza personale per recitare, fu concepito e attuato da Stanislavskij, poi riinterpretato da Lee Strasberg per l’Actor’s studio. Criticato da più parti, dalla celebre scuola inglese, ma anche da Stella Adler, sua stretta collaboratrice e poi fondatrice con Sanford Meisner e Robert Lewis del Group Theatre, rimane un riferimento per moltissimi attori americani. Ma il Metodo ha dato anche insegnanti, Motivational coach come Francesca Viscardi Leonetti e Greta Seacat, di cui nel libro possiamo leggere citazioni e l’esperienza di Ombretta durante stage e interviste.
 
Ragionando l’autrice mi ha suggerito di osservare quante donne oggi sono considerate, oltre quelle già citate, importanti maestre di recitazione. Sono acting-coatch dal sistema Stanislavskij in poi Ivana Chubbuck, Kristin Linkater, Elisa Eliot, Liliana Duca, Perla Peregallo, Dossy Peabody, Susan Strasberg.
 
Riprendiamo, quindi, il discorso sulla formazione in Italia e ripensiamo agli esempi di spettacolo dati da uomini e donne in Il corpo delle donne di Lorella Zanardo. C’è di che chiedersi come mai ci siano donne che sostengono una televisione di così insulso livello. Considerato che a noi donne piace essere brave, è strano che ci sia chi accetta di sottomettersi a livelli così bassi di professionalità.
 
Come è noto attraverso questo video siamo state messe di fronte a un quadro, non certo rivoluzionario, della presenza del corpo femminile. Alcune donne, come me, sono state costrette a vedere quello a cui, senza rimpianto, avevano rinunciato da anni, la televisione e l’immaginario maschile. I due oggetti vanno insieme. Non che non mi capitasse nei bar, in casa d’altri, nei negozi di elettrodomestici di osservare che cosa trasmetteva la televisione. Vedevo e voltavo lo sguardo, esercitando la mia libertà di lasciare agli altri il giudizio di merito. Adesso – dopo che Il corpo delle donne è diventato un caso nazionale e internazionale – in identica situazione, specie se ci sono presenti dei maschi, non so che dire: difendere, smarcarmi, giustificare, ridere, arrabbiarmi ? Le Tv intrappolate in un immaginario banale, anche se innocuo e inoffensivo confinano, però, alcune donne nella cornice del sessismo, reificazione del sesso femminile, mercificazione che sfiora la sfera pornografica. Il corpo delle donne ha avuto il potere di mettere in campo il livello della prestazione artistica che le donne sono chiamate a sostenere.
 
Mi chiedo perchè queste ragazze che vediamo per televisione non sognino di diventare una grande attrice? Forse si accontentano di quello che viene loro offerto, forse non hanno abbastanza stima di sé per volere raggiungere una posizione artistica, forse sono state convinte a non chiedere troppo all’ambizione artistica e a chiedere di più dal punto di vista del denaro, forse non devono permettersi di pensare niente per non sottrarre attenzione allo spettacolo già così modesto che stanno sostenendo e allo stesso tempo forse pensano che qualsiasi lavoro, nel campo dello spettacolo, si possa fare, con un giusto appoggio, la bellezza disponibile alla chirurgia estetica, qualche lezione di dizione.
 
Ecco che il libro, bello, leggero, appassionato e ironico di Ombretta De Biase grande conoscitrice del teatro, aiuta a capire. La spettacolarità del corpo delle donne, di cui è impossibile non vedere l’inesistenza dichiarata del profilo artistico, fa pensare che possiamo darne la colpa, anche, e magari rimediarci, alla mancanza di scuole italiane di recitazione simili a quelle che ci sono in Gran Bretagna, Francia, USA.