Presentazione
delle curatrici
INTRODUZIONE
Libere anche nell'arte
Biografia
di Marìa Zambrano
GENNAIO
I pericoli della pace
FEBBRAIO
La conoscenza
MARZO
Le radici della speranza
APRILE
Imparare
a orecchio
MAGGIO
L'esilio
GIUGNO
La convivenza
LUGLIO
L'idolatria
AGOSTO
L'invidia
SETTEMBRE
La
perplessità
OTTOBRE
L'infermità dell'epoca
NOVEMBRE
Successo e risentimento
DICEMBRE
La poesia è incontro
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MAGGIO
L'ESILIO
La
vita è illuminata soltanto da questi sogni simili a lampade
che rischiarano dal di dentro, guidando i passi dell'uomo nel suo
incessante errare sulla Terra. Tutti, come me, in esilio senza rendersene
conto, fondando una città dopo l'altra. Nessuna città
è nata come un albero; tutte sono state fondate, un giorno,
da qualcuno arrivato da lontano. [
] E io, nel momento in cui
entravamo in una città, sapevo già, per molto pietosi
che fossero i suoi abitanti, per molto benevolo che fosse il sorriso
del suo re, io sapevo bene che non ci avrebbero dato la chiave della
nostra casa. Nessuno ci si è mai avvicinato dicendoci: "Eccovi
la chiave della vostra casa, non avete che da entrare". C'è
stata, sì, gente che ci ha aperto la sua porta e ci ha fatto
sedere alla sua tavola, elargendoci anche più di una buona
accoglienza. Ma eravamo ospiti, invitati. Né in nessuna di
esse siamo mai stati accolti come ciò che eravamo, mendichi,
naufraghi che la tempesta getta su una spiaggia come un relitto che
è allo stesso tempo un tesoro. Nessuno ha voluto sapere cos'è
che andassimo chiedendo. Che andassimo chiedendo, lo pensavano, perché
ci davano molte cose, ci colmavano di doni, ci ricoprivano, come per
non vederci, con la loro generosità. Noi, però, non
era questo, che chiedevamo, noi chiedevamo che ci lasciassero dare.
Perché portavamo qualcosa che né lì, né
altrove, dove che fosse, nessuno aveva; qualcosa che quanti abitano
stabilmente in una città non hanno mai; qualcosa che solamente
ha chi è stato strappato alla radice, l'errante, colui che
un giorno si ritrova senza nulla sotto il cielo e senza terra; colui
che ha provato il peso del cielo senza terra che lo sostenga.
Nella nostra casa cresciamo come le piante, come gli alberi; la nostra
fanciullezza è lì, non se n'è andata, però
si dimentica. Nella nostra casa, nel nostro giardino, non abbiamo
bisogno di avere tutto presente, tutto il giorno, né tenere
tutta la nostra anima all'erta, tutto all'erta il nostro essere. No:
in essa dimentichiamo, ci dimentichiamo. La patria, la propria casa,
è prima di tutto il luogo in cui si può dimenticare.
Perché ciò che è stato depositato in un suo angolo
non si perde. [
] Perché i silenzi della casa e il suo
rumore, quel ronzio di api che vanno e vengono, purificano e accompagnano
E quel suo tempo inesauribile e rinascente, come il Mare.
Così è la patria, Mare che raccoglie il fiume della
moltitudine. Quella moltitudine, il Popolo, in cui uno procede senza
macchiarsi, senza perdersi, tenendo lo stesso passo dei vivi, dei
morti.
E quando si esce da quel mare, da quel fiume, soli tra cielo e terra,
bisogna raccogliere tutte le proprie forze, e accollarsi il proprio
peso; bisogna unificare tutta la vita passata che ritorna presente,
e tenerla sollevata perché non si trascini.
Marìa
Zambrano, La tomba di Antigone, trad. e introduzione di Carlo
Ferrucci, La Tartaruga edizioni, Baldini & Castoldi, Milano, 2001,
p.118-120
(La tumba de Antígona, Mondadori, Madrid,1989, p. 90
-92)
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