Donne e conoscenza storica
       
Nuria Llimona, Paisaje, oleo


Calendario 2004
Plataforma Autónoma feminista

Presentazione delle curatrici

INTRODUZIONE
Libere anche nell'arte

Biografia di Marìa Zambrano

GENNAIO
I pericoli della pace

FEBBRAIO
La conoscenza

MARZO
Le radici della speranza

APRILE
Imparare a orecchio

MAGGIO
L'esilio

GIUGNO
La convivenza

LUGLIO
L'idolatria

AGOSTO
L'invidia

SETTEMBRE
La perplessità

OTTOBRE
L'infermità dell'epoca

NOVEMBRE
Successo e risentimento

DICEMBRE
La poesia è incontro

 


MAGGIO

L'ESILIO

La vita è illuminata soltanto da questi sogni simili a lampade che rischiarano dal di dentro, guidando i passi dell'uomo nel suo incessante errare sulla Terra. Tutti, come me, in esilio senza rendersene conto, fondando una città dopo l'altra. Nessuna città è nata come un albero; tutte sono state fondate, un giorno, da qualcuno arrivato da lontano. […] E io, nel momento in cui entravamo in una città, sapevo già, per molto pietosi che fossero i suoi abitanti, per molto benevolo che fosse il sorriso del suo re, io sapevo bene che non ci avrebbero dato la chiave della nostra casa. Nessuno ci si è mai avvicinato dicendoci: "Eccovi la chiave della vostra casa, non avete che da entrare". C'è stata, sì, gente che ci ha aperto la sua porta e ci ha fatto sedere alla sua tavola, elargendoci anche più di una buona accoglienza. Ma eravamo ospiti, invitati. Né in nessuna di esse siamo mai stati accolti come ciò che eravamo, mendichi, naufraghi che la tempesta getta su una spiaggia come un relitto che è allo stesso tempo un tesoro. Nessuno ha voluto sapere cos'è che andassimo chiedendo. Che andassimo chiedendo, lo pensavano, perché ci davano molte cose, ci colmavano di doni, ci ricoprivano, come per non vederci, con la loro generosità. Noi, però, non era questo, che chiedevamo, noi chiedevamo che ci lasciassero dare. Perché portavamo qualcosa che né lì, né altrove, dove che fosse, nessuno aveva; qualcosa che quanti abitano stabilmente in una città non hanno mai; qualcosa che solamente ha chi è stato strappato alla radice, l'errante, colui che un giorno si ritrova senza nulla sotto il cielo e senza terra; colui che ha provato il peso del cielo senza terra che lo sostenga.

Nella nostra casa cresciamo come le piante, come gli alberi; la nostra fanciullezza è lì, non se n'è andata, però si dimentica. Nella nostra casa, nel nostro giardino, non abbiamo bisogno di avere tutto presente, tutto il giorno, né tenere tutta la nostra anima all'erta, tutto all'erta il nostro essere. No: in essa dimentichiamo, ci dimentichiamo. La patria, la propria casa, è prima di tutto il luogo in cui si può dimenticare. Perché ciò che è stato depositato in un suo angolo non si perde. […] Perché i silenzi della casa e il suo rumore, quel ronzio di api che vanno e vengono, purificano e accompagnano E quel suo tempo inesauribile e rinascente, come il Mare.

Così è la patria, Mare che raccoglie il fiume della moltitudine. Quella moltitudine, il Popolo, in cui uno procede senza macchiarsi, senza perdersi, tenendo lo stesso passo dei vivi, dei morti.
E quando si esce da quel mare, da quel fiume, soli tra cielo e terra, bisogna raccogliere tutte le proprie forze, e accollarsi il proprio peso; bisogna unificare tutta la vita passata che ritorna presente, e tenerla sollevata perché non si trascini.

Marìa Zambrano, La tomba di Antigone, trad. e introduzione di Carlo Ferrucci, La Tartaruga edizioni, Baldini & Castoldi, Milano, 2001, p.118-120
(La tumba de Antígona, Mondadori, Madrid,1989, p. 90 -92)